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martedì 18 novembre 2008
IL DRAMMA DELLE DONNE AFGANE
Ha fatto il giro del mondo la storia terribile della giovanissima Shamsia, una ragazza di Kandahar che, come ogni giorno con le sue compagne, stava andando a scuola - al liceo femminile Mirwais Nika della sua città. Due fanatici, armati di pistola ad acqua carica di acido solforico, l'hanno sfigurata.
L'indignazione che ha attraversato il mondo, e presumibilmente larga parte dell'Afghanistan, racconta non solo una brutalità senza giustificazioni ma anche un modo di pensare duro a morire: le ragazze a casa, sempre e comunque, sottomesse al bastone del comando di un impero maschile. E se sgarrano, punizione esemplare. Quanto c'entra l'islam, la tradizione, un conflitto che è ormai quotidiano come la povertà, è difficile da decifrare in un paese che ormai quasi trent'anni di conflitto hanno ricacciato in un medioevo che ottunde il sentimento e fa sconfinare la guerra nella barbarie. Una barbarie che si innesta comunque su un tessuto sociale in cui il ruolo della tradizione si è ormai radicato su un degrado sociale che difficilmente consente aperture. In un mondo dominato dalla paura e da un risveglio, ogni mattina, che non sa mai se, quel giorno, sarà accompagnato anche dalla vista del tramonto.
La vicenda di Shamsia ha radici lontane. Un dramma nascosto, eppur così vicino alla vicenda della nostra giovane studentessa, viene infatti vissuto ogni giorno della loro vita di donne da molte ragazze afgane. La guerra o i talebani c'entrano poco se non per il fatto di aver inasprito il clima e aver radicalizzato comportamenti in una stagione che, per gli afgani, è ormai attraversata, da sei lustri, dal vento gelido della guerra e dunque dalla mancanza di una speranza.
Ce ne siamo resi conto un giorno visitando l'ospedale Esteqlal di Kabul, il secondo della capitale, dov'è attiva la Cooperazione italiana. E' li, un po' appartato, che si trova il centro per ustioni forse migliore del paese. In quelle stanzette, su piccoli letti di metallo, riparate da una mussola leggera che ne nasconde la tragedia fisica, i giovani corpi delle ragazze ustionate nascondono agli occhi di chi viene a visitare i pazienti la “vergogna”. Eppure quelle ustioni, è questo il paradosso, sono per evitarne un'altra: quella di aver scelto di rompere con la morte (che fortunatamente in molti casi non arriva, lasciando però sfigurati i corpi di queste giovani disgraziate) il sacro pegno del matrimonio. Un matrimonio imposto che però non funziona e a cui ci si cerca di sottrarre distruggendo il proprio corpo.
“E' una storia che riguarda ragazze tra i 17 e i 18 anni, a volte anche meno” ci spiega il dottor Ali Eshan, direttore sanitario dell'ospedale. “A molte di queste giovani – racconta - non viene chiesto chi vogliono sposare. Si combina il matrimonio e basta”. Ma chi non accetta di vivere con un uomo che non ha scelto, decide di darsi fuoco. “E' l'unico modo – spiega - per far passare il rifiuto come un incidente domestico. In questo modo, l'onore della famiglia è salvo”. L'ultimo pensiero è dunque per la famiglia, per evitare lo scandalo. Ma, racconta ancora il dottore, “può succedere anche dopo il matrimonio se ci sono problemi con la suocera o con i fratelli del marito. Anche qui conta l'onore”. E ancora: “può accadere anche per altri motivi e ben prima del matrimonio: magari la causa è l'esclusione dalla scuola oppure semplicemente ribellione perché si nega loro di vedere la tv, sentire la radio o di uscire di casa”.
Una protesta generazionale, uno scontro tra consuetudine e modernità, tra tradizione e desideri. Una guerra nascosta che si consuma dietro i fornelli della cucina. Senza bisogno dei talebani.
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