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domenica 30 agosto 2020

Myanmar, la difficile road map del processo di pace

Riuniti a Naypyidaw per tre giorni, dal 19 al 21 agosto, rappresentanti del governo, delle forze armate (Tatmadaw), delle organizzazioni etniche armate (Eao) e dei partiti politici birmani hanno siglato un nuovo accordo al termine della quarta sessione della “Conferenza sulla pace di Panglong del 21°secolo” - come è stato chiamato il processo di pace interno al Myanmar - che si è conclusa dieci giorni fa  nella capitale. Si tratta di una ventina di capitoli che si concentrano sulla continuazione e attuazione del cessate-il-fuoco (Nationwide Ceasefire Agreement o Nca, siglato per la prima volta nel 2015) e sulla definizione dei principi guida per il tipo di unione che il Myanmar prefigura nel suo futuro istituzionale: una forma di federalismo che, riconoscendo le diverse identità etniche, formuli un quadro istituzionale che salvi l'integrità del Myanmar ma restituisca dignità alle singole realtà da cui è costituito. Un processo difficile e per forza graduale e forse ancora più complicato del cessate-il-fuoco. La leader della Lega nazionale per la democrazia (Nld) Aung San Suu Kyi lo ha definito "un nuovo piano per la costruzione di un'unione federale democratica dopo il 2020". Benché in linea di massima il summit si sia alla fine concluso che un accordo, i nodi sono tanti anche perché molto dipenderà dalle elezione legislative di novembre e dagli emendamenti costituzionali necessari per cambiare la forma dello Stato.

Per quel che riguarda il cessate-il-fuoco, al momento siglato da dieci organizzazioni armate, mancano all’appello altri sette schieramenti locali con i quali è però in corso il negoziato. Con altri ancora – come nel caso di gruppi quali l’Arakan Army – la distanza è ancora molta ma dall’incontro di Naypyidaw è quantomeno uscita l’indicazione che il governo intenderebbe prima o poi avviare un negoziato anche con le formazioni con cui la guerra continua, soprattutto in alcune aree del Paese (Rakhine e Chin in particolare). Dei 20 punti dell’accordo, 15 riguardano il cessate-il-fuoco: posizionamento e movimento di truppe, confini e risoluzione di una serie di “malintesi” che in passato hanno portato a incidenti anche in aree “pacificate”.

Sia per quanto riguarda il cessate-il-fuoco, sia per quanto riguarda il negoziato con i gruppi armati più radicali sia per ciò che compete agli emendamenti costituzionali, la Lega deve comunque vedersela con i militari che tendono a frenare pulsioni e scelte del governo civile anche perché l'attuale Costituzione consegna all’esercito un potere fondamentale e inamovibile. La Lega ha già cercato senza successo di modificare la Carta per limitare il ruolo di Tatmadaw ma ci si aspetta che le elezioni possano in qualche modo influire sugli equilibri, favorendo scelte più democratiche che restano però limitate proprio dalla Costituzione: riserva infatti ai militari il 25% dei seggi in parlamento che garantisce loro un sostanziale diritto di veto.

giovedì 7 febbraio 2019

Dopo i colloqui di Mosca

Il Divide et impera vale anche per i Talebani. Dopo aver incassato a Doha una bozza di accordo con
gli Stati Uniti, escludendo il governo afghano dai colloqui con il rappresentante del presidente Trump, Zalmay Khalilzad, a Mosca ieri hanno dettato l’agenda dell’incontro con 32 rappresentanti della politica afghana, inclusi i principali oppositori del presidente in carica, Ashraf Ghani, sempre più marginalizzato. Oltre ai barbuti, al tavolo negoziale c’erano pezzi da novanta come l’ex presidente Hamid Karzai, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Hanif Atmar, l’ex governatore della provincia di Balkh, Atta Mohammad Noor, che ha chiesto la formazione di un governo ad interim per gestire la riconciliazione. Unica donna a parlare, l’ex deputata Fawzia Koofi.

“Non hanno nessuna autorità, che discutano quanto vogliono”, manda a dire da Kabul il presidente Ghani, che nelle elezioni presidenziali di luglio dovrà sfidare alcuni dei presenti a Mosca. I Talebani sfruttano dunque le divisioni altrui. E a margine dell’incontro rivelano che l’accordo con gli americani raggiunto a Doha prevede il ritiro di metà delle loro truppe entro la fine di aprile. Smentita dal Pentagono, la notizia è utile a dimostrare chi è in posizione di forza. Il capo della delegazione talebana, Sher Mohammad Abbas Stanikzai (che tra pochi giorni verrà sostituito da mullah Baradar), ha tenuto un discorso di mezz’ora. Ha elencato gli ostacoli alla pace (l’occupazione militare, la Costituzione “illegittima e imposta dall’Occidente” che va rivista, le sanzioni contro i barbuti nella lista “nera” Usa, “i detenuti politici”) e illustrato la posizione dei tubanti neri su molte questioni, inclusi i diritti delle donne. Stanikzai promette il rispetto dei diritti delle donne, “all’istruzione, alla proprietà, all’eredità, al lavoro”, ma poi accusa le attiviste per i diritti di genere di aver “introdotto indecenza e corruzione morale nel Paese”. E ribadisce un punto chiave: “non vogliamo il monopolio del potere”. Alla fine dei colloqui è stata divulgata una dichiarazione congiunta che per certi versi ribadisce la necessità del dialogo intra-afgano (ma non accenna al governo) e dall’altra riconosce alle donne diritti economici, sociali, politici e all’istruzione (ma, dice, “in linea con i principi dell’islam”). Si può leggere qui.

A differenza dell’incontro con i Talebani dello scorso novembre a Mosca, in questa occasione al tavolo negoziale non c’erano rappresentanti del governo russo, che ha lavorato dietro le quinte. Che vi sia un interesse di Mosca nella gestione del dopo guerra afghano è fuori di dubbio e una notizia secondaria aiuta a capire il quadro: il ministro degli esteri Lavrov ha appena garantito alla sua controparte tagica che la Russia aiuterà la modernizzazione dell’esercito di Dushanbe. Se è vero – come sostiene Voice of America – che in Tagikistan stazionano 7mila soldati russi, Mosca sta tentando – con successo – di riappropriarsi del controllo dell’intera Asia centrale post sovietica. L’Afghanistan è un tassello ineludibile. È una questione di geopolitica pura. Chi controlla l’Afghanistan non controlla tanto o soltanto le rotte commerciali centroasiatiche o, se si vuole, parte della vecchia via della Seta. Controlla tutti i suoi vicini e non solo. Per la Russia riappropriarsi dell’influenza in Afghanistan è vitale per contenere l’avanzata americana. E così per Teheran: se gli Usa otterranno di conservare delle basi militari, l’Iran resterà vulnerabile a un attacco Usa.

