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sabato 17 marzo 2012

CHI TRAE VANTAGGIO DALLA STRAGE DI KANDAHAR

Apparentemente non c'era peggior viatico possibile per la visita del primo ministro britannico David Cameron negli Stati uniti che la vicenda del sergente americano che, alla vigilia della partenza, ha fatto strage di civili in un distretto della provincia afgana di Kandahar. L'ennesimo episodio, che rinfocola polemiche e riattizza la rabbia degli afgani, consente però, paradossalmente, un'accelerazione da cui – oltre che i talebani – possono trarre vantaggio sia il governo di Kabul, sia l'Amministrazione Obama. Vediamo perché.

Dopo le vicende del “Kill Team” (un gruppo di soldati capitanati dal sergente Calvin Gibbs, condannato recentemente all'ergastolo per l'uccisione di afgani inermi ma che potrà tornare libero in dieci anni), dell'urina sui corpi di talebani morti (un video scioccante su cui è stata promessa un'inchiesta per ora senza risultati pubblici) e la vicenda dei Corani (malamente gestita e al momento senza colpevoli palesi), gli Stati uniti hanno già fatto sapere, attraverso le parole del capo del Pentagono, che il colpevole di Kandahar rischia la pena di morte: Panetta ha tra l'altro potuto usufruire casualmente di una visita in Afghanistan in realtà da tempo programmata mostrando così una rapidità di reazione americana senza precedenti. Le scuse ufficiali infine sono state velocissime, anche da parte di Obama, così come l'avvio dell'inchiesta e l'arresto immediato, tanto che, nonostante le reazioni del parlamento (chiuso per un giorno in segno di protesta), l'esecutivo afgano si è affrettato a dichiarare che la vicenda non comprometterà il negoziato sull'accordo tra Washington e Kabul che deve regolare la presenza Usa dopo il 2014. Il dossier più delicato al momento sul tavolo dei due governi.

Obama dovrebbe quindi arrivare all'appuntamento di maggio (il vertice Nato che si terrà nella sua città, Chicago) rafforzato da un'exit strategy che inizia a dare i suoi frutti. E rafforzato nella scelta, che la vicenda di Kandahar ha accelerato, di un ritiro forse più rapido dei suoi soldati dal teatro, anche se pubblicamente il presidente si dice favorevole a un'uscita senza troppa fretta («We don't rush for the exits in a way that could end up leading to more chaos and more disaster...» , un modo per tenere a bada alcuni settori del Pentagono e i parlamentari più critici). Su un'accelerazione del ritiro in realtà non c'è ancora una posizione ufficiale, che potrebbe essere presentata al summit Nato, ma si potrebbe trattare di ventimila soldati in più entro metà 2013, almeno secondo il New York Times, rispetto a quanto finora previsto (22mila circa entro settembre 2012). Una mossa che mira a ridurre il contingente (e le spese relative) della metà rispetto all'anno scorso (quando c'erano circa 100mila soldati americani), ben prima della scadenza del 2014, anno che dovrebbe concludersi con la fuoruscita quasi totale dei soldati occidentali in Afghanistan. Se i repubblicani avevano dunque utilizzato la vicenda dei Corani come grimaldello per dimostrare la debolezza di Obama, costretto a loro avviso a scuse ufficiali a Karzai non dovute, la storia di Kandahar li lascia senza armi e il vertice di Chicago rischia di risolversi con la vittoria delle tesi del presidente: accelerare l'uscita dei soldati mantenendo un piede in Afghanistan e terminare una guerra sempre più impopolare senza perdere la faccia.

Anche sul fronte afgano il debole Karzai può trarre vantaggio dalla vicenda di Kandahar. Hamid Karzai, indispettito nei mesi scorsi dalla gestione del negoziato coi talebani (condotto da Berlino e Washington senza consultarlo), ha avuto buon gioco – complice l'affaire Corani - nella trattativa quadro sulla permanenza americana in Afghanistan dopo il 2014. Gli americani hanno ceduto su una questione dirimente, cavallo di battaglia di Karzai degli ultimi due mesi: il passaggio di consegne dei detenuti afgani della grande base americana di Bagram (di cui un'ala è adibita a prigione di guerra) sotto la giurisdizione giudiziaria afgana. Ora, la vicenda Kandahar potrebbe assegnare a Karzai un altro punto: la fine o la riduzione sostanziosa dei raid aerei notturni, altro cavallo di battaglia del presidente. Ottenuti questi due atout, Karzai potrebbe persino rivendicare come sua l'accelerazione dell'uscita di scena di gran parte dei soldati Nato/americani (e infatti ha appena chiesto che gli eserciti se ne vadano nel 2013) e servirsene sia nella trattativa coi talebani, sia di fronte a un parlamento riottoso ma comunque incapace di organizzargli contro una vera e propria opposizione coordinata. Karzai ha anche rivendicato la luce verde al trasferimento a Doha – dove la guerriglia in turbante dovrebbe aprire un ufficio politico – dei cinque prigionieri talebani detenuti a Guantanamo, oggetto iniziale della trattativa tra mullah Omar e gli americani. Messo così, il negoziato, sino a ieri patrimonio di due attori estranei al governo di Kabul (i talebani e gli occidentali), rientrerebbe nei binari afgani, ridando al palazzo di presidenziale di Arg, nel cuore della capitale, una parte importante nella trattativa.

Ovviamente da tutto ciò anche la la guerriglia in turbante trae i suoi vantaggi. Ha annunciato di aver sospeso il negoziato sostenendo che gli Stati Uniti non hanno soddisfatto le condizioni e che i colloqui con il governo afgano sono «senza senso» oltre ad aver minacciato di vendicarsi della strage di Kandahar decapitando «gli animali...soldati sadici e assassini». Ma la propaganda talebana questa volta ha stranamente fatto poca presa sulla popolazione civile, se si escludono le comprensibili manifestazioni nell'area della strage e qualche dimostrazione abbastanza contenuta altrove (a Jalalabad ad esempio), segno di una stanchezza popolare e di un'incapacità della guerriglia di trasformare la diffusa rabbia e disillusione, come forse aveva sperato durante la vicenda dei Corani bruciati, in un consenso militante e popolare alla causa nazional-islamica del movimento.

Rimane per gli americani una questione più generale di management della truppa, ossia la gestione del contingente: naturalmente la sequela di vicende che hanno attraversato gli ultimi mesi richiedono un intervento preciso e forte degli americani nei confronti dei responsabili dei soldati in una missione con numeri elevati di militari impiegati – e nel quale dunque il novero di “mele marce” è altrettanto elevato- e che spesso, come nella vicenda del sergente di Kandahar, hanno alle spalle più di una missione in teatri particolarmente difficili e debilitanti (nel suo caso tre missioni in Iraq e una in Afghanistan). La capacità di gestione del contingente ha infatti direttamente a che vedere non solo con l'evidente erosione del consenso nell'opinione pubblica afgana, ma con un problema di fiducia della leadership militare afgana sul tipo di addestramento che gli americani danno alle truppe nazionali, sulle quali si è addivenuti a un accordo che ne riduce sostanzialmente il peso numerico ma che, anche in vista dell'accordo Kabul-Washington, da definire nei dettagli prima di Chicago, prevede pur sempre la presenza di formatori dell'esercito americano senza un limite preciso di tempo. Una formula che consentirà, dopo il ritiro, di conservare una presenza di soldati che il Pentagono ritiene irrinunciabile e senza che sia percepita come forza di occupazione.

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