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venerdì 28 settembre 2018

C'è un salario (da fame) nel mio vestito

Aadhya, la chiameremo così con uno dei nomi femminili più diffusi in India, ha quarant’anni, un marito e tre bambini. Lavora in una fabbrica di abbigliamento e si alza alle 4,30 della mattina per fare i mestieri e cucinare. Poi, via di corsa perché un solo minuto di ritardo le costa un’ora di paga. Il suo turno comincia alle 7,30 e nei giorni normali finisce fra le 18,30 e le 19,00, ma molto spesso le viene chiesto di fermarsi per gli straordinari. E’ svenuta due volte in fabbrica. La prima volta si è ripresa in pochi minuti, ma la seconda volta è stata trasportata dai colleghi in ospedale perché era caduta su un macchinario procurandosi un’emorragia interna. Quanto guadagna? La sua famiglia, di cinque persone, vive del suo reddito di operaia tessile che non supera gli 85 euro al mese.

La storia di Aadhya è una delle tante contenute nell’ultimo rapporto che una rete internazionale di monitoraggio sul lavoro e i salari delle aziende che vivono di delocalizzazione ha appena dato alle stampe. Quello di Aadhya non è un caso isolato. In Bulgaria le lavoratrici di una fabbrica – la maggior parte dei lavoratori del tessile sono donne – raccontano che si lavora per 12 ore al giorno, sette giorni alla settimana, senza ricevere il salario minimo legale previsto per un normale orario di lavoro. Alcune interviste anonime – per ovvi motivi – denunciano che in Bulgaria si può essere pagati anche meno del 10% del salario dignitoso minimo. In Turchia c’è chi percepisce circa un terzo del valore minimo stimato per un salario dignitoso mentre in Cambogia il livello dichiarato è pari quasi alla metà. La Cambogia è tristemente famosa per un caso che fece scalpore nel 2011: in una settimana, nello stabilimento cambogiano che riforniva la multinazionale del tessile H&M, circa 200 operai accusarono svenimenti per fumi di sostanze chimiche, scarsa ventilazione, malnutrizione. Ed è proprio H&M a essere al centro del rapporto che porta infatti il suo nome: “H&M: Le promesse non bastano. I salari restano di povertà”. E’ uno sguardo trasversale su una firma della moda internazionale che purtroppo si potrebbe forse trasferire su altre realtà.