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venerdì 11 giugno 2021

Il futuro dell'Afghanistan


L
a dipartita completa delle truppe straniere dall’Afghanistan prevista a settembre solleva una serie di preoccupazioni, in parte condivisibili in parte forse sovrastimate, che sembrano a volte sottintendere che, magari... sarebbe stato meglio restare. Tensione e timori sono comprensibili, assai meno una specie di racconto del caos in cui l’Afghanistan precipiterebbe proprio perché noi ce ne andiamo. Con un ragionamento molto semplice e quasi banale, viene infatti da pensare che, se si leva dal fuoco il ciocco più grosso (la guerra contro gli stranieri), dovrebbe esser più facile governare le ceneri per quanto ancora calde. La Storia può dare una mano.

Quando nel 1989 dopo dieci anni di una guerra fallimentare l’Urss si ritirò dall’Afghanistan, nessuno si preoccupò del baratro su cui il Paese era sospeso: con una guerra civile in corso, uno Stato fallimentare ormai privo di aiuti (che l’Urss cominciò a sospendere dal ritiro) e un futuro oscuro per donne che, all’epoca del soviet afgano, erano ministre o direttrici di giornali che non portavano il burqa. Proprio quanto avvenne ai tempi dell’Urss dovrebbe servire di lezione perché col ritiro delle truppe andrebbe previsto un piano a lungo termine, una visione per ricompensare almeno in parte i danni di un conflitto durato vent’anni. Allora non era semplice farlo ma oggi si può.

Quando dopo gli accordi di Ginevra dell’aprile 1988 Urss, Usa e Pakistan si accordarono sul ritiro dell’Armata rossa, a patto che nessuno più finanziasse la resistenza, a maggio iniziò il ritiro dei soldati che si concluse in febbraio. Il governo di Najibullah però resisteva: è nota la battaglia di Jalalabad dell’aprile ‘89 quando i mujahedin, che Usa e Pakistan continuavano a rifornire violando gli accordi, non riuscirono a prendere la città che sta sulla frontiera col Pakistan, retroterra dell’intera coalizione guerrigliera. Fu solo dopo il 1990 che le cose si complicarono: gli Usa smisero di sostenere i combattenti islamici (ma non cosi Islamabad e Riad) mentre Gorbaciov si rifiutò di continuare a pagare Najibullah. Non potendo più erogare gli stipendi, il suo esercito si sciolse come neve al sole e i mujahedin, gente non molto più progressista dei Talebani, entrarono vittoriosi a Kabul dove iniziarono a guerreggiare tra loro.

Trent’anni dopo, pur con tutte le differenze, siamo a un punto simile... Leggi tutto su atlanteguerre

mercoledì 30 gennaio 2019

Trenta, Moavero e la guerra afgana

Il fatto che il ministro degli Esteri Moavero Milanesi abbia detto di non saperne nulla, all’indomani delle indiscrezioni sul ritiro dall’Afghanistan dei soldati italiani nell’arco di 12 mesi deciso dalla ministra Trenta, è non solo anomalo e imbarazzante ma la spia di due debolezze. La prima riguarda una scelta evidentemente non condivisa all’interno del governo se un ministro dice una cosa e l'altro, in un certo senso, la smentisce. La seconda riguarda invece una debolezza strutturale degli ultimi governi del Paese, di centro sinistra come di centrodestra e ora di indefinito colore: quella cioè di aver affidato al ministero della Difesa la gestione della guerra afgana, un trasferimento di poteri che bypassa il primo ministro e il titolare della Farnesina, le due figure istituzionalmente deputate alla gestione di un conflitto. Anche un terzo elemento è di una certa gravità: l’aver ignorato il parlamento (e persino il consiglio dei ministri), come se una decisione tanto importante – il ritorno dei nostri soldati da una guerra che dura da 17 anni - possa essere una misura che si decide con un provvedimento amministrativo da parte di un ministero. E’ la spia di un processo lungo che ha visto nel tempo diminuire la presenza della diplomazia e affermarsi la primogenitura delle armi.

I premier italiani hanno smesso di visitare l’Afghanistan lasciando l’incombenza ai ministri della
Difesa. Questi ultimi, ormai vestiti in mimetica come se fossero soldati e non rappresentanti civili di un governo, si guardano bene dall’andare a salutare per primo il presidente afgano in carica. Passano in rivista le truppe e, se va bene, incontrano il loro omologo o, più spesso, i vertici Nato in un Paese dove l’occupazione militare è stata la cifra di una “missione di pace” approvata – di disse allora - per combattere il terrorismo ma anche per sostenere lo sviluppo, la libertà delle donne, i diritti umani. Se la forma è anche sostanza, la beffa di due ministri che battibeccano nientemeno che sulla fine della partecipazione a un conflitto, non è che la logica conseguenza di questo percorso. Debole (perché demanda in realtà agli Stati Uniti la decisione se si debba o meno restare in Afghanistan) e pericoloso (perché abitua i cittadini a pensare che il tema della guerra appartenga soltanto alla sfera militare). Da questo punto di vista, anche la società civile italiana non è esente da critiche. L'associazionismo italiano ha lasciato scorrere l’acqua della guerra afgana – la più lunga della storia recente - come un flusso tutto sommato di ordinaria amministrazione. Distratta da nuovi conflitti (Siria, Kurdistan, Libia) si è dimenticata di quello più vecchia: la madre di tutte le guerre a cavallo del secolo che, nel dicembre prossimo, compirà 40 anni.

Intanto, se il condizionale è d’obbligo nelle questioni afgane, anche la bozza d’accordo che i talebani avrebbero concordato nel Qatar con l’inviato americano Zalmay Khalilzad va trattata con prudenza. Dopo quasi una settimana di colloqui diretti, Khalilzad e la rappresentanza politica talebana che ha sede a Doha, sono arrivati a un accordo di massima su alcune questioni fondamentali anche se non del tutto risolutive. La prima riguarda un calendario d’uscita delle truppe straniere dal Paese (Nato compresa, che – come ha già ha fatto Roma - si adeguerà alle scelte americane), precondizione per trattare il resto. Gli americani avrebbero anche ottenuto garanzie su un’uscita indolore senza attacchi di sorpresa mentre i talebani si sarebbero impegnati a non avere nessun legame né con Al Qaeda né con lo Stato islamico. Gli altri punti nevralgici – il dialogo col governo di Kabul e il cessate il fuoco – restano invece dei nodi, non secondari, da sciogliere. Non è nemmeno chiaro se Washington potrà conservare l’utilizzo – magari con un ridotto numero di soldati – della base aera di Bagram, hub strategico in caso di conflitto con Mosca o Teheran. Difficile che gli americani vi intendano rinunciare....

... (continua su DinamoPress)

Nelle immagini: Elisabetta Trenta, Enzo Moavero, Donald Trump

martedì 29 gennaio 2019

Italia/Afghanistan. Ci ritiriamo. Con calma

La base Usa di Bagram. E entrata nel negoziato?
Se l’accordo in fieri tra talebani e americani enucleato nel Qatar è ancora figlio delle indiscrezioni, anche il ritiro dell’Italia dall’Afghanistan – bandiera elettorale dei partiti ora al governo – è poco più di un’indiscrezione che recita così: il ministro della Difesa Elisabetta Trenta “ha dato disposizioni al Comando operativo di vertice interforze (Coi) di valutare l’avvio di una pianificazione per il ritiro del contingente italiano in Afghanistan con un orizzonte temporale che potrebbe essere quello di 12 mesi”. In buona sostanza, senza essere riusciti a ridurre il contingente quando gli americani han preteso che la Nato restasse, adesso - che da Washington si suona il “liberi tutti” - tutti si dovranno accodare: anche tedeschi, inglesi (per citare i contingenti più ampi) e tutti gli altri partner della missione Nato Resolute support potranno seguire a ruota e fare le valige.