Per Pakistan e India invece, l'Afghanistan è la pietra angolare di una strategia militare in caso di guerra tra le due ex sorelle. Anche per i Saud e gli emirati (forziere dei soldi afgani di ogni colore) Kabul è importante: è il Paese sunnita per eccellenza alle porte del mondo indù e una barriera all'espansione sciita e russa. Per la Cina, è invece un polo strategico nella corsa della One belt One road. Insomma ogni giocatore occulto ha la sua agenda e l’Afghanistan è il vaso di coccio. Senza un accordo tra tutti questi soggetti, la pace resterà una chimera. E l’Europa? Per ora l’unica azione politica è stata decidere il rimpatrio degli afgani. E offrirsi come garante di un eventuale accordo di pace. Per il resto la sua voce è schiacciata dall’attivismo russo americano. Come quella dell’Onu.

A 4 mani con Giuliano Battiston per il manifesto

giovedì 31 gennaio 2019

Accordo Usa/Talebani: la lettura della guerriglia

Sappiamo abbastanza delle posizioni americane sulle prime mosse di un accordo di pace in Afghanistan. Ma qual è  esattamente la posizione della guerriglia? Cosa pensano del negoziato i talebani?

Mercoledì scorso - scrive oggi Pak Tribune -  i talebani hanno rilasciato un'intervista video in cui parla l'attuale capo dell'ufficio politico talebano a Doha, Sher Abbas Stanekzai (che sarà sostituito nei colloqui da Mullah Baradar, considerato una "colomba"). Stanekzai  afferma, tra l'altro, che le Nazioni Unite, l'OIC (Organizzazione della conferenza islamica), le maggiori potenze e i Paesi regionali e limitrofi saranno presenti come garanti quando i talebani e gli Stati Uniti firmeranno gli accordi sul ritiro delle truppe e sull'impegno dei talebani a far si che  il suolo afgano non venga usato per danneggiare altri. "Abbiamo convinto  gli Stati Uniti - scrive il quotidiano riportando alcuni stralci dell'intervista - che le questioni relative agli Stati Uniti saranno discusse con loro e quelle relative alle questioni interne dell'Afghanistan saranno discusse con gli afgani e le tribù a tempo debito" (Leggi anche  quanto ha detto in un'intervista audio all'Ap sul fatto che i talebani non vogliono per forza nel futuro governare il Paese da soli).

Stanekzai nel fotogramma di un video
 pubblicato su Youtube da Afghan
 Social Network nel novembre 2018
"Gli Stati Uniti pensano che l'Afghanistan sia stato usato contro di loro in passato e vogliono assicurarsi che il suolo afgano non venga usato contro di loro in futuro. Vogliono che nessuno agisca contro gli Stati Uniti e se ciò viene garantito,  sono pronti a ritirare tutte le truppe straniere sia americane sia della NATO. Abbiamo detto loro che persino un solo soldato straniero non è accettabile sul suolo afgano-... abbiamo detto loro che il Jihad continuerà anche se un solo soldato rimarrà in Afghanistan. Ci hanno assicurato che ritireranno tutte le forze".

Stanekzai sostiene che gli americani hanno assicurato di non volere né la presenza permanente di truppe né basi militari, un punto sensibile sul quale sinora l'inviato americano non aveva detto nulla. Poi c'è il nodo governo afgano che i talebani considerano un esecutivo illegale e imposto con la forza. Il presidente Ashraf Ghani - dice Stanekzai - non può decidere che restino le truppe straniere né chiedere loro di andarsene perché non ha alcun potere: "E dunque - conclude il negoziatore talebano - come possiamo parlare con una persona impotente?"

Quando si dice via dall'Afghanistan, ribadisce  Sher Abbas Stanekzai, significa non un singolo soldato, nemmeno all'interno dell'ambasciata americana.... (segue su atlanteguerre.it)

venerdì 15 luglio 2016

Afghanistan: esequie di Stato per il processo di pace

Arthur Conolly: finì ucciso
 dall'emiro di Bukhara
Dopo che  Obama ha deciso di rallentare l'uscita delle truppe americane dall'Afghanistan, la Nato ha reiterato il prolungamento della sua missione oltre il 2016 e il governo di Kabul ha spiegato che non ha alcuna intenzione di rivitalizzare il processo di pace, lo stallo è più che evidente. Qui di seguito un'analisi* che cerca di fare il punto della situazione

                           -------------------

Com’è noto la locuzione “Grande Gioco” - Great Game – si deve al britannico Arthur Conolly. Era uno dei tanti esploratori, diplomatici, spie al servizio di Sua Maestà britannica e aveva dato questo nome all’intrigo che dal 1800 aveva opposto soprattutto britannici e russi, ma anche francesi, persiani, afgani, circassi o turcmeni, che durante due secoli si erano combattuti, spiati, alleati e traditi in vista della grande posta in gioco: la conquista, o la conservazione della conquista, dell’India e, in molti casi, della propria indipendenza dalle mire russe o britanniche in Asia. Quello che in tempi recenti è stato chiamato Nuovo Grande Gioco sembra assomigliare alla primigenia edizione, benché la posta in gioco sia ovviamente mutata e così le tecniche per raggiungerla, ma mai come oggi sembra più appropriato il termine che aveva scelto un ministro dello Zar per descrivere quella guerra prolungata e non sempre guerreggiata senza esclusione di colpi: torneo delle ombre. Oggi come allora si agitano infatti, sullo sfondo del conflitto afgano, delle violenze in Pakistan, dei sommovimenti nel Caucaso, in Tagikistan, in Uzbekistan o nel Turkestan cinese, protagonisti e comprimari spesso in ombra assai più che tra l’800 e il 900. Sicuramente il campo di battaglia primario resta l’Afghanistan, ed è su questo campo di battaglia che porremo la nostra attenzione ma senza dimenticare le ombre che lo circondano. Metteremo assieme qualche idea e molte domande senza aver la pretesa di indicare risposte ma cercando di mettere in fila alcuni interrogativi che, oggi come allora, coinvolgono le grandi potenze regionali, gli Stati confinanti dal Caspio alla Cina, e le superpotenze che, adesso come un tempo, sono interessate al controllo di questo pietroso Paese senza sbocco al mare, quasi privo di gas e petrolio e con ricchezze minerarie ancora poco esplorate e comunque di difficile estrazione. Porremo la nostra attenzione soprattutto sull’Afghanistan per un semplicissimo motivo: la guerra – o la stagione di conflitto perenne iniziata con l’invasione sovietica del 1979 (quasi quarant’anni fa) – è ben lungi dall’esser terminata e assiste anzi a una ripresa che, solo in termini di vite umane, è diventata più esigente da quando la missione Isaf Nato si è ritirata – sostituita dalla più mite missione dell’Alleanza “Resolute Support” – nel dicembre 2014. Il fatto che la guerra afgana sia uscita dai riflettori della cronaca è solo – se mai ce ne fosse bisogno – l’indicazione che – per citare un vecchio adagio pacifista – la prima vittima della guerra è la verità. La guerra infatti non è affatto finita e gode anzi – ci si perdoni l’iperbole - di ottima salute.

