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venerdì 18 marzo 2016

Msf/Kunduz: una multa seppellirà il caso

Medici senza frontiere e senza giustizia
Nel novembre scorso il Pentagono rese noto che erano stati sospesi dal servizio i militari coinvolti nell'incidente di Kundz, dove un ospedale di Medici senza frontiere finì con dottori e pazienti sotto il fuoco di un cacciabombardiere americano. Si aspettava che l'indagine a seguito della strage fosse terminata. L'indagine ancora non si è vista ma le indiscrezioni continuano a filtrare e l'ultima in ordine di tempo riguarda le “punizioni” comminate ai soldati coinvolti. Ma se è vero quanto riporta l'agenzia Associated Press, subito ripresa dalla stampa afgana, le punizioni sono di puro ordine disciplinare e non criminale, ossia non molto di più della sospensione già resa nota in novembre dal generale John Campbell, allora comandante interforze della Nato e al contempo responsabile della missione statunitense nel Paese dell'Hindukush. L'amministrazione militare si sarebbe limitata a una reprimenda scritta che, secondo l'agenzia di stampa, può al più essere d'impedimento al proseguimento della carriera militare. Sanzioni amministrative insomma, ben lontane dalla possibilità di un'accusa per crimini di guerra. E un'azione, aggiungiamo noi, che almeno apparentemente scarica le responsabilità della catena di comando sugli esecutori e non sul vertice.


Msf per ora non smentisce e non conferma e, spiegano nei suoi uffici, aspetta di vedersi recapitare un atto formale e non una semplice indiscrezione di stampa. La polemica è in agguato: a fine febbraio gli americani scrissero a 140 parenti delle vittime facendo le scuse e promettendo un risarcimento che da vittime e medici fu definito offensivo e ridicolo: 3mila dollari se c'era un ferito, e ben... 6mila se era scappato il morto. Se i soldi siano stati poi accettati o già pagati non si sa: a distanza di quasi sei mesi dall'attacco all'ospedale di Msf a Kunduz (erano gli inizi dell'ottobre scorso) la vicenda resta piena di ombre e le famose indagini ufficiali ancora non sono state pubblicate. Di certo c'è soltanto quella prodotta da Msf mentre il numero dei morti è lievitato ad “almeno” 52 (14 morti tra il personale, 24 tra i pazienti e 14 altri civili).

Presentato in novembre a Kabul, il rapporto di Msf racconta invece dettagliatamente uno degli episodi più tragici di violazione del diritto umanitario, consumatosi in circa un'ora di bombardamento, iniziato tra le 2 e le 2.08 del mattino del 3 ottobre 2015 e conclusosi tra le 3 e le 3 e un quarto: alcuni pazienti bruciarono vivi nei loro letti e alcuni dello staff furono decapitati e mutilati dalle schegge magari mentre tentavano di mettersi al riparo. Il rapporto spiegava anche che all'interno del centro traumatologico della città in mano ai talebani e assediata dai soldati afgani con il sostegno dell'aviazione statunitense, non c'erano combattenti armati o combattimenti in corso, ma solo pazienti di entrambe le fazioni curati nei letti di un luogo che dovrebbe essere un tempio protetto. Infine che l'obiettivo del raid, derubricato dalla Nato a “incidente” ed “errore” aveva un chiaro obiettivo: «Da quanto accaduto nell’ospedale emerge che questo attacco è stato condotto allo scopo di uccidere e distruggere – spiegava Christopher Stokes, direttore generale di Msf - ma non sappiamo perché. Non abbiamo visto cosa è successo nella cabina di pilotaggio, né nelle catene di comando statunitense e afgana”. Gli americani hanno poi spiegato che si era trattato di un difetto nella ricezzione degli ordini e cioè che l'edificio da colpire era in realtà un altro. Dunque la colpa fu della squadra dell'AC-130 che avrebbe dovuto mirare allo stabile in mano alla guerriglia a 411 metri di distanza dal nosocomio ma sbagliò obiettivo.

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