Un negoziato di pace è sempre una buona notizia, chiunque sia il mediatore e qualunque sia il
La ministra Trenta in visita a Camp Arena (Herat)
base Nato a comando italiano
risultato se le armi finalmente inizieranno a tacere. Ma è grave quanto triste che la diplomazia italiana – e con lei quella europea - non siano riuscite a dire a riguardo una sola parola per non disturbare il manovratore verso il quale noi europei abbiamo sempre agito in totale sudditanza. Politica e militare. Soprattutto militare, tanto che noi italiani abbiamo delegato soprattutto alla Difesa il dossier afgano specie da quando La Russa ne divenne il titolare, inaugurando la pratica di vestire la mimetica. Da quanto tempo un premier italiano non va in Afghanistan? Di regola ci va il ministro di Via XX settembre che non passa mai a trovare il capo di Stato – come un seria etichetta richiederebbe - ma solo i suoi militari nelle caserme ospiti del Paese. Un registro che il governo gialloverde non ha cambiato.

In dodici mesi dunque si dovrebbero ritirare i nostri 900 militari, i 148 automezzi, gli 8 velivoli e i diversi droni in gran parte dislocati ad Herat e in piccola parte a Kabul. E potrebbe essere questa l’occasione per dimostrare agli afgani che un impegno civile può continuare il che sta sempre in capo alle decisioni politiche. Ormai da anni la cooperazione è interdetta alle Ong, disincentivate e sconsigliate dal mettere piede in Afghanistan (salvo rare eccezioni come Emergency o Pangea che vivono di fondi propri). Dopo aver perso la guerra, forse potremmo almeno tentare di sostenere la pace.

Questo articolo è uscito oggi su il manifesto

sabato 22 dicembre 2018

Da gialloverdi a grigioverdi


Alcuni giorni fa la ministro Trenta ha compiuto la sua missione di rito in Afghanistan dove ha visitato il comando di Herat a guida italiana. Si è presentata in mimetica come già aveva fatto – per nulla apprezzato da chi la divisa la porta per mestiere – da un suo predecessore di nome Ignazio La Russa. Nemmeno il messaggio rivolto al contingente è stato molto diverso anche se, in campagna elettorale, M5S in primis, si era fatto del ritiro della truppa un cavallo di battaglia. Poi, un po’ come per la finanziaria, le cose sono cambiate. La gestione del lodo afgano è passata direttamente al ministro Moavero Milanesi, uomo che non nasconde le sue simpatie per la Nato e che ne ha sottratto la competenza al sottosegretario incaricato dell’Asia. Di conseguenza, benché il governo Renzi avesse programmato un ritiro di 200 soldati, il governo gialloverde si è accontentato di ritirarne solo cento. O almeno così era stato detto a ottobre. Al momento, sul sito della Difesa restano i dati al 30 settembre 2018, con “...un impiego massimo di 900 militari, 148 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei” suddivisi tra Herat e Kabul, escluso quindi il nostro personale della logistica negli Emirati.

Mentre Trump vuole ritirare parte dei suoi soldati, mentre i francesi han fatto le valige da tempo seguiti da altri più o meno alla chetichella, l’Italia resta impegnata col terzo contingente per numero di uomini, solo da poco superato dalla Gran Bretagna. Restiamo dunque. E il ritiro è tanto “graduale” che persino gli americani ci battono sulla velocità dopo averci chiesto, un anno fa, di restare. Più realisti del re. E più che gialloverdi, grigioverdi.

giovedì 21 giugno 2018

Afghanistan? Gialloverde signorsi

Ritiro delle truppe? Nemmeno accennato
E’ un comunicato di 5 righe quello che il ministero diretto da Enzo Moavero Milanesi ha dedicato all'incontro alla Farnesina col Chief Executive del governo afgano, Abdullah Abdullah a Roma fino a ieri per una riunione  del World Food Programme. Sommate all'apprezzamento del 17 giugno sulla tregua tra Kabul e la guerriglia per la festa di Eid el-fitr, la posizione dell’Italia sull'Afghanistan totalizza 8 righe e mezzo. Appena un quarto del messaggio che Moavero ha fatto avere alla stampa quando il 10 giugno ha incontrato a Roma il Segretario generale della Nato, Stoltenberg. In quell’occasione “Moavero ha tenuto a ricordare come l’Italia, quinto contributore al bilancio della Nato, abbia profuso un grande impegno in termini di uomini, mezzi e risorse nelle operazioni Nato”, soprattutto “in Afghanistan e in Kossovo”. Il ministro ha inoltre sottolineato “come la tendenza alla crescita” delle spese militari “si vada consolidando”.

lunedì 18 giugno 2018

Un bilancio della tregua afgana e un consiglio al governo italiano

Mentre il convoglio partito dall’Helmand 38 giorni fa è arrivato stamane a Kabul, si può tentare un bilancio della tregua decisa da governo e talebani in Afghanistan. Ghani lancia la proposta di otto giorni di cessate il fuoco a cavallo di Eid el-fitr, la festa che celebra la fine del digiuno rituale. I talebani aderiscono all’idea per soli 3 giorni (da giovedi notte a domenica notte). Ghani in seguito si spinge a proporre un prolungamento cui chiede aderiscano anche i turbanti in armi. I talebani dicono no e aggiungono che la loro non è stata una decisione dovuta all’appello del governo ma una scelta autonoma che comunque prevedeva una tregua solo con gli afgani e non con gli stranieri. Da oggi, a loro dire, riprende la guerra contro invasori e “puppet” locali. Ma il dato resta. La tregua ha funzionato con scene incredibili di abbracci e strette di mano tra talebani e parenti ma anche con soldati e ufficiali dell’esercito. Molti guerriglieri sono entrati nelle città e nei villaggi - dove da anni non possono mettere piede – aderendo alla richiesta che non lo facessero armati.

La tregua ha tenuto e, trattandosi della prima in assoluto, si conferma un successo totale. La speranza di un prolungamento era appunto una speranza e può anche darsi che abbiano influito i due attentati nella provincia di Nangarhar (uno dei quali rivendicato dallo Stato islamico) che hanno ucciso civili, soldati e talebani facendo scattare, da quel momento, il divieto per i guerriglieri di recarsi a incontri con parenti o soldati. Lo Stato islamico ce l’ha messa tutta per far deragliare questa anticamera di uno spazio negoziale, ma le sue stragi hanno solo un effetto tattico e in realtà rafforzano il desiderio di pace.

E' un desiderio che è ormai esploso pubblicamente e di cui la marcia di circa 800 chilometri dall’Helmand è il segno. La gente comune vuole la pace, dall’Helmand a Kunduz, da Herat a Kabul. Le donne di Helmand ieri hanno chiesto ai talebani di aderire al prolungamento della tregua e gli attivisti della marcia sono pronti a consegnare a governo e talebani un piano in 4 punti: estensione del cessate il fuoco; colloqui di pace tra governo e talebani; accordo su leggi condivise; ritiro delle truppe straniere. Programma chiaro, condivisibile e accettabile.

