La storia di Aadhya è una delle tante contenute nell’ultimo rapporto che una rete internazionale di monitoraggio sul lavoro e i salari delle aziende che vivono di delocalizzazione ha appena dato alle stampe. Quello di Aadhya non è un caso isolato. In Bulgaria le lavoratrici di una fabbrica – la maggior parte dei lavoratori del tessile sono donne – raccontano che si lavora per 12 ore al giorno, sette giorni alla settimana, senza ricevere il salario minimo legale previsto per un normale orario di lavoro. Alcune interviste anonime – per ovvi motivi – denunciano che in Bulgaria si può essere pagati anche meno del 10% del salario dignitoso minimo. In Turchia c’è chi percepisce circa un terzo del valore minimo stimato per un salario dignitoso mentre in Cambogia il livello dichiarato è pari quasi alla metà. La Cambogia è tristemente famosa per un caso che fece scalpore nel 2011: in una settimana, nello stabilimento cambogiano che riforniva la multinazionale del tessile H&M, circa 200 operai accusarono svenimenti per fumi di sostanze chimiche, scarsa ventilazione, malnutrizione. Ed è proprio H&M a essere al centro del rapporto che porta infatti il suo nome: “H&M: Le promesse non bastano. I salari restano di povertà”. E’ uno sguardo trasversale su una firma della moda internazionale che purtroppo si potrebbe forse trasferire su altre realtà.
Qualità e stile al miglior prezzo è lo slogan di Hennes & Mauritz, multinazionale svedese di abbigliamento e vendita al dettaglio nota per i suoi tagli fast-fashion per uomo, donna e bambini. Con diverse consociate e marchi opera in 69 Paesi con oltre 4.500 negozi reali e una diffusa attività su Internet in oltre trenta Stati. Il suo team professionale sta per arrivare a oltre 160mila impiegati a vario livello ma lavora per lei un vero esercito sparso in tutto il mondo: circa 850mila persone cui aveva promesso di garantire un salario dignitoso entro il 2018. Cosa di cui non si vede traccia. L’azienda, che vanta profitti per 2,6 miliardi di dollari e un fatturato nel 2016 di 223 miliardi, sostiene che: “Vogliamo rendere la moda sostenibile… L'impegno dei nostri dipendenti è la chiave del nostro successo. Ci dedichiamo a creare un futuro migliore per la moda e utilizziamo le nostre dimensioni per guidare lo sviluppo verso un'industria della moda più circolare, giusta ed equa”. Circolare, è vero. Giusta ed equa?
Il rapporto, un lavoro della Campagna “Turn Around, H&M” coordinata dalla Clean Clothes Campaign e sostenuta dall’International Labor Rights Forum e da WeMove.EU., non la vede proprio così. E rivela che molti lavoratori e lavoratrici che producono abiti per H&M vivono sotto la soglia di povertà, nonostante le promesse dell’azienda di pagare un salario dignitoso entro l’anno: un vanto per chi vuole una moda “sostenibile”. In sostanza però, uno dei più grandi rivenditori al mondo di vestiti, ha una catena di fornitura con lavoratori costretti a ore eccessive di lavoro per pura sopravvivenza. Scarsi salari, straordinari eccessivi e l'onere aggiuntivo del lavoro domestico portano a malnutrizione, stanchezza e svenimenti sul posto di lavoro. Un terzo delle donne intervistate in India e due terzi in Cambogia – che lavorano nelle fabbriche classificate da H&M come “fornitori di platino” – sono svenute in azienda, com’è accaduto anche alla nostra Aadhya. Le lavoratrici bulgare denunciano svenimenti quotidiani. E può succedere che, se svieni troppo, arrivi il licenziamento. Si può svenire di nascosto? Accanto agli scioperi e alle spesso impossibili contestazioni dei lavoratori (che rischiano di esser messi alla porta) una leva importante sono i consumatori. All’interno della campagna “Turn Around, H&M! si può firmare una petizione per chiedere salari dignitosi e condizioni di lavoro giuste in tutta la catena di fornitura di H&M. Le firme raccolte hanno già superato quota 100mila.
Lavoratrici del tessile in una fabbrica del Bangladesh in una foto del quotidiano Daily Star |
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