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lunedì 19 giugno 2017

Armiamoci e partiamo: anche i nostri stivali nel deserto afgano

Leggendo La Repubblica di domenica scorsa abbiamo saputo che il ministero della Difesa italiano ha in mente di spedire altri cento soldati in Afghanistan. Non contenti di avere il contingente più numeroso dopo quello americano, qualcuno ha già deciso, ancor prima che ne fosse informato il parlamento (che almeno teoricamente deve avere l'ultima parola) che altri cento ragazzi partano per una missione militare che ormai sta per compiere diciott'anni e che, nonostante si sia rivelata un disastro, anziché uscire di scena sceglie di restare e anzi di rilanciarsi. Cosa faranno cento soldati in più non si sa ma par di capire, dall'articolo del giornale, che ci sia anche una necessità di scambio di favori perché ci sono in ballo posti di comando che qualche nostro generale potrebbe occupare. Dove? Nella casa della guerra, quell'Alleanza atlantica sempre in cerca di nemici che ne giustifichino l'esistenza. Fare un favore a Trump in questo momento potrà pure fruttare qualche poltrona ma è anche l'ammissione di un vassallaggio privo di strumenti critici in una guerra che tutti sanno perduta e dove la presenza straniera è un elemento che anziché frenarla continua a gettare benzina sul fuoco. Distratti dal sistema tedesco (a proposito, la Merkel ha risposto picche alla proposta di aumentare i suoi soldati)  i parlamentari e le forze politiche subiscono: dal governo all'opposizione, dalla Sinistra ai Cinque stelle, che tanto si erano vantati di aver reiterato la richiesta di ritiro dei nostri soldati. Il tema è il solito: a furia di guardarci l'ombelico lasciamo che le cose in politica estera vadano come devono andare e come il padrone comanda. Che triste esempio di sovranità nazionale. Chissà se i vari sovranisti nazionali se ne rendono conto

Il “si” italiano seguirebbe quello di altri Paesi che, come Regno Unito e Danimarca, hanno già promesso alla Nato il loro appoggio al surge americano, anche quello per ora affidato solo a indiscrezioni di stampa. Stando al capo del pentagono James Mattis.  i dettagli della nuova missione saranno chiariti definitamente a metà luglio. Il dibattito intanto infuria. E mentre sui giornali ci si chiede a cosa serve il nuovo “surge” americano in un Paese dove la missione militare non sta ottenendo risultati, il massimo teorico del “surge”, il generale in pensione David Petraeus, non solo ha dato il suo appoggio all’invio di nuovi soldati ma ha chiarito, in un'intervista, alcuni dei dettagli che probabilmente Mattis si prepara e mettere nero su bianco: non solo, dice l’ex teorico del surge in Irak e Afghanistan, 3 o 5mila soldati sono un numero “sostenibile”, ma gli Stati Uniti devono “sciogliere le restrizioni" ancora in piedi nell’uso della forza aerea. Se non si dovesse render più conto nemmeno a Kabul di quel che si fa, quello militare diventerebbe uno strapotere che ha già comunque dato un segno nell’aprile scorso col lancio della famosa Moab da 11 tonnellate di esplosivo. Operazioni di cui, ancora una volta, stiamo diventando non solo silenti spettatori ma solerti conniventi.

A seguire per il manifesto un'analisi a 4 mani con G. Battiston

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