Attori, comprimari, obiettivi

Non è difficile elencare i motivi per i quali l’Afghanistan desta interesse o apprensione e si presta ad essere un terreno di gioco più o meno eterodiretto. E’ facile comprenderlo per gli Stati confinanti.

sabato 26 marzo 2016

Afghanistan / La guerra infinita e l'allarme di Emergency

A Kabul è appena finito un incontro tra membri del governo e inviati della comunità internazionale con un titolo che appare persino sarcastico: “Addio al conflitto, benvenuto allo sviluppo”. Nelle stesse ore, l'ospedale di Emergency a Kabul rendeva noto che sono in aumento i pazienti che arrivano all'ospedale per ferite connesse al conflitto. L'ospedale, che l'anno scorso ha curato 3mila pazienti, dice che le sue statistiche non mentono. La guerra è tutt'altro che un addio. Su un altro fronte, nella provincia di Baghdis, un gruppo di guerriglieri in turbante fedeli a mullah Rassul – il comandante che si è staccato dal movimento talebano guidato da mullah Mansur dopo la morte di mullah Omar - ha dichiarato guerra al nuovo capo talebano ritenuto l'usurpatore del trono che fu del fondatore del movimento. A detta dell'ennesima fazione, Mansur non solo è colluso con i servizi pachistani ma sta ammazzando i comandanti che non seguono il dettato del nuovo leader della shura di Quetta.

giovedì 17 marzo 2016

Pace in Afghanistan. E il vecchio islamista disse si

Classe 1947, è nato
 nella provincia di Kunduz
L'Hezb-e-Islami, il partito islamista pashtun di Gulbuddin Hekmatyar - che ha un braccio politico in parlamento e un esercito nelle montagne afgane - lo aveva anticipato in febbraio, rendendo noto che non era da escludere una sua partecipazione al negoziato di pace tra guerriglia e governo. Poi, a sorpresa, qualche giorno fa, il gruppo ha detto si al negoziato promosso da Kabul che al momento però è al palo dopo che i talebani di mullah Mansur han detto no. I primi passi sono già in corso.

Hekmatyar sostiene che nonostante gli americani non se ne siano andati (precondizione principe della guerriglia per avviare negoziati) il suo partito è disposto comunque al dialogo perché vuole dimostrare che l'Hezb vuole la pace. In realtà di Hekmatyar non c'è molto da fidarsi: è un uomo che ha attraversato tutte le stagioni della guerra afgana e cambiato posizione, alleati e ideologie a seconda della situazione. Gode di un discreto potere in certe aree del Paese nelle regioni  settentrionali e orientali (è originario di Kunduz)  ma il suo legame coi talebani è sempre stato soprattutto tattico. Di fatto è un soggetto per i fatti suoi pronto, domani, ad allearsi, se davvero gli convenisse, anche con Daesh. E' comunque un personaggio con cui è d'obbligo fare i conti e scendere a patti. E se il fronte della guerriglia si scompagina, tanto meglio. La pace si fa quando il punto di non ritorno mostra le debolezze che, nel caso afgano, sono un segno che ormai tocca tutti i contendenti. C'è una stanchezza della e nella guerra? Staremo a vedere. Per ora il fronte caldo è più a Ovest, in Medio oriente. E questo aiuta

domenica 6 marzo 2016

Negoziati afgani: mullah Mansur dice no

L'annunciato avvio del negoziato di pace tra governo afgano e talebani sembra nuovamente lettera morta. Con una nota ufficiale,  pubblicata ieri sul sito del movimento guerrigliero fondato da mullah Omar e ora capeggiato da mullah Mansur, i talebani respingono al mittente l'offerta del tavolo negoziale che solo due giorni fa era dato per apparecchiato sia da Islamabad sia da Kabul. Persino con una data: una prima riunione da tenersi in Pakistan entro venerdi prossimo.

Come fonti dei talebani avevano comunque già fatto sapere, la nota di ieri reitera che «l'Ufficio Politico dell'Emirato islamico (che si trova a Doha, in Qatar, e che è l'organismo deputato alla trattativa ndr) non è stato tenuto informato in merito ai negoziati», motivo per cui sono prive di fondamento «le voci in circolazione sul fatto che delegati dell'Emirato islamico parteciperanno agli incontri con il permesso dello stimato Ameer ul Momineen, Mullah Akhtar Muhammad Mansoor (che Allah lo salvaguardi). Respingiamo tutte queste voci e inequivocabilmente affermiamo che il leader dell'Emirato islamico non ha autorizzato nessuno a partecipare a questo incontro né lo ha fatto la leadership del Consiglio dell'Emirato». I talebani chiariscono che nessun negoziato è possibile finché non verranno rispettate le precondizioni poste dalla guerriglia a fine gennaio durante una riunione informale promossa dall'Ong internazionale Pugwash: «fine dell'occupazione dell'Afghanistan, eliminazione delle liste nere, liberazione dei prigionieri». La guerriglia accusa infine governo e Stati uniti di utilizzare una doppia condotta: da una parte compiono raid ed espandono l'attività militare, dall'altra fanno propaganda sui risultati positivi del Comitato quadrilaterale, una commissione formata da emissari di Islamabad, Kabul, Washington e Pechino che avrebbe dovuto stendere la “road map” per predisporre l'avvio del negoziato ufficiale. Che per ora sembra nuovamente congelato.

