Il
processo elettorale in Afghanistan non dovrebbe farci dimenticare che
la cosa più importante resta il processo di pace. I passi per
parlare col “nemico”, coi talebani, sono stati finora offuscati
da una nebbia articolata sparsa su un reticolo di relazioni segrete che
hanno coinvolto attori diversi, spesso forse, fuori luogo: gli afgani
dell'Alto consiglio di pace voluto dal governo, gli americani, i
tedeschi, i francesi, gli ex talebani, i talebani della shura di
Quetta, i gruppi a lato del movimento o integratisi in chiave
tattica. E ancora, gli attori che intervengono in veste di
consiglieri e/o finanziatori di questa o quella parte: principi
sauditi e del Golfo, turchi, pachistani, iraniani e così via (anche se ora le cose si vanno complicando). La
cosa è complessa. Ma quanto sappiamo poi dei talebani?
Antonio Giustozzi, mai tradotto in Italia e considerato uno dei maggiori studiosi dei talebani. Sopra la bandiera dell'Emirato |
Alcune
pubblicazioni ce li hanno raccontati: pubblicazioni che in Italia non
abbiamo visto tradotte (una per tutte Koran,
Kalashnikov, and Laptop: The Neo-Taliban Insurgency in Afghanistan
2002-2007,
Columbia/Hurst, 2007 di Antonio Giustozzi, studioso di rango
completamente e colpevolmente ignorato). Spicca un lavoro di Thomas Ruttig di
Afghanistan Analysts Network, che ne descrive la storia e l'ideologia
(si può scaricare dal sito) o quello di Alex Strick van Linschoten e
Felix Kuehn (AnEnemy We Created: The Myth of the Taliban-Al Qaeda Merger inAfghanistan
). Strick van Linschoten è stato anche il co-editor
nel 2010 di
My
Life with the Taliban,
autobiografia di Abdul Salam Zaeef, un mullah ai vertici
dell'organizzazione di Omar poi ritiratosi a Kabul e considerato uno
dei possibili mediatori tra le parti. E sempre con Kuehn ha anche
lavorato a Poetry of the Taliban
(Columbia/Hurst, 2012), testo sulla poetica degli uomini
dell'organizzazione talebana, capaci dunque non solo di imbracciare
un'arma ma di essere persino cantori dell'amore e della non violenza.
Non c'è molto altro, a parte una ricca pubblicistica su quotidiani e
riviste dove però l'immagine della guerriglia afgana appare con
alcune connotazioni non sempre inevitabili: l'associazione con i
qaedisti, la vocazione terrorista, l'incapacità di comprendere la
modernità, l'assenza di valori che guardino al rispetto dei diritti
umani.
Il
sito dei talebani non aiuta molto ma è, al momento, l'unico
spiraglio che abbiamo per tentare di capire qualcosa. Un'analisi del
loro codice di condotta (layha)
lo ha fatto nel 2011 Kate Clark, veterana di Aan, che ha mosso a
confronto tre codici usciti rispettivamente nel 2010, 2009 e 2006. La
ricercatrice analizza i temi costanti nei vari codici che sono
quattro: come trattare chi si arrende; come gestire la giustizia
(crimine, pena, detenuti); come comportarsi con la popolazione
locale; come relazionarsi la struttura e la gerarchia interna.
Benché la Clark metta in rilievo come tra il dire e il fare ci siano
di mezzo, nella pratica, violazioni patenti di diritti elementari, la
ricercatrice analizza anche gli aspetti che vanno invece nella
direzione opposta, nel rispetto dei civili e della sofferenza
popolare.
P.S.
Due recenti uscite da segnalare: Carlotta Gall (corr. del Nyt da Kabul) The Wrong Enemy: America in Afghanistan, 2001-2014 (Boston: Houghton Mifflin Harcourt, 2014) e Anand Gopal (a lungo inviato del Csm con un ottimo blog), No Good Men Among the Living: America, the Taliban, and the War Through Afghan Eyes (New York: Metropolitan Books, 2014). Infine un lettore mi ricorda che va segnalato Talebani di Ahmed Rashid, il primo saggio sul tema il che però apre una filiera infinita a cominciare dagli scritti di Syed Saleem Shahzad... Dunque ci fermiamo qui.
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