Tornando a casa. Questo l'artciolo uscito oggi anche su il manifesto. Sintesi-reportage con qualche ipotesi e begli incontri dell'ultimo viaggio in Afghanistan
Al parco di Sharenaw, dove c'è persino qualche pianta, il sole ancora caldo batte sui turbanti degli afgani accovacciati a bere una tazza di te. La guerra sembra lontana e la gente maledice il traffico come in qualunque capitale. La guerra è alle porte però, appena qualche chilometro più a Sud: Logar, Wardak...
Gli americani sembrano essere tornati alla vecchia strategia controinsurrezionale: arresti, omicidi mirati, squadre speciali. Moltiplicandoli. Nessuna “spallata” (tipo la fallimentare Operazione Marjah) ma un aumento del 50% dei bombardamenti, ha scritto il New York Times, e operazioni territoriali mirate di altri contingenti come quella in corso coi tedeschi in questi giorni a Nord. All'Italia gli americani hanno riservato il Farah, nel tentativo di disimpegnarsi da alcune aree per impiegare più forza nel Sud. A sentire gli analisti afgani, il Farah è una brutta faccenda. E' guerra vera: altro che “approccio italiano”. E agli americani non dispiacerebbe affatto qualche bomba sui cacciabombardieri Amx. Anche se poi i raid seri li riservano ai propri piloti.
La guerra alle porte, la pace in città
La capitale però è tranquilla, come se vi fosse stato eletto un domicilio negoziale possibile. I talebani e altri gruppi avrebbero ottenuto anche dalla Nato il salvacondotto per entrare in città. E in città si tratta. Ai colloqui negli hotel Serena e Intercontinental dei giorni scorsi, oltre a pachistani, ex talebani e gente vicina al governo, c'era anche l'Onu e alcune ambasciate europee, tra cui, dicono qui, tedeschi e italiani. Qualcosa dunque si muove. Poco, meno di quel che sembra. Ma è l'unica speranza, seppur flebile. In questi giorni, facendo la tara tra articoli, voci, commenti di analisti, ipotesi varie, l'ormai quotidianamente sbandierato processo di pace sembra poca cosa. Si, certo, ci sono stati contatti, incontri semi ufficiali e un gran roteare di dichiarazioni in positivo, ma nella realtà dei fatti un negoziato tra governo e guerriglia sembra davvero ancora lontano o, quantomeno, alle mosse iniziali.
Certo qualcosa è cambiato. Soprattutto l'atteggiamento degli americani anche se questi ultimi un giorno dicono una cosa e un giorno un'altra (ad esempio non è affatto chiaro se la Casa Bianca abbia dato luce verde ai contatti con la “cupola” talebana. Sì secondo il Washington Post, no secondo il portavoce del dipartimento di Stato Philip Crowley, per il quale con mullah Omar non si tratta). Gli Usa sono l'attore principale del conflitto e dunque ci vorrebbe un po' di chiarezza mentre si ha l'impressione che la lotta interna tra chi se ne vuole andare domani o dopo (Obama), chi vorrebbe rimanere sine die (i militari) e chi non sa bene che pesci prendere, debba ancora finire. Ma se ciò nuoce in generale, agli occhi degli afgani (e non solo ai loro) dice chiaramente che Washington vuole pilotare il processo. Altro che afganizzazione.
Processo di pace?
Per Karzai il disegno è abbastanza chiaro. In superficie mettere un mucchio di paletti, sotto sotto cercare di trattare con tutti: mullah Omar, la rete Haqqani, Hekmatyar (per semplificare, i tre fronti maggiori della guerriglia) e intanto cercare di isolare ed eliminare, dove possibile, quei gruppi jihadisti o qaedisti di arabi, uzbeki, ceceni che spesso creano problemi agli stessi talebani. Ma Karzai è debole internamente e con un appoggio ondivago della Comunità internazionale. Adesso sì domani no, oggi corrotto domani unico punto di riferimento. Il segnale attuale è però che può andare avanti: la sua famiglia, implicata in scandali a vario titolo, si beccherà solo una multa. Sulla corruzione si batterà un po' di meno e sulle elezioni, le cui frodi manifeste dovrebbero garantirgli parlamentari fedeli nella futura Wolesi Jirga, si chiuderà un occhio, come si è già fatto nei mesi scorsi.