sabato 5 marzo 2016

Talebani vs Kabul. Processo di pace? No grazie

Mullah Mansur: la nota dei talebani
lo cita come la persona che può o meno
autorizzare la partecipazione al negoziato
I talebani che fanno capo a mullah Mansur, il leader in turbante che ha preso il posto l'estate scorsa di mullah Omar, respingono al mittente la proposta di un incontro negoziale che faccia ripartire il processo di pace col governo afgano, grazie anche agli sforzi di Islamabad e al sostegno di Washington e Pechino. . Con una nota ufficiale, il Consiglio e l'Ufficio politico della guerriglia in turbante, sostenendo di non essere mai stati consultati, negano che qualcuno sia stato autorizzato a partecipare all'incontro su cui, nei giorni scorsi, sia Kabul sia Islamabad si dicevano molto fiduciosi tanto che anche Barack Obama, in una video conferenza con la sua controparte afgana Ashraf Ghani, si è appena complimentato per gli sforzi di Kabul nel riavvio del processo di pace che sarebbe dovuto ripartire, ormai il condizionale è d'obbligo,  entro metà mese.

martedì 23 febbraio 2016

L'asso nella manica della Quadrilaterale

L'asso di ora nella briscola
 è un'immagine a due teste. Quelle del nagoziato
afgano sembrano molte di più
Devono avere un asso nella manica i quattro cavalieri della Quadrilaterale, che in rappresentanza di Afghanistan, Pakistan, Cina e Stati uniti han  fatto sapere ieri che il negoziato di pace è vicino, che al tavolo sono invitati ufficialmente i talebani per discutere col governo di Kabul e che c'è anche una data possibile: i primi di marzo. Dove? In Pakistan. Non filtra molto altro per ora: la Quadrilaterale si è incontrata diverse volte tra Kabul e Islamabad e sembrava avesse finora partorito un topolino. Difficile dire quanto sia certa la partecipazione dei talebani (e di quali) ma l'ann8ncio c'è e se è stato fatto è forse qualcosa in più di un manifesto di intenzioni. Per certo c'è che Islamabad ha fatto il possibile per convincere almeno una parte della guerriglia che bisogna negoziare. Ai turbanti armati. che hanno comunque fissato delle precondizioni piuttosto difficili da raggiungere, il momento può forse apparire favorevole: sul terreno hanno una buona posizione di forza e inoltre il movimento attraversa un brutto periodo tanto che forse è meglio serrare i ranghi. Kabul ha fatto la sua parte: ha sostituito il vertice dell'Alto consiglio di pace, cui compete il negoziato, piazzando un vecchio imprenditore  pashtun, religioso, rispettato e considerato a un tempo moderato e nazionalista ancor prima che islamista: Pir Sayed Ahmad Gailani, dove "pir" indica il rango di questo sufi la cui famiglia ha una lunga storia teologica alle spalle. Ha già detto che va coinvolto il clero e questa sembra la direzione su cui Pak e Afg convergono. Era un uomo fedele alla monarchia di Zaher e considerato, all'epoca della lotta contro l'Urss, talmente moderato che il Pakistan gli preferì, tra i gruppi armati pashtun, quello di Gulbuddin Hekmatyar. Ma ora le cose sono cambiate e Gailani può andar bene un po' a tutti.
 Il processo di pace in Afghanistan ha davvero una storia complessa e forse per ora conviene stare alla finestra con occhio cauto. E vedere se davvero l'asso nella manica c'è o è solo un bluff.

martedì 9 febbraio 2016

Afghanistan, la pace difficile: il quarto passo della Quadrilaterale

Si chiama Quadrilateral Coordination Committee ed  è un organismo composto da afgani, pachistani, statunitensi  e cinesi. Lo scopo della Quadrilaterale  è scrivere l'agenda di un possibile negoziato di pace e di fissare una data per colloqui ufficiali con la guerriglia in turbante. Ci sono già stati tre incontri alternati in Afghanistan e Pakistan: il prossimo è fissato  per il 19 febbraio a Kabul. Secondo gli auspici più ottimisti, per la fine di febbraio dovrebbe saltar fuori una data ufficiale del negoziato. Detta così, la cosa appare abbastanza surreale anche se c'è un evidente aspetto positivo: il cane (Islamabad) e il gatto (Kabul) si parlano e sembrano farlo sul serio. Americani e cinesi spingono e hanno costruito il quadro di reciproca fiducia che ha permesso ai due Paesi di sedersi nuovamente allo stesso  tavolo. Gli interessi infine sembrano per la prima volta gli stessi: anche il Pakistan ha un problema coi talebani (pachistani, il Ttp) e Kabul ha ripagato Islamabad della stesa moneta, dando ospitalità ai talebani pachistani sul suo territorio e obbligando così i pachistani a venire a patti: i pachistani aiuteranno Kabul facendo pressione sui talebani afgani (nei loro santuari sicuri in Pakistan) e Kabul smetterà di chiudere un occhio sui suoi ospiti stranieri in fuga dall'Operazione  Zarb e Azb (come il leader talebano pachistano mullah Fazlullah che si sarebbe rifugiato nelle province orientali afgane). Fin qui tutto bene.

mercoledì 3 febbraio 2016

L'altro fronte

La “Voce del califfato”, neonata emittente di Daesh nel Paese dell'Hindukush, sarebbe stata distrutta da un raid aereo americano. La notizia, che cita fonti militari statunitensi e locali, la rilancia la Bbc ma il condizionale resta d'obbligo. E' ormai da settimane che infuria la polemica sulla radio clandestina che trasmetteva dalla provincia di Nagharar (alla frontiera col Pakistan) da metà dicembre. La stampa afgana non sembra considerarla una notizia degna della prima pagina e per ora non ci sono prove definitive che Daesh sia stato almeno zittito. Quel che merita un posto importante nella gerarchia delle notizie è invece la decisione di Kabul di aderire alla Global Coalition against Daesh che ha già messo insieme una sessantina di Paesi. La preoccupazione di un'espansione delle mire califfali su quel che Daesh chiama già Vilayet Khorasan, “provincia” dai contorni incerti ma che comprende certamente Afghanistan e Pakistan, è forte nonostante i problemi che la leadership di Raqqa incontra fra talebani afgani e pachistani. Non di meno, alcune frange dei due disomogenei movimenti (le varie fazioni afgane e il Therek Taleban Pakistan o Ttp) hanno aderito al progetto insinuando nella guerra infinita un nuovo elemento di disturbo. Altri elementi confondono un quadro sempre più violento e dove si muovono ormai una miriade di protagonisti con agende diverse: un altro fronte oltre a quello mediorientale e libico.