Cosa succederà adesso? Un successo raggiunto non è per forza l’apertura di una via maestra senza intoppi ma se la tregua ha funzionato è anche perché la gente comune si è data da fare: marciando, protestando, alzando la voce, reiterando le richieste. La saggezza imporrebbe a governo e talebani – ma anche a noi stranieri – di capire che l’occasione è storica. E se davvero volessimo la pace, noi occidentali che ce ne riempiamo sempre la bocca, dovremmo essere i primi a sostenere le proposte dei marciatori, cioè del popolo afgano. Vediamo se il governo pentasalvinato – espressione di due gruppi da sempre favorevoli al ritiro – batterà un colpo. Per ora non mi pare che abbia detto mezza parola (a parte 4 righe in un comunicato della Farnesina del 17 giugno peraltro bilanciate da una trentina sull'incontro tra Moavero e Jens Stoltenberg a Roma il 10). Del resto anche Trump era per il ritiro delle truppe salvo poi decidere di triplicare i bombardamenti.

giovedì 29 maggio 2014

America/mondo. Il tutto e niente del discorso di West Point

Deludente discorso di Obama a West Point. Vago sulla Siria. Continua la lotta al terrore ma prima la diplomazia. Si aspetta il piatto forte: forse la Cina di cui si parlerà nei prossimi interventi messi in agenda per spiegare come l'America continuerà a governare il mondo: "America Must Always Lead" è infatti il titolo scelto dalla Casa Bianca per il primo di una decina di discorsi del presidente
Più soldi e diplomazia prima di mostrare
 i muscoli militari. Obama ribadisce la distanza
dalla politica di Bush ma con poche novità

C'è una certa abilità nel dire non-dire che ha sempre contraddistinto la politica estera del presidente Obama. Ieri il capo di Stato americano non si è smentito. In un discorso, che secondo la Casa Bianca è il primo di una serie di interventi pubblici nei quali il presidente renderà chiaro il futuro prossimo della politica statunitense verso il mondo nei mesi a seguire, ha messo a fuoco una fetta di pianeta non da poco: Medio oriente e Africa. Quanto all'Afghanistan, appena qualche ora prima aveva fatto il punto sulla permanenza americana nelle valli dell'Hindukush: i soldati diminuiranno ma 10mila resteranno a presidiare il campo. Almeno sino al 2016.


lunedì 11 novembre 2013

CALENDARIO AFGANO

A un anno dal ritiro del contingente Isaf Nato e dal suo ridislocamento e ridimensionamento nella missione Resolute Support, e a un pugno di mesi dalle elezioni presidenziali di aprile, l'Afghanistan è davanti a una svolta importante ma i nodi da sciogliere restano tanti. Complessi e per certi versi insormontabili.

Processo di pace

La riconciliazione nazionale sembra a un punto morto. L'apertura di un ufficio politico dei talebani a Doha, in Qatar, premessa di un possibile dialogo non ha dato i frutti sperati e ha anzi esacerbato le posizioni. Karzai e il suo Consiglio di pace, unico attore negoziale possibile per il governo di Kabul, si sono irrigiditi sia per il fatto che gli americani, scavalcando il governo afgano, hanno tentato di condurre trattative separate, sia per il fatto che il riconoscimento formale della delegazione all'estero è sembrato loro troppo rapido e in grado di fornire ai talebani un asso in più da giocare. L'unica novità sembra l'atteggiamento del Pakistan che ha ammorbidito i toni con l'arrivo del neo premier Nawaz Sharif e ha ottemperato ad alcune richieste di Kabul sulla liberazione dei prigionieri talebani (da utilizzare eventualmente come mediatori). Ma tutte le posizioni sembrano per ora distanti e ognuno (Islamabad, Washington, Teheran) più disposto a inseguire un risultato su altri fronti che non a dare manforte al governo legittimo perché la trattativa sia condotta su binari trasparenti e alla fine risolutivi.

Ritiro e sicurezza

La sicurezza del Paese continua a essere il grande tema che indebolisce la posizione del governo e quella della comunità internazionale - che non riescono a garantirla fuori dai grandi centri urbani – mentre il post 2014, col ridimensionamento del contingente Nato, appare agli afgani più una ritirata strategica e un problema di spesa e consenso interno che non una strategia in grado di aiutarli veramente. Italiani e tedeschi, con circa 4mila soldati, continueranno a presidiare il Nord e l'Ovest con programmi di formazione di esercito e polizia mentre britannici e americani restano un incognita. Quel che è certo è che termineranno le operazioni combat entro la fine del 2014 e si aprirà la nuova fase di Resolute Support. Quanto sarà risoluto resta da vedersi. Sul fronte della ricostruzione civile ci sono per ora promesse e fondi per altri quattro anni. Una riduzione dell'impegno civile rischia di compromettere definitivamente il rapporto col Paese che finirebbe per sentirsi definitivamente abbandonato anche sul piano dello sviluppo.
Il contenzioso con gli americani
I numeri del contingente americano non sono ancora definiti ma nel 2015 potrebbe trattarsi di circa 10mila uomini, molti dei quali sarebbero però impegnati nella difesa e tutela della basi militari di cui Washington vuole assicurarsi il controllo soprattutto in chiave anti iraniana. Ma al momento la firma definitiva dell'accordo tra le due capitali è ancora una nebulosa che dipende in sostanza, più che dalle basi, dalla richiesta di immunità per le truppe Usa su suolo afgano. Mal tollerata durante gli ultimi dodici anni, oggetto di polemiche continue, l'immunità è un nodo che per ora non si scioglie e da cui dipende la luce verde o meno all'accordo di partenariato militare (Bilateral Security Agreement - Bsa) che dovrà comunque passare per il parere di una Loya Jirga, la grande assemblea consultiva, che Karzai ha convocato in novembre e che finora è sempre servita a ratificare le scelte del presidente. Vi parteciperanno almeno 2.500 notabili.

Presidenziali

Il presidente Karzai, che in aprile dovrà ritirarsi, sta giocando le sue ultime carte su un tavolo dove il Bsa ha un peso rilevante. Si tratterebbe della sua ultima vera azione come uomo politico prima di lasciare per dedicarsi alla cura dell'uomo che avrà la presidenza e che il presidente uscente spera sia un personaggio di cui si fida e attraverso cui poter ancora esercitare influenza. Tra i numerosi candidati ce ne sono diversi su cui Karzai può puntare: sul fratello Qayum che non ha però molte speranze, su Ashraf Ghani e su Sayyaf. Ghani ha un passato specchiato ma non ha grande seguito né particolare influenza anche se è in ticket col potentissimo generale Dostum, un ex signore della guerra già ministro di Karzai e in grado di controllare una buona fetta dell'elettorato non pashtun nel Nord. Sayyaf è un altro ex signore della guerra, con relazioni forti in ambito tribale e una catena di rapporti personali estesa e potente. Ma sia Dostum sia Sayyaf sono anche personaggi impresentabili a un gran numero di afgani proprio per il triste e crudele passato che li accomuna. Dostum si è abilmente scusato pubblicamente e per altro le loro candidature hanno sollevato polemiche solo in Afghanistan. La comunità internazionale, come già in passato, ha chiuso un occhio. Il grande incomodo resta Abdullah Abdullah, nemico giurato di Karzai con forti relazioni nel Nord e buoni appoggi politici. E' stato sconfitto nelle passate elezioni a colpi di frodi elettorali. Difficile dire come andrà stavolta perché lo scrutinio si prevede più rigoroso e comunque sotto un occhio più vigile che in passato, sia all'interno sia all'esterno del Paese.

