Dopo 18 anni di guerra e 18 mesi di discussioni, 32mila civili uccisi negli ultimi dieci anni, 45mila soldati afgani ammazzati solo negli ultimi cinque e oltre 2.400 militari americani morti, la guerra sembra lasciar finalmente spazio alla speranza. Ma benché il 29 febbraio sia un giorno da celebrare e il ruolo di Cassandra sempre antipatico, la prudenza è d’obbligo. Un accordo preliminare, quello siglato ieri, non è ancora un negoziato sulla pace che per essere tale – e qui sta il macigno maggiore – deve far incontrare gli afgani: talebani, governo e società civile (termine da prendere con le molle).
I talebani, apparentemente forza omogenea almeno nella conduzione del negoziato con gli americani, si trovano di fronte una compagine governativa spaesata se non in disfacimento guidata al momento ancora dall’ex presidente Ghani e dal “co presidente” Abdullah. Com’è noto entrambi hanno cantato vittoria alle ultime presidenziali (Ghani con la conferma della Commissione elettorale, Abdullah rifiutandola) ma hanno deciso – su pressione americana - di rinviare le autoproclamazioni nel dopo Doha, mettendo per ora le spade nelle fodere. Già comunque alcuni elementi del governo hanno sottolineato i loro dubbi sul futuro: Amrullah Saleh, vice in pectore di Ghani, già ministro e, fino al 2010, a capo dell’intelligence, ha scritto per Time magazine che dopo aver lottato contro i talebani è pronto a incontrarli. Chiosando però il lancio della rivista su twitter con un “posso perdonare – aggiunge - ma non dimenticare”…
Sono gli stessi dubbi di Ghani ma soprattutto di Abdullah, legati al sospetto di simpatie etniche tra pasthun, comunità cui appartengono sia i guerriglieri sia il presidente. Infine aleggia la prospettiva mai fugata di un governo a interim che non solo ricomporrebbe nell’immediato il contenzioso sull’elezione a presidente ma potrebbe aprire la strada a un esecutivo – se non oggi domani – con ministri talebani. Una via che avrebbe anche un senso ma contro cui si schierano anche una ventina di parlamentari del Congresso americano che temono che ritiro significhi carta bianca all’ortodossia islamista dei talebani. Eppure proprio alla vigilia di Doha, il portavoce ufficiale della guerriglia Suhail Shaheen getta benzina sul fuoco: “Siamo favorevoli – dice ad Al Jazeera – a che le donne lavorino e studino come previsto dalle leggi islamiche, basta che portino l’hijab, solo quello… quanto alla libertà di espressione è prevista dalle regole islamiche”. Interessante notare l’uso della parola “hijab” (velo) e non del termine chadri (burqa). Ma cosa significa “regole islamiche”? E quanto revisionismo (o rilettura) è stata fatta dai seguaci della scuola Deobandi e delle ferree leggi del pashtunwali, il codice tribale? Incognite cui si aggiunge la sorte dei prigionieri talebani in mano al governo o agli americani, il congelamento dei beni, i mandati di cattura formalmente ancora in essere.
Infine il ritiro: c’è un calendario certo e uno assai più vago così come la minaccia che il banco salti nel caso di violazioni (elementi impugnabili da tutti gli attori). Manca poi un quadro che accompagni il dialogo intra-afgano. Se ne fa garante Washington ma non basta. Gli appetiti e i timori di vicini e lontani – dal Pakistan all’Iran, dall’India alla Russia – non saranno saziati da un tavolo negoziale afgano coi soli americani a far da padrini. Girano voci di una lista di mediatori possibili (si è fatto il nome anche di Federica Mogherini che però smentisce) che potrebbero accompagnare questo incerto futuro. Ma per ora la fretta di arrivare al punto prima delle presidenziali Usa sembra aver partorito gattini ancora ciechi.
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