domenica 24 gennaio 2016

Pace in Afghanistan: le precondizioni dei talebani (aggiornato)

Il  logo dell'Emirato talebano: apertura?
La creazione di una sede ufficiale per l'Emirato islamico, la rimozione della lista nera e il decongelamento dei beni, il rilascio dei prigionieri e la fine della "propaganda velenosa" contro l'Emirato. Così il sito ufficiale dei talebani (legati a mullah Mansur)  dà conto delle precondizioni che i talebani pongono per il riavvio del negoziato di pace con Kabul. Condizioni presentate a Doha (Qatar) durante il secondo incontro informale promosso da  Pugwash, un organizzazione internazionale per la risoluzione pacifica dei conflitti. E condizioni respinte al mittente oggi dal governo di Kabul.

Nel documento, redatto mentre era in corso l'incontro, i talebani ribadiscono che solo l'Ufficio di Doha (aperto nel 2013 ma poi chiuso dopo le rimostranze di Kabul perché la sede talebana aveva issato lo stendardo dell'emirato) ha le carte in regola per trattare e negoziare. Una puntualizzazione che sembra ribadire che l'interlocutore può essere uno solo (e non la miriade di gruppi in cui si va dividendo il movimento).

Dunque rappresentanti talebani    si sono incontrati con persone vicine al governo afgano sabato e domenica: un incontro non ufficiale di due giorni organizzato da Pugwash Conferences on Science and World Affairs. L'incontro di Doha non fa  parte del processo di pace ufficiale, che ha già visto due incontri a Islamabad e Kabul ma che per ora si svolge senza talebano ma solo tra  funzionari di Afghanistan, Pakistan, Cina e Stati Uniti, impegnati a tracciare una possibile tabella di marcia per la pace. Le precondizioni per aderire sembrano però un passo avanti.

Pugwash aveva organizzato una prima riunione non ufficiale sulla sicurezza in Afghanistan a Doha il 2-3 maggio 2015. L'incontro aveva coinvolto più di 40 partecipanti, che però rappresentavano solo  opinioni personali. Questa volta sembra che si sia andati un po' più in là ma l'incontro arriva in un momento difficile dopo la strage di giornalisti avvenuta a Kabul mercoledi scorso in serata e rivendicata dai talebani. Ferita difficile da rimarginare

* aggiornato il 25 gennaio alle 17.00

martedì 12 gennaio 2016

Il processo di pace "must go on" (per ora senza i talebani)

Pace in salita. La scalata
la guida il Pakistan
Per adesso la montagna ha partorito un topolino ma non era immaginabile andare oltre. Riunitosi ieri per la prima volta a Islamabad, il Quadrilateral Coordination Committee, che comprende Afghanistan, Pakistan, Cina e Usa, ha fissato il suo secondo incontro a Kabul fra una settimana e ha sopratutto messo nero su bianco che il negoziato di pace coi talebani deve andare avanti. Come? Si vedrà.

Alla riunione c'erano per il Pakistan il ministro degli Esteri Aizaz Ahmad Chaudhry e Sartaj Aziz, ascoltato consigliere del premier Nawaz Sharif, per l'Afghanistan il vice ministro degli esteri Hekmat Khalil Karzai, e gli inviati speciali americano e cinese: Richard Olson e Deng Xijun. Dietro le quinte, il potentissimo capo delle forze armate pachistane Raheel Sharif, l'architetto di questa nuova stagione negoziale. Tutti favorevoli al processo di pace ma, per ora, senza i talebani, rimasti il convitato di pietra di questo incontro quadrangolare dove erano presenti i principali protagonisti della guerra afgana. Un incontro (il primo) tra governo e talebani si era tenuto in Pakistan in luglio ma tutto era poi collassato sia per l'annuncio della morte di mullah Omar sia per le polemiche interne ai talebani sull'opportunità di parteciparvi. Infine, ai colloqui era seguita un'ondata di attentati e stragi, spesso senza rivendicazione, che avevano fatto montare un fortissimo sentimento anti pachistano negli afgani: clima che ha richiesto mesi per ricucire lo strappo.

L'inviato speciale per l'Afghanistan
ambasciatore Deng Xijun.
I cinesi stanno giocando la partita
Per ora dunque c'è almeno un accordo di principio e una “road map” da negoziare il 18 gennaio assieme forse a una lista top secret in cui il Pakistan avrebbe messo i nomi dei talebani disposti al dialogo. Tra loro ci sarebbe anche il capo, mullah Mansur, che viene considerato più malleabile di Omar.
 Ma sono solo illazioni e per ora restano una notizia  senza conferme da parte del movimento in turbante.

Alla vigilia dell'appuntamento di Islamabad ha intanto visto la luce l'ennesimo rapporto sulla situazione militare. Si tratta, ha scritto il magazine tedesco Der Spiegel, di un dossier “segreto” della Nato di cui il settimanale è venuto in possesso. Il rapporto, in totale controtendenza rispetto a quello del Pentagono presentato al Congresso americano a fine anno, non risparmia nulla alle forze di sicurezza afgane, incapaci, secondo la Nato, di far fronte alla minaccia talebana. Spiegel scrive che secondo l'Alleanza solo uno dei 101 battaglioni di fanteria è “pronto per il combattimento” e che dieci battaglioni non sarebbero nemmeno in grado di essere operativi. Benzina sul fuoco poi ce la mette proprio un americano, il generale John Campbell che dall'agosto 2014 è al comando della missione Resolute Support che ha sostituito Isaf con soli compiti di addestramento. I talebani avrebbero il controllo di fette di Paese sempre più vaste mentre – aggiunge il rapporto – e continua a salire il numero dei morti: nel solo 2015 oltre 8mila vittime militari afgane (una media di 22 al giorno) con perdite aumentate del 42% rispetto all'anno prima.