Governance

Chiunque vinca le elezioni si troverà di fronte a problemi enormi: quelli già citati, un'economia che dovrà riconvertirsi, il narcotraffico e, problema irrimandabile, la struttura della macchina pubblica, strangolata da una corruzione endemica che attraversa l'apparato a ogni livello e in tutti i gradi e settori in cui è attiva la mano pubblica, si tratti di ristrutturare una strada, aggiornare un catasto semi inesistente o di rilasciare una patente. La corruzione, un tempo accettata con rassegnazione, è adesso uno dei principali nodi del consenso interno. E dal momento che si coniuga con una macchina burocratica per molti aspetti ancora inefficiente, rischia di diventare il problema principale nel governo della cosa pubblica. La comunità internazionale ne ha fatto in passato un cavallo di battaglia che però ha semmai sfiorato i ministeri o le istituzioni bancarie ma non un problema culturale complesso nel quale è entrata a piè pari un'enorme massa di denaro, che ha favorito speculazioni e rapidi arricchimenti. Denaro fornito proprio dall'aiuto pubblico dei Paesi alleati e delle istituzioni internazionali, con scarsi o farraginosi meccanismi di controllo nonché episodi di appropriazione indebita o di favori alle proprie industrie nazionali che non hanno certo aiutato la costruzione di un modello virtuoso e di un esempio da imitare.

Economia

Inevitabilmente la guerra ha finito per drogare l'economia afgana, praticamente inesistente quando nel 2001 iniziò il conflitto con quel che restava dell'emirato di mullah Omar. L'aiuto esterno costituisce oltre il 90% del Pil e gli introiti dell'economia sommersa (in gran parte legata al narcotraffico) sarebbero valutati a circa la metà della ricchezza legalmente a bilancio. Inoltre, l'enorme massa di valuta pregiata entrata in Afghanistan ha finito per rafforzare l'afghanis su dollaro e euro rendendo molto più competitiva l'offerta dei paesi vicini, che hanno svalutato mediamente del 40% le loro divise. Con un export in deficit, un'economia formale sovvenzionata, un'agricoltura arretrata e quasi la totale assenza di prodotti industriali, l'Afghanistan deve inoltre fare i conti con l'ingresso annuale di circa 400mila giovani nel mercato del lavoro, dominato dal lavoro informale stagionale e privo di tutele sindacali. Problema probabilmente sottostimato, il nodo della riconversione da un'economia drogata dalla guerra a un'economia che dovrà camminare a breve sulle sue gambe sta ora arrivando al pettine

Quadro regionale

La pace in Afghanistan non si può fare senza l'aiuto, la non ingerenza o quantomeno la non ostilità dei suoi vicini. I passi per un'alleanza regionale sono stati tardivi e sono al momento ancora troppo pochi e del tutto fragili. Il cosiddetto Processo di Istanbul, avviato due anni fa, avrebbe probabilmente dovuto iniziare molto prima e forse accompagnarsi a una revisione del mandato delle truppe che stazionavano e stazioneranno in Afghanistan. I due livelli invece sono sempre stati tenuti separati, come se non fossero la faccia della stessa medaglia. Il processo di integrazione è comunque avviato pur se dipende da numerosi fattori endogeni (la diffidenza degli afgani verso Islamabad, Teheran e Mosca) ed esogeni, il primo dei quali è l'agenda geopolitica delle singole nazioni.

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venerdì 12 luglio 2013

AFGHANISTAN: LA PUBBLICAZIONE DI ARCHIVIO DISARMO

Da oggi è disponibile online il saggio "Afghanistan", un nuovo paper di Archivio Disarmo che fa il punto sulla situazione afgana. E' il lavoro di un gruppo di ricercatori (Marina Aragona, Vincenzo Gallo, Eleonora Menozzi, Fabio Carlini) che risulta particolarmente interessante, a parte il sintetico riepilogo storico generale, nella parte che riguarda il nuovo esercito afgano e la spesa militare nel Paese, oggetto tra l'altro di un recente accalorato dibattito dopo che gli americani hanno ventilato l'ipotesi di un ritiro totale di soldati l'anno prossimo, nuova indiscrezione di stampa secondo cui Obama starebbe valutando una "zero option" per il dopo 2014. Ipotesi francamente degna di qualche dubbio. Karzai l'ha definita una "mossa tattica".

lunedì 8 luglio 2013

SOLDATI ITALIANI IN AFGHANISTAN DOPO IL 2014: 800, 1000 O 1800?

Non ho sentito l'audio originale nè visto il video forum di repubblica di qualche giorno fa ma sicuramente dev'esserci un errore. Nella cronaca scritta infatti il ministro della Difesa Mario Mauro dice a proposito dei militari morti in Afghanistan e del ritiro del contingente: "Anche una sola vittima ci deve far riflettere. L'obiettivo della nostra presenza è contenere i conflitti. A partire dal 1° gennaio 2015 la missione in Afghanistan diventerà un supporto alla opportunità di far crescere il paese e farlo evolvere in un contesto democratico. Ad oggi il nostro contingente è composto di 3200 uomini. Alla fine del 2014 prevediamo che ne rimarranno non più di 1800. Il numero preciso verrà stabilito nel corso gli incontri tecnici con gli altri stati che partecipano alla missione". 1800! Ma non sarebbe nemmeno la metà del contingente attuale! Forse il ministro ha detto "1000 - 800", indicando una forbice che affettivamente appare più consona a quanto finora si sa. Ma sarebbe proprio il caso, crediamo, di fare una precisazione perché la notizia, dal sito di Rep, ha già cominciato il suo perverso giro sul web. 800, 1000 o 1800?

giovedì 2 maggio 2013

LA TABELLA DI MARCIA DEL POST 2014


Se per tentare di definire il futuro dell'Afghanistan si può prendere per certo il fatto che per la fine del 2014 si completerà il ritiro delle truppe ISAF/NATO, tutto il resto appare come una nebulosa. Elezioni presidenziali (previste sempre per il prossimo anno), futuri assetti di potere interno e processo di pace, economia, rapporti con i paesi confinanti: sono tutti elementi di incertezza.

In realtà
, anche l'uscita di scena della NATO pone non pochi problemi. Il ritiro delle truppe ISAF/NATO è in corso da tempo, ma ogni paese della coalizione lo sta declinando a suo modo con un coordinamento solo apparente di Bruxelles: la “exit strategy” è definita secondo esigenze nazionali. Di per sé la cosa non sembra preoccupare particolarmente il governo afgano: che nel tal paese si acceleri e nell'altro si prolunghi la ferma, la scadenza è il dato cui, più o meno obtorto collo, tocca conformarsi. Ma tutta una serie di questioni restano aperte sul piano militare: le più importanti riguardano gli americani, con cui il presidente Karzai ha aperto un vero e proprio contenzioso negli ultimi mesi.

