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venerdì 29 dicembre 2017

Lo Stato islamico nel caos permanente afgano

Sfiora i cento morti la prima grande  strage da iscrivere allo Stato islamico e al suo progetto del Grande Khorasan. Avviene a Kabul, nel luglio del 2016. Al Baghdadi ha già tentato di insediarsi sulla frontiera orientale e sta cercando adepti in Pakistan sfruttando la fragilità del cartello dei talebani pachistani riuniti sotto l’ombrello del Tehrek Taleban Pakistan (Ttp). La rivendicazione arriva rapidamente ma non servirebbe: la strage ha come obiettivo una manifestazione pacifica di hazara, la minoranza sciita del Paese, che si oppongono a un progetto idrico che bypassa la loro area. Da quel momento, sempre più in difficoltà sul piano militar-territoriale, invisi alla popolazione locale, inseguiti dai soldati afgani e della Nato ma, soprattutto, dai talebani, gli adepti del progetto di Al Baghdadi ripiegano sugli attentati. L’ ultimo è quello rivendicato ieri che colpisce infatti sciiti e giornalisti, questi ultimi entrati nel mirino dei terroristi assieme a chi devia, come gli hazara, dalla retta via. La scia è lunga: nel marzo di quest’anno lo Stato islamico entra in un ospedale militare e fa strage. In ottobre – non è l’ultimo né il primo attacco a un tempio sciita – una moschea è teatro di una mattanza di 39 persone. Gli episodi contro gli sciiti sono ricorrenti a Kabul e altrove.


Per i giornalisti il 2017 è un anno nero anche se la colpa non è solo degli islamisti ispirati da Raqqa (l’organizzazione Nai-Supporting Open media in Afghanistan lamenta 141 incidenti con accuse per il 44% dei casi al governo e per il 33% alla guerriglia). Ma se anche i talebani hanno colpito i media (famoso l’attacco a un pulmino di dipendenti di Tolo Tv) lo Stato islamico attacca in maggio la tv di Stato a Jalalabad uccidendo sei persone. In novembre è la volta di Shamshad Tv, una stazione privata. Ieri tocca all’Ava News Agency, colpevole di essere finanziata dagli iraniani sciiti. C’è altro: il 31 maggio un camion bomba che ha come obiettivo il quartiere diplomatico scoppia prima del tempo e uccide più di 150 persone. Non c’è rivendicazione e resta uno dei tanti attentati senza padrini ma lo Stato islamico rimane tra gli indiziati. Creare il caos e il terrore ovunque e comunque. Gli epigoni di Al Baghdadi scelgono l’ultima via rimasta per far vedere che ancora sopravvivono.

Con la caduta della basi in Medio oriente, lo Stato islamico e il suo progetto contano probabilmente di ritornare nell’alveo della madre di tutte le guerre sante: l’Afghanistan. Ci ha convissuto Osama bin Laden, ci si è formato Abu Musad Al Zarkhawi, ci sono talebani afgani e transfughi – non sempre ben digeriti – dai territori pachistani dove l’esercito di Islamabad sta cercando di liberarsi di uzbechi, ceceni, uiguri. Ma la frontiera porosa tra i due Paesi, i dissidi tra Kabul e Islamabad e la politica americana (ondivaga, brutale e ormai completamente declinata sul solo piano militare) forniscono il terreno di coltura migliore e forse il rifugio più sicuro per chi scappa da Raqqa o da Mosul. Può essere che i numeri siano esagerati, ma se è vero – come sostiene Mosca – che lo Stato islamico può contare in Afghanistan su 10mila combattenti, questo significa che l’afflusso di stranieri è ricominciato verso il santuario migliore per un combattente di professione: la guerra permanente.

Caduta nell’oblio, la guerra afgana è la più lunga guerra del secolo e si avvia a competere con i vent’anni del Vietnam, il conflitto che segnò la più grave sconfitta di Washington nel secolo passato.

Ma se in Pakistan lo Stato islamico ha trovato adepti tra i fuoriusciti del cartello talebano-pachistano, in Afghanistan per loro è più dura. I talebani afgani, che rimarcano da sempre la loro essenza di movimento di liberazione nazionale, non hanno mai accettato di buon grado i combattenti stranieri fatta eccezione per i militanti islamisti pachistani, la gran parte dei quali appartiene alla comunità pashtun, la stessa da cui provengono gli studenti di religione afgani. Anche con bin Laden si limitarono ad essere ospitali ma non erano interessati – fu spiegato più di una volta – al jihad globale. State a casa vostra, è sempre stato il messaggio, e vi lasceremo in pace. Ecco perché lo Stato islamico ha avuto vita dura in Afghanistan. Ecco perché, forse, c’è persino un legame tra l’attacco di ieri e la richiesta di 700 religiosi afgani al governo perché i talebani aprano un ufficio politico a Kabul. E’ paradossale ma nella lotta allo Stato islamico la guerriglia in turbante è il miglior alleato.

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