Alla Nato non sono soddisfatti: mirano
a far crescere Resolute Support?
I conti non tornano se il rapporto del Pentagono era assai più moderato nel giudizio e se la stessa missione di sostegno e formazione della Nato finisce, indirettamente, per ammettere di non essere in grado di fornire l'addestramento necessario. Viene da chiedersi se dietro al dossier “top secret”, che è però finito sui giornali, non ci sia il desiderio di aumentare Resolute Support chiedendo ai Paesi aderenti di far crescere i propri contingenti. Certo il problema esiste: proprio ieri il presidente della Commissione sicurezza dalla Camera, Mirdad Nejrabi, ha accusato il governo di non essere in grado di gestire la guerra. Accusa accompagnata dalle rivelazioni di Karim Atal a capo del Consiglio provinciale dell'Helmand del Sud secondo cui il 40% dei soldati di stanza nell'area sarebbero “fantasmi” i cui salari andrebbero nelle tasche dei comandanti. E ce n'è ancora per il presidente Ghani, sotto schiaffo perché accusato di mettere in piedi commissioni di indagine che non approdano a nulla, come nel caso della caduta di Kunduz in mano ai talebani l'anno scorso sulla quale ancora si aspetta un rapporto dettagliato. Inverno difficile e una primavera che rischia di portare, con la stagione secca, nuovi guai sul piano militare e su quello politico.

giovedì 30 luglio 2015

Mullah Omar è morto. Viva mullah Mansur

Le cronache (tutte pachistane) dicono che il Gran consiglio dei talebani, chiusosi a chiave per in concilio d'emergenza dopo che la notizia della morte di mullah Omar è diventata virale, ha deciso che il nuovo leader (non emiro ma solo numero uno)* debba essere mullah Akhtar Mansur, che Omar avrebbe a suo tempo indicato (con mullah Baradar ora fuori gioco e mullah Obaidullah Akhund ucciso nel 2010) come successore.  Sotto sorveglianza stretta dell'Isi il primo, morto il secondo, Mansur avrebbe avuto gioco facile. L'ex ministro dell'aviazione civile dell'emirato è una garanzia: è nella manica dei pachistani ed è favorevole al processo negoziale. E' stato forse lui a scrivere il famoso via libera al negoziato firmato da mullah Omar. Mansur avrà due secondi: uno potrebbe essere Yakub figlio di Omar (che molti avrebbero voluto al posto di Mansur) mentre l'altro sarebbe per certo Sirajuddin Haqqani, il figlio senior della rete creata dal vecchio padre mujahedin Jalaluddin e di cui sono noti i buoni anzi ottimi rapporti coi sauditi. Al suo fianco come secondo vice, sostiene l'agenzia Pajhwok, ci sarebbe mullah Haibatullah Akhunzada, già titolare della Difesa durante l'emirato. La scelta fatta sarebbe indigesta alla famiglia di Omar, scrive sempre Pajhwok.
Il processo di pace andrà avanti? Doveva tenersi proprio oggi il secondo round negoziale ma poi i  talebani  ne hanno preso le distanze stamane con una nota ufficiale. E', dicono Islamabad e Kabul, solo rinviato. Poi si vedrà.

ps I talebani hanno ammesso la morte di mullah Omar: ma risalirebbe solo a qualche giorno fa e non sarebbe avvenuta in Pakistan

* Amir e non Amir-ul-Momineen

mercoledì 29 luglio 2015

Dov'è finito Mullah Omar? Un macigno sul processo di pace

Vera o falsa che sia la notizia diffusa in queste ore (leggila sul sito della  Bbc), la morte presunta di mullah Omar (già nuovamente data per certa alcuni giorni fa) getta un macigno sul processo negoziale appena iniziato e che avrebbe dovuto avere un nuovo sviluppo, dopo un primo incontro  a Murree in Pakistan, proprio nei prossimi giorni.

Che Islamabad abbia un ruolo più che rilevante nell'avvio del processo negoziale è fuor di dubbio, come fuor di dubbio è che la notizia della morte di un leader che aveva appena dato luce verde ai colloqui rompe tutti gli esili fili sinora tessuti. Che il Paese dei puri avesse in animo di cambiare strategia e di favorire una pace afgana seppur sotto egida pachistana lo si è capito due anni fa: quando i pachistani, resisi conto che il “contagio talebano” aveva ormai creato problemi anche in casa (con la nascita del Tehrek-e-Taleban Pakistan, i talebani pachistani ben più agguerriti, qaedisti e sanguinari dei cugini afgani), hanno cominciato a bombardare il Nord Waziristan, sede non solo dei gruppi radicali locali ma anche santuario dei talebani afgani e dei colleghi jihadisti uzbechi, ceceni o cinesi.

martedì 16 giugno 2015

Appuntamento a Oslo

Mohaqeq ex signore
della guerra oggi numero 3 della
vicepresidenza
La riunione è in agenda per oggi. Una delegazione di talebani, capeggiata da quello che è ormai considerato il capo negoziatore dell'ufficio politico della shura di Quetta - Tayyab Agha - e una di Kabul si incontrano oggi a Oslo, la capitale della Norvegia. L'incontro è organizzato dall'Oslo Forum. Secondo la stampa afgana la delegazione inviata da Kabul, e che fa capo al vice di  Abdullah Abdullah -  Mohammad Mohaqeq - è formata dal vice ministro degli Esteri  Hikmat Khalil Karzai, dall'ex speacker del parlamento Mohammad Younas Qanooni, dall'ex resposnabilòe degli Affari femminili Husn Bano Ghazanfar, dallìex ninistro del Commercio Anwarulhaq Ahadi e dal rappresentante dell'High Peace Council (HPC), Farhadullah Farhad. Anche se i talebani hanno subito messo i puntini sulle i come già avevano fatto per gli incontri a Dubai del 5 e 6 giugno (sostenendo che siamo ancora ai preparativi e che di fatto non si tratta di un negoziato), si negozia. Sono distinguo a cui non crede più nessuno. Qualcosa sta seppur impercettibilmente cambiando. Anche se nel Paese si continua a sparare e i talebani hanno appena risposto picche alla richiesta di una tregua durante Ramadan.
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sabato 2 maggio 2015