La tattica adottata dal presidente afgano è abbastanza evidente: in cerca di consensi per ritagliarsi una posizione importante nel futuro del paese, ha criticato duramente gli USA sul punto più sensibile, cioè lo status delle truppe (10-12.000 unità) che resteranno dopo il 2014....segue su Lettera22

domenica 24 febbraio 2013

KABUL LA CITTA' PIU' INSICURA DEL MONDO?

Secondo Asraf Ghani, ex candidato alla presidenza e a capo della Transition Coordination Commission "Kabul is the most insecure capital in the world". Ghani ha spiegato ieri che nella capitale va anche bene ma sono i dintorni a rendere preoccupante la situazione: Logar, Wardak, Parwan, Kapisa, Laghman sono tutte province con strade per nulla sicure. Anzi, a mettere carne al fuoco, ci sono anche i capi della polizia locale a confermare: tra talebani, affiliati di Al-Qaeda, Haqqani Network e Hizb-e-Islam, in queste province si registrerebbero decine di gruppi attivi. A Logar e Wardak addirittura cento per provincia. Manipoli che infestano le strade. Ammissione grave, forse anche per alzare la posta in vista del ritiro Nato del 2014.

giovedì 14 febbraio 2013

IL MONDO PER OBAMA E LE SPINE AFGANE

Ridurre l'arsenale nucleare nel mondo, rispondere alle provocazioni nordcoreane, ritirare altri 30mila soldati dall'Afghanistan. La politica estera entra nel discorso di Obama sullo Stato dell'Unione su tre punti il primo dei quali rilancia una strategia di contrazione dell'arma nucleare mentre l'ultimo affronta il tema più scottante per chi vuole passare per il presidente che avrà chiuso il capitolo guerre aperto dal predecessore. I passaggi sono stati brevi tranne quello dedicato al rapporto con Kabul, il più lungo e il più anticipato dalle indiscrezioni circolate prima del discorso del presidente.

Si becca due salve di applausi Barack Obama quando affronta il nodo afgano: «Già, abbiamo portato a casa 33mila dei nostri coraggiosi militari, uomini e donne. In primavera – dice Obama - le nostre forze avranno solo un ruolo di sostegno mentre le forze di sicurezza afgane prenderanno l'iniziativa. Stanotte posso annunciare che il prossimo anno altri 34mila soldati americani torneranno a casa... ed entro la fine del prossimo anno, la nostra guerra in Afghanistan sarà finita». Gli applausi coprono le sue parole (e, dopo alcune ore, l'applauso gli arriva anche da Karzai in persona). Obama in effetti ha voluto rassicurare anche Kabul: «Dopo il 2014, il nostro impegno per un Afghanistan unito e sovrano durerà, ma cambierà la natura del nostro impegno. Stiamo negoziando un accordo con il governo afgano – aggiunge - che si concentra sulla formazione e l'equipaggiamento delle forze afgane in modo che il Paese non scivoli di nuovo nel caos, e sugli sforzi antiterrorismo che ci permettono la caccia ai resti di al Qaeda e affiliati». E se, dice Obama, l'organizzazione che ci ha attaccato l'11 settembre è «l'ombra di se stessa» (applausi) è pur vero che la minaccia si sposta in Africa. Ma, aggiunge, «per rispondere a questa minaccia, non abbiamo bisogno di inviare decine di migliaia di nostri figli e figlie all'estero o occupare altre nazioni». Il messaggio ai francesi è chiaro. Agli americani anche. Tutti a casa. Ma ci sono anche le ombre su cui il presidente, ovviamente, sorvola.

In realtà sull'Afghanistan resta da sciogliere il nodo più grosso, anzi due: il primo si chiama basi militari e il secondo talebani. Il primo sembra per ora una palude coperta di nubi, il secondo resta viziato dalla richiesta Usa di immunità per le truppe che resteranno nel Paese dopo il 2014. Kabul per adesso tiene il punto e rifiuta. Poi c'è anche l'interrogativo su quanti militari resteranno dopo il 2014. Obama non lo scioglie ma, secondo il Post, 8mila unità potrebbe essere la mediazione tra le richieste del Pentagono (almeno 10mila) e le riduzioni imposte dalla presidenza. E' comunque stato più chiaro del nostro governo e del nostro ministero della Difesa, visto che non sappiamo bene se i mille soldati italiani che rientrano a casa sono già partiti, stanno partendo, partiranno.

martedì 12 febbraio 2013

ALTRI 34MILA SOLDATI USA VIA DALL'AFGHANISTAN


Fonti che hanno richiesto l'anonimato hanno detto alla Reuters che il presidente Barack Obama starebbe per annunciare, nel discorso sullo Stato dell'Unione, un ulteriore ritiro di 34mila soldati dall'Afghanistan per l'inizio del 2014. Con quelli già ritirati saranno più di 60mila i militari Usa che fanno ritorno a casa prima della scadenza "naturale" del 2014, fissata per il ritiro della Nato dal Paese asiatico. Se la notizia sarà confermata, ne rimarrebbero circa 32mila.

giovedì 17 gennaio 2013

AFGHANISTAN, HA INIZIO IL RITIRO MA NESSUNO SE NE ACCORGE

L'Italia nel 2013 avrà in Afghanistan 1000 soldati in meno rispetto al 2012. La cosa è passata talmente in sordina che è inutile cercare la notizia sui giornali. Tutti parlano del fatto che stiamo andando in guerra in Mali ma nessuno sembra essersi accorto che abbiamo finalmente un calendario ancorché approssimativo del ritiro.

Ieri in Senato durante il dibattito sulla Conversione in legge del decreto-legge 28 dicembre 2012, n.227, recante proroga delle missioni internazionali delle Forze armate, iniziative di cooperazione allo sviluppo e partecipazione alle iniziative delle organizzazioni internazionali il relatore Dini ha spiegato che «la proroga copre il periodo dal 1° gennaio 2013 al 30 settembre 2013 (nove mesi, anziché un anno come nel 2012)... lo stanziamento complessivo ammonta a 935 milioni di euro. Viene quindi utilizzato quasi interamente il rifinanziamento del fondo missioni (1.004 milioni di euro) disposto dal decreto-legge n. 95 del 6 luglio 2012. Una somma significativamente inferiore a quella stanziata l'anno precedente (1.403 milioni) per un periodo di 12 mesi...». Sulla «...partecipazione a iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno alla ricostruzione per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione. Lo stanziamento complessivo per tali attività è di 81 milioni di euro, meno del 10 per cento del totale di spesa autorizzato».
L'articolo 5 del provvedimento autorizza infatti la partecipazione a iniziative e interventi di cooperazione allo sviluppo in Afghanistan per 15 milioni di euro. Ma veniamo al ritiro.

Spiega il relatore Del Vecchio: «All'impegno nel Paese asiatico è associato, per i primi nove mesi del 2013, un onere di spesa pari a circa 426 milioni di euro, sensibilmente inferiore (di circa 150 milioni) a quello sostenuto per lo stesso periodo nel 2012, grazie alla riduzione del personale militare impiegato, dalle 4.000 unità del 2012 alle 3.100 attuali, in conseguenza del progressivo passaggio del controllo dei distretti del Paese dalle forze internazionali a quelle locali».