Poi ci sono i pachistani. Sembrano seriamente intenzionati a lavorare a una soluzione ma a patto che la possano pilotare. Sanno di avere l'asso nella manica, ossia il controllo dei movimenti dei capi talebani (residenti, con buona probabilità, a Karachi) e di cui sono note a Islamabad le abitazioni, i movimenti, gli incontri. Il conto che i pachistani non fanno o che non vogliono fare, riguarda il controllo reale sul terreno in Afghanistan, dove il Pakistan è detestato e la cui influenza viene percepita come una forte ingerenza (anche da molti talebani). C'è dunque un rapporto di reciproca utilità ma legato a un filo. Nondimeno Islamabad può giocare un ruolo chiave e lo sa. Ma sa anche che, in certi termini, non può dirigere tutta la partita da sola (come le piacerebbe) tenendo sempre in mano il mazzo. Ecco che spunta Riad...
Congetture e ipotesi si dimenticano in fretta prendendo la strada del Panjshir per una visita all'ospedale di Emergency ad Anaba. In questa vallata, dove i mujaheddin di Massud avevano dato filo da torcere ai sovietici e sbarrato il passo a mullah Omar, è come essere in un piccolo paradiso: niente filo spinato, né contractor, né muraglioni di ferro-cemento. Fiumi che scorrono schiumeggianti e puliti sotto montagne a picco che un gigante sembra aver formato facendo cadere dal pugno soffi di sabbia calcarea.
Angeli bianchi, diavoli rossi
Territorio degli angeli umanitari o dei diavoli rossi, a giudicare dal caschetto di capelli amaranto di Michela Paschetto
, attivissima responsabile di un ospedale, l'unico della provincia, dove si fanno 8mila ammissioni l'anno e 250/300 parti al mese (più che in un medio nosocomio italiano), il Panjshir fa riflettere sull'azione umanitaria. Che, oltre a salvar vite, fa educazione preventiva e famigliare ed è riuscita a convincere qui le famiglie che in ospedale i figli non muoiono e le madri sopravvivono.
La domanda legittima è dunque se il risparmio generato dal ritiro del contingente militare, che costa circa 1,5 milioni di euro al giorno, l'Italia lo destinerà a Tremonti o a un investimento di lungo periodo per ricostruire questo Paese. Emergency soldi dallo Stato non ne prende ma adesso la Farnesina, per mancanza di fondi, ha sospeso la convezione con cui pagava i contributi degli operatori sanitari italiani e garantiva loro l'aspettativa dall'ospedale. Un problema. Gli umanitari non hanno vita facile. Più a Nord nel Faryab, Intersos, l'unica altra Ong che ha una presenza costante in Afghanistan (soprattutto nel sostegno ai profughi rimpatriati e nella formazione), lavora in condizioni sempre più stressanti, perché la sicurezza è diminuita negli anni e l'unica vera protezione sembra quella di affidarsi alla capacità di stringere relazioni forti con le comunità locali. Alda Cappelletti, una veterana dell'organizzazione, fa la spola tra Maimana, Herat e Kabul con una determinazione e una passione che il suo apparente distacco professionale non riesce a nascondere. Di Ong ce ne sono altre: Cesvi, Gvc, Aispo, l'Ics di Alessandria, Pangea e mille altre piccole grandi realtà (senza contare gli interventi della Cooperazione italiana). Ma sembra una goccia nel mare. Per le Ong c'è sempre da far conti con bilanci risicati, la pressione continua che paventa sequestri e attacchi, una burocrazia locale diventata sempre più diffidente verso gli stranieri. Investirci di più sarebbe il segno di una svolta vera.
Le immagini sono tratte da vecchie stampe o dall'archivio di Romano Martinis
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