Governo e talebani: faccia a faccia Doha

Mentre scriviamo non si sa ancora com'è andato l'incontro a Doha, organizzato dall'organismo internazionale canadese Pugwash - di cui è tra l'altro è segretario generale l'italiano Paolo Cotta Ramusino - che vede faccia a faccia - spiega l'agenzia Pajhwok - una delegazione di otto talebani della Shura di Quetta ed esponenti del governo afgano, come il capo dell'esecutivo Abdullah o l'ex capo di stato Karzai (la delegazione talebana è capeggiata da Sher Mohammad Abbas Stanikzai, ex ministro della sanità dell'emirato), sempre che la notizia di queste presenze di rango sia confermata (secondo il Wsj partecipano solo membri dell'Alto consiglio di pace). Ma, va chiarito subito, non si tratta di un passo negoziale concordato – come incautamente è stato riportato ieri forse su suggerimento di Kabul - ma di un incontro su invito di Pugwash, un organismo terzo (come per altro già avvenuto in passato a Parigi o in Giappone e uno, secondo ToloNews, sempre a Doha nel 2012 organizzato sempre da Pugwash). Un seminario insomma. C'è però una differenza sostanziale, ossia l'alto livello della rappresentanza afgana che si gioca dunque la faccia oltreché una carta - che al momento pare l'unica - per avvicinare gli inavvicinabili partner con cui vorrebbe dialogare. I talebani hanno chiarito però che la delegazione partecipa a titolo personale (il che appare una contraddizione) e che alla fine verrà letto un comunicato. Non è un passo negoziale, chiarisce il sito della guerriglia, e non si può parlare di processo di pace.

lunedì 16 giugno 2014

Operazione "Zarb-e-Azb"

Iniziata domenica mattina, l'operazione Zarb-e-Azb - condotta con jet e truppe di terra (circa 30mila uomini) dall'esercito pachistano - è entrata oggi nel suo secondo giorno di attività: un operativo “globale”, come le Forze armate lo definiscono, mirato a chiudere santuari e rifugi dei talebani pachistani in Nord Waziristan dove hanno casa, oltre agli islamisti del Pakistan, anche numerosi stranieri (soprattutto uzbechi) e gli uomini della Rete Haqqani, la fazione più radicale dei talebani afgani. I morti, a stamattina, sarebbero almeno 120.

La decisione, che mette per ora una pietra sul negoziato tra Islamabad e il Tehrek-e-Taleban Pakistan iniziato a fatica mesi fa, sembra dimostrare che Nawaz Sharif intende fare sul serio, anche se alcuni osservatori esprimono scetticismo visto che proprio il Nord Waziristan è stato, per anni, un rifugio sicuro per i gruppi islamisti e fuori dalla rotta di jet e droni dell'aviazione pachistana (non di quella americana che è intervenuta con i “senza pilota” anche in questi giorni, dopo una lunga pausa coincisa con l'inizio del negoziato). Quanto al Ttp, secondo il gruppo che fa capo a mullah Fazlullah, i morti sarebbero però sopratutto civili

lunedì 11 novembre 2013

CALENDARIO AFGANO

A un anno dal ritiro del contingente Isaf Nato e dal suo ridislocamento e ridimensionamento nella missione Resolute Support, e a un pugno di mesi dalle elezioni presidenziali di aprile, l'Afghanistan è davanti a una svolta importante ma i nodi da sciogliere restano tanti. Complessi e per certi versi insormontabili.

Processo di pace

La riconciliazione nazionale sembra a un punto morto. L'apertura di un ufficio politico dei talebani a Doha, in Qatar, premessa di un possibile dialogo non ha dato i frutti sperati e ha anzi esacerbato le posizioni. Karzai e il suo Consiglio di pace, unico attore negoziale possibile per il governo di Kabul, si sono irrigiditi sia per il fatto che gli americani, scavalcando il governo afgano, hanno tentato di condurre trattative separate, sia per il fatto che il riconoscimento formale della delegazione all'estero è sembrato loro troppo rapido e in grado di fornire ai talebani un asso in più da giocare. L'unica novità sembra l'atteggiamento del Pakistan che ha ammorbidito i toni con l'arrivo del neo premier Nawaz Sharif e ha ottemperato ad alcune richieste di Kabul sulla liberazione dei prigionieri talebani (da utilizzare eventualmente come mediatori). Ma tutte le posizioni sembrano per ora distanti e ognuno (Islamabad, Washington, Teheran) più disposto a inseguire un risultato su altri fronti che non a dare manforte al governo legittimo perché la trattativa sia condotta su binari trasparenti e alla fine risolutivi.

Ritiro e sicurezza

La sicurezza del Paese continua a essere il grande tema che indebolisce la posizione del governo e quella della comunità internazionale - che non riescono a garantirla fuori dai grandi centri urbani – mentre il post 2014, col ridimensionamento del contingente Nato, appare agli afgani più una ritirata strategica e un problema di spesa e consenso interno che non una strategia in grado di aiutarli veramente. Italiani e tedeschi, con circa 4mila soldati, continueranno a presidiare il Nord e l'Ovest con programmi di formazione di esercito e polizia mentre britannici e americani restano un incognita. Quel che è certo è che termineranno le operazioni combat entro la fine del 2014 e si aprirà la nuova fase di Resolute Support. Quanto sarà risoluto resta da vedersi. Sul fronte della ricostruzione civile ci sono per ora promesse e fondi per altri quattro anni. Una riduzione dell'impegno civile rischia di compromettere definitivamente il rapporto col Paese che finirebbe per sentirsi definitivamente abbandonato anche sul piano dello sviluppo.
Il contenzioso con gli americani
I numeri del contingente americano non sono ancora definiti ma nel 2015 potrebbe trattarsi di circa 10mila uomini, molti dei quali sarebbero però impegnati nella difesa e tutela della basi militari di cui Washington vuole assicurarsi il controllo soprattutto in chiave anti iraniana. Ma al momento la firma definitiva dell'accordo tra le due capitali è ancora una nebulosa che dipende in sostanza, più che dalle basi, dalla richiesta di immunità per le truppe Usa su suolo afgano. Mal tollerata durante gli ultimi dodici anni, oggetto di polemiche continue, l'immunità è un nodo che per ora non si scioglie e da cui dipende la luce verde o meno all'accordo di partenariato militare (Bilateral Security Agreement - Bsa) che dovrà comunque passare per il parere di una Loya Jirga, la grande assemblea consultiva, che Karzai ha convocato in novembre e che finora è sempre servita a ratificare le scelte del presidente. Vi parteciperanno almeno 2.500 notabili.