Il sottosegretario alla Difesa Magri puntualizza: «Nel settore di interesse dell'Italia questo passaggio è già avvenuto a Bala Murghab, nel Gulistan, ed a Bakua ed avverrà nel corrente anno ancora a Bala Baluk e Farah...segnalo comunque come nel decreto in esame sia già stata prevista una consistente riduzione del nostro contingente in Afghanistan, il quale passerà dal livello medio di 4.000 militari mantenuto nel 2012 ad un livello medio di 3.100 militari nel corso dei primi nove mesi di quest'anno».

Ecco che in un rapidissimo passaggio parlamentare, in un'aula mezza vuota e dove la presidente dell'Assemblea Emma Bonino è costretta a continui richiami («Scusate, colleghi, se non proprio attenzione, vi chiedo un po' di silenzio».), si viene a sapere quel che si sta chiedendo da almeno un anno: tempi e quantità del ritiro dei nostri soldati. Per la verità ne ha parlato anche Di Paola. In Senato il ministro ha detto che per la missione in Afghanistan la prospettiva è di diminuzione a fine 2013 delle circa 3mila unità impiegate in media nel Paese. Nel pomeriggio poi il Senato ha chiarito meglio i numeri (3100 nel corso del 2013 quindi una diminuzione di un quarto del contingente di circa 4mila uomini) e forse un'ulteriore diminuzione a fine anno.

Ci sarebbe molto altro da dire, ma per il momento fermiamoci qui.


domenica 13 gennaio 2013

COSA SI SON DETTI KARZAI E OBAMA

Cosa si sono detti Barak Obama e Hamid Karzai nell'incontro di venerdi scorso a Washington? Se ne sa poco per non dire nulla, stando al comunicato emesso dalla Casa bianca alla fine dei colloqui e così riassunta dall'Agenzia italia: “AGI) - Washington, 11 gen. - La presenza di un contingente ridotto di soldati Usa in Afghanistan dopo il 2014 e' "possibile" anche dopo il completamento delle operazioni di ritiro del grosso delle truppe (al momento a quota 66.000). Così un comunicato della Casa Bianca al termine dell'incontro tra il presidente Barack Obama e l'omologo afghano Kamid Karzai. Nei giorni scorsi il Pentagono aveva fatto filtrare, come possibile elemento di pressione su Kabul, l'eventualita' che come in Iraq anche in Afghanistan sarebbe stata possibile la cosiddetta "zero option", secondo la quale neanche un militare americano sarebbe rimasto dopo il termine della fine del 2014".

Tutta l'attenzione si è concetrata sui numeri del ritiro dopo che l'8 gennaio Ben Rhodes, vice national security adviser alla Casa Bianca, ha detto che esiste una “opzione zero” dopo il 2014. Ma stando a diversi osservatori (l'Economist ad esempio) il ritiro non sarà completo. Si fa la cifra di 6mila uomini contro i 15mila proposti dall'ex capo della Nato in Afghanistan John Allen che aveva comunque rivisto al ribasso la stima proponendo poi una forza compresa tra le 3mila e le 9mila unità (contro le stime di chi dice che ci vorrebbero ancora almeno 30mila uomini: questi ultimi fanno rilevare che una sola delle 23 brigate dell'esercito afgano può operare da sola e, nel contemnpo, i militari afgani lamentano di non avere abbastanza armamenti pesanti né un'aviazione degna di questo nome).

Ma se i numeri del dopo 2014 non sono sicuri, c'è altro. I due si sarebbero accordati su almeno tre cose: il famoso ufficio talebano in Qatar, una realtà de facto. Il passaggio di consegne all'esercito afgano della sicurezza nazionale per primavera (anziché in estate) e la definitiva giurisdizione afgana sui prigionieri di Bagram (ora sotto sola tutela americana). Resta però un punto: l'immunità per le truppe Usa su suolo afgano. Qui Karzai si deve essere impuntato e le bocce sono ferme.

Per ora non ne sappiamo granché di più né sappiamo quante truppe la Nato deciderà di lasciare e con che ruolo. E l'Italia? Qui è buio totale. Per ora sembra che abbiamo ritirato 200 soldati su 4200. Una palla che passa al nuovo esecutivo.

sabato 17 marzo 2012

CHI TRAE VANTAGGIO DALLA STRAGE DI KANDAHAR

Apparentemente non c'era peggior viatico possibile per la visita del primo ministro britannico David Cameron negli Stati uniti che la vicenda del sergente americano che, alla vigilia della partenza, ha fatto strage di civili in un distretto della provincia afgana di Kandahar. L'ennesimo episodio, che rinfocola polemiche e riattizza la rabbia degli afgani, consente però, paradossalmente, un'accelerazione da cui – oltre che i talebani – possono trarre vantaggio sia il governo di Kabul, sia l'Amministrazione Obama. Vediamo perché.

Dopo le vicende del “Kill Team” (un gruppo di soldati capitanati dal sergente Calvin Gibbs, condannato recentemente all'ergastolo per l'uccisione di afgani inermi ma che potrà tornare libero in dieci anni), dell'urina sui corpi di talebani morti (un video scioccante su cui è stata promessa un'inchiesta per ora senza risultati pubblici) e la vicenda dei Corani (malamente gestita e al momento senza colpevoli palesi), gli Stati uniti hanno già fatto sapere, attraverso le parole del capo del Pentagono, che il colpevole di Kandahar rischia la pena di morte: Panetta ha tra l'altro potuto usufruire casualmente di una visita in Afghanistan in realtà da tempo programmata mostrando così una rapidità di reazione americana senza precedenti. Le scuse ufficiali infine sono state velocissime, anche da parte di Obama, così come l'avvio dell'inchiesta e l'arresto immediato, tanto che, nonostante le reazioni del parlamento (chiuso per un giorno in segno di protesta), l'esecutivo afgano si è affrettato a dichiarare che la vicenda non comprometterà il negoziato sull'accordo tra Washington e Kabul che deve regolare la presenza Usa dopo il 2014. Il dossier più delicato al momento sul tavolo dei due governi.

Obama dovrebbe quindi arrivare all'appuntamento di maggio (il vertice Nato che si terrà nella sua città, Chicago) rafforzato da un'exit strategy che inizia a dare i suoi frutti. E rafforzato nella scelta, che la vicenda di Kandahar ha accelerato, di un ritiro forse più rapido dei suoi soldati dal teatro, anche se pubblicamente il presidente si dice favorevole a un'uscita senza troppa fretta («We don't rush for the exits in a way that could end up leading to more chaos and more disaster...» , un modo per tenere a bada alcuni settori del Pentagono e i parlamentari più critici). Su un'accelerazione del ritiro in realtà non c'è ancora una posizione ufficiale, che potrebbe essere presentata al summit Nato, ma si potrebbe trattare di ventimila soldati in più entro metà 2013, almeno secondo il New York Times, rispetto a quanto finora previsto (22mila circa entro settembre 2012). Una mossa che mira a ridurre il contingente (e le spese relative) della metà rispetto all'anno scorso (quando c'erano circa 100mila soldati americani), ben prima della scadenza del 2014, anno che dovrebbe concludersi con la fuoruscita quasi totale dei soldati occidentali in Afghanistan. Se i repubblicani avevano dunque utilizzato la vicenda dei Corani come grimaldello per dimostrare la debolezza di Obama, costretto a loro avviso a scuse ufficiali a Karzai non dovute, la storia di Kandahar li lascia senza armi e il vertice di Chicago rischia di risolversi con la vittoria delle tesi del presidente: accelerare l'uscita dei soldati mantenendo un piede in Afghanistan e terminare una guerra sempre più impopolare senza perdere la faccia.

