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mercoledì 23 gennaio 2019

Noi non abbiamo paura della bomba

I borghi italiani riservano sempre qualche sorpresa. Piacevole o spiacevole a seconda dei casi e, molto spesso, addirittura al contrario di quel che sembrerebbe osservando una carta geografica o un depliant turistico. Su googlemap ad esempio, la cittadina di Ghedi, 18mila abitanti e 18 chilometri di distanza da Brescia, sembra un’oasi di verde nel disastro urbanistico industriale della Lombardia. Colleabeato al contrario, che di abitanti ne ha solo 4mila, a tutta prima sembra soltanto un pezzo della cintura urbana del capoluogo che sale in Val Trompia, un’area del bresciano dove gli insediamenti arrivano a ospitare anche 1200 persone per kmq. A leggere di Ghedi sulla carta si scopre una chiesa del XVII secolo, sorta su un’antica pieve, con un campanile del Quattrocento, un palazzo comunale di origine medievale, logge e resti di un monastero francescano. Al contrario a Collebeato non c’è molto altro se non alcuni palazzi nobiliari di antichi notabili come i Martinengo. Bisogna andarci allora, a Ghedi e a Collebeato, per alzare il velo di una realtà che, nel primo caso, ci si guarda bene dal pubblicizzare.

Nonostante i vanti architettonici, Ghedi in sé non è di grande interesse. E’ un borgo vasto e moderno con un centro rimaneggiato più volte e dominato da un parcheggio. Ma lasciato il centro abitato, percorrendo una decina di chilometri verso Castenedolo, si incontra l’aeroporto militare adesso sede dei “Diavoli rossi” del 6º stormo dell’Aeronautica e, prima, anche della pattuglia acrobatica delle Frecce Tricolori. Dentro la lunga cancellata ricoperta di teli verdi e sormontata dal filo spinato che si può percorrere in auto per circa 3 chilometri e mezzo – tanto è lungo il confine Sud dell’aeroporto – la base è però anche altro. Molto altro.

In base a un accordo bilaterale di ‘condivisione nucleare’ (Nuclear Sharing) l’Italia ospita da quasi settant’anni un certo numero di bombe atomiche americane. Oggi sono testate denominate B-61 e dovrebbero essere una cinquantina. Condizionale d’obbligo perché i dati non sono ufficiali ma coperti da segreto militare: una trentina sarebbero stoccate nella base americana di Aviano in Veneto e altre venti nella base italiana di Ghedi, dove i Diavoli rossi convivono con lo squadrone di soldati americani che le ha in custodia. Le atomiche del sito bresciano possono dunque essere impiegate dai cacciabombardieri Tornado del 6º stormo almeno fino a che non saranno sostituiti dagli F-35, di cui due esemplari già si trovano negli hangar dell’aeroporto. I campi attorno alla base sono un’enorme area di rispetto costellata di cartelli che avvertono del rischio di incontrare aerei “a bassa quota” e, all’ingresso del centro abitato, proprio sotto la scritta “Ghedi”, si legge che si tratta di un Comune “video-sorvegliato”. Siete avvisati. E se provate a fare una telefonata col cellulare, prende con difficoltà.

Ufficialmente però quelle bombe non esistono. “Il motivo di questo segreto – dice Carlo Tombola dell’Osservatorio sulle armi leggere (Opal) di Brescia – sta nell’imbarazzo dei nostri governi che non hanno alcuna autonomia nazionale in questa materia anche se alcuni Stati membri della Nato si sono rifiutati di ospitare testate nucleari. Si tace per non perdere credibilità e anche per non allarmare i cittadini”. “La storia delle atomiche girava nel bresciano sin dagli anni Ottanta. Tutti però negavano”, dice Adriano Moratto del Movimento Nonviolento, un'associazione storica che deve la sua fondazione ad Aldo Capitini, il pacifista italiano che incarnò la non violenza declinandola nella marcia Perugia Assisi. Adriano Moratto è, assieme a don Fabio Corazzina, la memoria storica di un movimento dal basso che, con costanza e determinazione, ha sempre cercato di far uscire la verità. Contestando una scelta che feriva ancora di più un territorio martoriato da fumi industriali, siti pattumiera (come quello di Montichiari: 23mila abitanti e 21 discariche, raccontate dall’inchiesta di Marina Forti “Mala Terra”), da fabbriche di armi molto influenti sulla politica e sui giornali: capaci di esercitare il ricatto dell’occupazione su sindacati e partiti della sinistra. Incontriamo i due attivisti a Brescia nella parrocchia San Maria in Silva, dove un gruppo di bambini di ogni colore sta provando un repertorio di canzoni in lingue diverse. Moratto e Corazzina incarnano l’anima laica e quella religiosa a braccetto in una battaglia civile. Spesso osteggiata o mal tollerata. “Il mondo cattolico ha fatto tanto: le Acli, l’Azione cattolica, la Pastorale giovanile fin dall’inizio, ma dai vertici... niente. Eppure basterebbe prendere alla lettera le parole dice Francesco“, un pontefice che sulla guerra ha posizioni molto nette. E la sinistra? “Si certo, qualche “cane sciolto” dei partiti o del sindacato ci veniva alle nostre manifestazioni – ricorda Moratto – ma al vertice… Poi ci fu il fervore sul referendum contro il nucleare ma era il nucleare civile. Le atomiche sono un’altra cosa”.


Quel movimento però fa tanto e ci si aggiungono altri laici e altri cattolici: i focolarini, gli scout, Pax Christi e, aggiunge Moratto, “piccole associazioni o centri di ricerca magari di quattro cinque studenti di cui ho scoperto l’esistenza quasi per caso”. Ma, avverte don Fabio, “bisogna anche esser pragmatici e trasformare gli ideali in leggi, provvedimenti, ratifiche”. Nasce così un collegamento sempre più forte con gruppi di ricerca strutturati come Opal o coordinamenti nazionali come Rete Disarmo o Mayors for Peace. E qui arriviamo a Collebeato... (segue)

Leggi tutto l'articolo su Internazionale dove è uscito nella versione online  il 14 gennaio scorso

Fig 1 Esplosione nucleare
Fig 2  L’aeroporto di Ghedi nella nebbia
Fig 3 Un manifesto sulle bombe a Ghedi
fig 4 Una foto apparsa su fb tratta da Milex: in posa a Ghedi davanti a una B61


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