Presidenziali

Il presidente Karzai, che in aprile dovrà ritirarsi, sta giocando le sue ultime carte su un tavolo dove il Bsa ha un peso rilevante. Si tratterebbe della sua ultima vera azione come uomo politico prima di lasciare per dedicarsi alla cura dell'uomo che avrà la presidenza e che il presidente uscente spera sia un personaggio di cui si fida e attraverso cui poter ancora esercitare influenza. Tra i numerosi candidati ce ne sono diversi su cui Karzai può puntare: sul fratello Qayum che non ha però molte speranze, su Ashraf Ghani e su Sayyaf. Ghani ha un passato specchiato ma non ha grande seguito né particolare influenza anche se è in ticket col potentissimo generale Dostum, un ex signore della guerra già ministro di Karzai e in grado di controllare una buona fetta dell'elettorato non pashtun nel Nord. Sayyaf è un altro ex signore della guerra, con relazioni forti in ambito tribale e una catena di rapporti personali estesa e potente. Ma sia Dostum sia Sayyaf sono anche personaggi impresentabili a un gran numero di afgani proprio per il triste e crudele passato che li accomuna. Dostum si è abilmente scusato pubblicamente e per altro le loro candidature hanno sollevato polemiche solo in Afghanistan. La comunità internazionale, come già in passato, ha chiuso un occhio. Il grande incomodo resta Abdullah Abdullah, nemico giurato di Karzai con forti relazioni nel Nord e buoni appoggi politici. E' stato sconfitto nelle passate elezioni a colpi di frodi elettorali. Difficile dire come andrà stavolta perché lo scrutinio si prevede più rigoroso e comunque sotto un occhio più vigile che in passato, sia all'interno sia all'esterno del Paese.

Governance

Chiunque vinca le elezioni si troverà di fronte a problemi enormi: quelli già citati, un'economia che dovrà riconvertirsi, il narcotraffico e, problema irrimandabile, la struttura della macchina pubblica, strangolata da una corruzione endemica che attraversa l'apparato a ogni livello e in tutti i gradi e settori in cui è attiva la mano pubblica, si tratti di ristrutturare una strada, aggiornare un catasto semi inesistente o di rilasciare una patente. La corruzione, un tempo accettata con rassegnazione, è adesso uno dei principali nodi del consenso interno. E dal momento che si coniuga con una macchina burocratica per molti aspetti ancora inefficiente, rischia di diventare il problema principale nel governo della cosa pubblica. La comunità internazionale ne ha fatto in passato un cavallo di battaglia che però ha semmai sfiorato i ministeri o le istituzioni bancarie ma non un problema culturale complesso nel quale è entrata a piè pari un'enorme massa di denaro, che ha favorito speculazioni e rapidi arricchimenti. Denaro fornito proprio dall'aiuto pubblico dei Paesi alleati e delle istituzioni internazionali, con scarsi o farraginosi meccanismi di controllo nonché episodi di appropriazione indebita o di favori alle proprie industrie nazionali che non hanno certo aiutato la costruzione di un modello virtuoso e di un esempio da imitare.

Economia

Inevitabilmente la guerra ha finito per drogare l'economia afgana, praticamente inesistente quando nel 2001 iniziò il conflitto con quel che restava dell'emirato di mullah Omar. L'aiuto esterno costituisce oltre il 90% del Pil e gli introiti dell'economia sommersa (in gran parte legata al narcotraffico) sarebbero valutati a circa la metà della ricchezza legalmente a bilancio. Inoltre, l'enorme massa di valuta pregiata entrata in Afghanistan ha finito per rafforzare l'afghanis su dollaro e euro rendendo molto più competitiva l'offerta dei paesi vicini, che hanno svalutato mediamente del 40% le loro divise. Con un export in deficit, un'economia formale sovvenzionata, un'agricoltura arretrata e quasi la totale assenza di prodotti industriali, l'Afghanistan deve inoltre fare i conti con l'ingresso annuale di circa 400mila giovani nel mercato del lavoro, dominato dal lavoro informale stagionale e privo di tutele sindacali. Problema probabilmente sottostimato, il nodo della riconversione da un'economia drogata dalla guerra a un'economia che dovrà camminare a breve sulle sue gambe sta ora arrivando al pettine

Quadro regionale

La pace in Afghanistan non si può fare senza l'aiuto, la non ingerenza o quantomeno la non ostilità dei suoi vicini. I passi per un'alleanza regionale sono stati tardivi e sono al momento ancora troppo pochi e del tutto fragili. Il cosiddetto Processo di Istanbul, avviato due anni fa, avrebbe probabilmente dovuto iniziare molto prima e forse accompagnarsi a una revisione del mandato delle truppe che stazionavano e stazioneranno in Afghanistan. I due livelli invece sono sempre stati tenuti separati, come se non fossero la faccia della stessa medaglia. Il processo di integrazione è comunque avviato pur se dipende da numerosi fattori endogeni (la diffidenza degli afgani verso Islamabad, Teheran e Mosca) ed esogeni, il primo dei quali è l'agenda geopolitica delle singole nazioni.

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giovedì 2 maggio 2013

LA TABELLA DI MARCIA DEL POST 2014


Se per tentare di definire il futuro dell'Afghanistan si può prendere per certo il fatto che per la fine del 2014 si completerà il ritiro delle truppe ISAF/NATO, tutto il resto appare come una nebulosa. Elezioni presidenziali (previste sempre per il prossimo anno), futuri assetti di potere interno e processo di pace, economia, rapporti con i paesi confinanti: sono tutti elementi di incertezza.

In realtà
, anche l'uscita di scena della NATO pone non pochi problemi. Il ritiro delle truppe ISAF/NATO è in corso da tempo, ma ogni paese della coalizione lo sta declinando a suo modo con un coordinamento solo apparente di Bruxelles: la “exit strategy” è definita secondo esigenze nazionali. Di per sé la cosa non sembra preoccupare particolarmente il governo afgano: che nel tal paese si acceleri e nell'altro si prolunghi la ferma, la scadenza è il dato cui, più o meno obtorto collo, tocca conformarsi. Ma tutta una serie di questioni restano aperte sul piano militare: le più importanti riguardano gli americani, con cui il presidente Karzai ha aperto un vero e proprio contenzioso negli ultimi mesi.

La tattica adottata dal presidente afgano è abbastanza evidente: in cerca di consensi per ritagliarsi una posizione importante nel futuro del paese, ha criticato duramente gli USA sul punto più sensibile, cioè lo status delle truppe (10-12.000 unità) che resteranno dopo il 2014....segue su Lettera22