Anche sul fronte afgano il debole Karzai può trarre vantaggio dalla vicenda di Kandahar. Hamid Karzai, indispettito nei mesi scorsi dalla gestione del negoziato coi talebani (condotto da Berlino e Washington senza consultarlo), ha avuto buon gioco – complice l'affaire Corani - nella trattativa quadro sulla permanenza americana in Afghanistan dopo il 2014. Gli americani hanno ceduto su una questione dirimente, cavallo di battaglia di Karzai degli ultimi due mesi: il passaggio di consegne dei detenuti afgani della grande base americana di Bagram (di cui un'ala è adibita a prigione di guerra) sotto la giurisdizione giudiziaria afgana. Ora, la vicenda Kandahar potrebbe assegnare a Karzai un altro punto: la fine o la riduzione sostanziosa dei raid aerei notturni, altro cavallo di battaglia del presidente. Ottenuti questi due atout, Karzai potrebbe persino rivendicare come sua l'accelerazione dell'uscita di scena di gran parte dei soldati Nato/americani (e infatti ha appena chiesto che gli eserciti se ne vadano nel 2013) e servirsene sia nella trattativa coi talebani, sia di fronte a un parlamento riottoso ma comunque incapace di organizzargli contro una vera e propria opposizione coordinata. Karzai ha anche rivendicato la luce verde al trasferimento a Doha – dove la guerriglia in turbante dovrebbe aprire un ufficio politico – dei cinque prigionieri talebani detenuti a Guantanamo, oggetto iniziale della trattativa tra mullah Omar e gli americani. Messo così, il negoziato, sino a ieri patrimonio di due attori estranei al governo di Kabul (i talebani e gli occidentali), rientrerebbe nei binari afgani, ridando al palazzo di presidenziale di Arg, nel cuore della capitale, una parte importante nella trattativa.

Ovviamente da tutto ciò anche la la guerriglia in turbante trae i suoi vantaggi. Ha annunciato di aver sospeso il negoziato sostenendo che gli Stati Uniti non hanno soddisfatto le condizioni e che i colloqui con il governo afgano sono «senza senso» oltre ad aver minacciato di vendicarsi della strage di Kandahar decapitando «gli animali...soldati sadici e assassini». Ma la propaganda talebana questa volta ha stranamente fatto poca presa sulla popolazione civile, se si escludono le comprensibili manifestazioni nell'area della strage e qualche dimostrazione abbastanza contenuta altrove (a Jalalabad ad esempio), segno di una stanchezza popolare e di un'incapacità della guerriglia di trasformare la diffusa rabbia e disillusione, come forse aveva sperato durante la vicenda dei Corani bruciati, in un consenso militante e popolare alla causa nazional-islamica del movimento.

Rimane per gli americani una questione più generale di management della truppa, ossia la gestione del contingente: naturalmente la sequela di vicende che hanno attraversato gli ultimi mesi richiedono un intervento preciso e forte degli americani nei confronti dei responsabili dei soldati in una missione con numeri elevati di militari impiegati – e nel quale dunque il novero di “mele marce” è altrettanto elevato- e che spesso, come nella vicenda del sergente di Kandahar, hanno alle spalle più di una missione in teatri particolarmente difficili e debilitanti (nel suo caso tre missioni in Iraq e una in Afghanistan). La capacità di gestione del contingente ha infatti direttamente a che vedere non solo con l'evidente erosione del consenso nell'opinione pubblica afgana, ma con un problema di fiducia della leadership militare afgana sul tipo di addestramento che gli americani danno alle truppe nazionali, sulle quali si è addivenuti a un accordo che ne riduce sostanzialmente il peso numerico ma che, anche in vista dell'accordo Kabul-Washington, da definire nei dettagli prima di Chicago, prevede pur sempre la presenza di formatori dell'esercito americano senza un limite preciso di tempo. Una formula che consentirà, dopo il ritiro, di conservare una presenza di soldati che il Pentagono ritiene irrinunciabile e senza che sia percepita come forza di occupazione.

mercoledì 18 gennaio 2012

LA SCARSA LOQUACITA' DEL GOVERNO ITALIANO

ALLA VIGILIA DELL'ARRIVO di Karzai in Italia, il ministro della Difesa, ammiraglio Giampaolo Di Paola, ha spiegato che a fine 2013 ci saranno le prime riduzioni del contingente italiano impegnato in Afghanistan, attualmente composto da 4.200 militari. Nella fase di transizione verso il passaggio della responsabilità del territorio alle forze di sicurezza afgane ''saranno possibili colpi di coda'' da parte degli insorgenti e quindi rischi per i soldati italiani, ha detto ancora - riferisce l'Ansa- il ministro nella sua informativa alle commissioni congiunte Esteri e Difesa di Senato e Camera.

Insomma ecco il calendario. Via qualche soldato a fine anno. Quanto, come, in che modo? Si vedrà. Un po' poco in un momento in cui sarebbero necessari segnali forti tra cui una riduzione del contingente un po' più numerosa. Ma Di Paola non è l'unico taciturno nel governo Monti. Quest'ultimo non si è ancora sbilanciato sul conflitto. E anche il ministro Terzi è poco loquace. Noi ad esempio cosa pensiamo del negoziato coi talebani? Che ruolo possiamo, vogliamo giocare? Come gestiremo la transizione? Per ora l'unica cosa che è nota è che presteremo dei soldi a Kabul per rifare l'aeroporto di Herat. E anche su questo siamo stati molto riservati.

Ogni settimana butto un occhio sul sito del Ministero dello sviluppo economico e guardo alla voce "Afghanistan": ma ci trovo sempre, come ultima news, quell'intervista del mio amico Fausto Biloslavo all'ex ministro Paolo Romani. Un po' pochino anche su questo fronte,

mercoledì 24 agosto 2011

RESTEREMO SINO AL 2024?

Gli americani non lasceranno l'Afghanistan prima del 2024. Quanti resteranno dopo il 2014, la data teoricamente fissata per il ritiro, ancora non è chiaro né lo sarà a breve. Ma, stando a un'indiscrezione del Daily Telegraph, in qualche modo confermata dal ministro degli Esteri afgano Spanta, un accordo sarebbe già sotto traccia per garantire al traballante governo di Hamid Karzai di stare in piedi oltre quella data. Dovrebbe essere presentato e avallato nella Conferenza di Bonn che si terrà a fine anno in Germania, a dieci anni dallo storico summit che disegnò il nuovo Afghanistan nato dalle ceneri dell'invasione del 2001.

A quanto pare sarebbero le Forze speciali la truppa d'élite che rimarrebbe in Afghanistan con compiti ancora non chiari, al netto di un battaglione di agenti dei servizi che, com'è noto, non sono mai inclusi negli accordi alla luce del sole. Dunque Bonn potrebbe segnare, come già la Conferenza di Kabul l'anno scorso, un nuovo paletto. Spostando la data del ritiro dal 2014 al 2024. Resteremo anche noi per altri 12 anni?

Frattini è stato laconico. Si è parlato di un inizio del ritiro delle truppe italiane nel 2012 ed è stata ventilata una riconsegna agli afgani dell'area sotto nostro controllo entro il 2014. Ma è legittimo immaginare che, se le indiscrezioni del Telegraph fanno senso, anche l'Italia stia pensando a una presenza in Afghanistan che potrebbe protrarsi oltre quella data. O no? Se si, con quali compiti? Addestramento o contro insurrezione? Per ora la preoccupazione maggiore sembra quella di tenere in piedi il traballante governo di Karzai finché non sarà più chiaro il destino del Paese. Ma presupporre una presenza militare sino al 2024 significa anche immaginare che non esista una soluzione pacifica in vista. Che può essere garantita, ancorché a scalare, da una dipartita definitiva delle truppe straniere presenti sul suolo afgana. Precondizione dei talebani - sarà bene ricordarlo - per avviare una seria trattativa con Kabul.

Se Bonn dovesse sancire che soldati americani e Nato resteranno in Afghanistan per altri 12 anni anziché per due, le cose si faranno più complicate. Può darsi che le vittorie libiche abbiano ringalluzzito i comandi militari ma non dovrebbero fuorviare gli orientamenti politici che saggiamente avevano fissato a una data più ravvicinata il ritiro delle truppe. Sarebbe semmai opportuno prevedere, più che un presidio senza fine degli eserciti attuali, la formazione di una missione internazionale di peacekeeping largamente condivisa con truppe che comprendano il maggior numero di Paesi: missione con mandato Onu, Ue, della Lega araba e della Organizzazione della conferenza islamica e chi più ne ha ne metta: sarebbe, oltre che una garanzia per gli afgani che temono un ritorno dell'oscurantismo, una proposta difficilmente contestabile dagli stessi talebani. Ma Bonn non sembra orientata in questa direzione. L'Italia nemmeno. E il successo della Nato in Libia rischia di farci credere che tutto sommato si può andare avanti così. Dimenticando troppo rapidamente un decennio di gestione fallimentare in quel Paese.

anche su Terra

lunedì 27 giugno 2011

SI E' FATTO TARDI: I TEMPI E I PERCHE' DEL RITIRO

Trentremila soldati a casa in 12 mesi e subito 3mila uomini con le valigie in mano. E' l'atteso annuncio dato ieri dal presidente Obama sul ritiro delle truppe dall'Afghanistan che sta per iniziarea luglio e la cui prima fase si completerà nel 2012 dopo che entro il 2011 i primi diecimila avranno fatto rientro negli Usa.

Il dibattito sul ritiro infiamma il Congresso e la stampa americana da mesi con una speculazione infinita su quanti soldati, quali e in che tempi si ritireranno dall'Afghanistan: entro il 2012? Entro il 2014? Entro mai....? Quanti ne resteranno insomma e per quanto tempo nella palude dell'Hindukush? L'ultima domanda è quella vera e le risposte sono contenute in due file: uno si chiama bilancio, l'altro negoziato.

Nel primo file ci sono i soldi spesi dall'America per la guerra al terrore dal 2001 e per i quali ormai l'Afghanistan fa la parte del leone: Secondo il servizio di ricerca del Congresso, considerato autorevole e attendibile anche perché tenuto a essere rigidamente al di sopra delle parti, a marzo 2011 il parlamento americano aveva approvato 1,283 trilioni di dollari, il 63% dei quali (806miliardi) per l'Irak e il 35% (444 miliardi) per l'Afghanistan, cui vanno aggiunti altri 29 miliardi per la sicurezza delle basi. Per l'esattezza la borsa statunitense ha elargito per il 94% al Pentagono, per il 5% ad aiuti umanitari e operazioni diplomatiche e per l'1% in spesa sanitaria in favore dei veterani. Aggiungete il Pakistan (AfPak) e il conto continua a salire.

La spesa per il solo Afghanistan è cresciuta mensilmente fino a sforare quota 6,7 miliardi (217 milioni di dollari al giorno contro i circa due che spendiamo noi per 4mila soldati), superando quella irachena che ormai decresce ma con un tetto previsto per il 2012 dal Pentagono che dovrebbe mettere a bilancio un po' meno di 300 milioni al giorno. Spese cui andrebbe aggiunto il portafoglio di quelle elargite per operazioni “coperte” con un esborso complessivo ormai divenuto insostenibile e che ha fatto pensare a Obama che sia venuto il momento, concluso il capitolo Al Qaeda (con la morte di bin Laden), di mettere mano al buco nero creato da 100mila soldati “in teatro” (98mila per essere precisi).

Il secondo file è quello del negoziato che è chiaramente dipendente dal primo. Equazione semplice: la guerra costa troppo e del resto la “mission” (sconfiggere i qaedisti) si può dire conclusa. Ergo: tutti a casa. Ergo bisogna fare qualche passo indietro dai famosi paletti rossi (non si tratta coi terroristi) e fare quello che molti analisti consigliano almeno dal 2007: negoziare coi talebani. Non è una caso che la verità che a Kabul tutti conoscono (già si tratta) sia ormai uscita allo scoperto il 17 giugno quando Karzai ha rivelato che il re era nudo. E cioè che gli americani, bypassando bellamente il suo governo, stavano già trattando (con l'aiuto di altri Paesi come la Germania e qualche emirato del Golfo) direttamente con la guerriglia in turbante. Due giorni dopo, il 19, lo ha ammesso anche Robert Gates, il titolare della Difesa americana.

Della trattativa
si sa molto poco: il nome uscito dal cappello è quello di Tayeb Agha, già segretario del mullah Omar, capo supremo della cupola talebana, o almeno della fetta più consistente della galassia guerrigliera. Tayeb Agha il negoziatore, un buon inglese, un'affidabile carisma, la barba d'ordinanza e solo 35 anni di età, avrebbe incontrato gli americani almeno due volte – riferisce Le Monde – in Qatar e in Germania, Paese che sta lavorando alla conferenza “Bonn II” che, a dieci anni dalla storica Conferenza di Bonn del 2001, vorrebbe poter indicare che la strada maestra della conciliazione è iniziata. E, se tutto va bene, Berlino vorrebbe portare a Bonn II i grandi assenti di Bonn I: i talebani. I britannici invece starebbero trattando con la rete Haqqani, una pattuglia di radicali sanguinari guidata da una storica famiglia assai potente nelle antiche formazione mujaheddin che combatterono i sovietici. Con Hekmatyar, il terzo capo fazione, la trattativa è già a uno stadio più avanzato da mesi, tanto che i suoi emissari sono stati ricevuti a Kabul persino dai responsabili dell'Onu.

In tutto ciò, tra mezze verità, aspirazioni, fretta di fare le valige e conti correnti, tutti si chiedono se il vero grande giocatore, il Pakistan, stia o meno dettando l'agenda di questi preliminari negoziali. La cosa è fuor di dubbio anche se forse il peso di Islamabad è un po' troppo sopravvalutato. Ma che il Pakistan voglia (riuscirci è un altro discorso) mettere i piedi nel piatto è fin troppo evidente. E del resto le relazioni con gli americani, nonostante le schermaglie pubbliche, sono così forti che è impossibile non pensare che nella trattativa non ci sia anche un accordo Washington Islamabad. Gli unici a esser tagliati fuori sembrano gli afgani: il governo Karzai, la società civile che teme di perdere diritti e prerogative che dieci anni di occupazione hanno quantomeno elargito alla neonata classe media urbana, e quei milioni di contadini poveri per i quali la guerra non è che un fardello molto pesante da portare e che ormai ha ampiamente superato i trent'anni di età.