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venerdì 21 maggio 2021

Tutti a casa: lasciamo l'Afghanistan al suo destino


T
utti a casa dall’Afghanistan ma non solo i soldati. Via anche i civili il prima possibile da un Paese che evidentemente non dà garanzie. E’ il messaggio che l’Italia sta dando in questi giorni ai connazionali che lavorano in Afghanistan: se ci abitate andate a casa, se dovete tornarci evitate. Un invito che appare abbastanza stridente con quanto dichiarato dal capo della Farnesina a metà aprile mentre commentava il ritiro “epocale” dei soldati: "Non abbandoneremo mai il popolo afgano – aveva detto il ministro Di Maio - che continueremo ad aiutare anche di più con progetti di cooperazione allo sviluppo, il sostegno alle imprese, alla società civile, alla tutela dei diritti umani". Parole al vento se poi la nostra ambasciata – in più di una lettera che abbiamo
 potuto vedere – spiega agli italiani che lavorano in Afghanistan che la nostra legazione sta “contattando i connazionali per invitarli a lasciare il Paese entro il primo maggio, nell’aspettativa di una ulteriore compromissione di sicurezza a Kabul e nel Paese”. Una valutazione a tinte fosche “condivisa anche da altre ambasciate” per cui “l’invito è a non fare ritorno in Afghanistan almeno temporaneamente”.

La valutazione su quella che viene ritenuta una nuova stagione di violenza, pur restando una considerazione del tutto opinabile che non sembra tener conto delle capacità dell’esercito e dell’esecutivo afgano, può ovviamente spingere un’ambasciata a mettere in guardia i propri cittadini. Ma invitarli ad andarsene e a non tornare proprio nel momento in cui il Paese ne ha più bisogno sembra davvero dimostrare che quanto si dice ufficialmente non è che un vocabolario di rito. Tanto più che questo messaggio è stato recapitato anche a membri di organizzazioni internazionali che hanno sia sistemi di sicurezza propri sia l’autonomia decisionale su cosa consigliare ai propri funzionari.

Quanto al futuro del Paese, l’Italia sembra associarsi al plotone di analisti-cassandra secondo cui il ritiro dei soldati – dimostratisi incapaci in 20 anni di garantire la sicurezza in Afghanistan – si tradurrà automaticamente in un aumento della violenza. Sembrano dimenticare, e con loro l’ambasciata italiana, che il ritiro delle truppe leva il nodo principale della guerra visto che questa si combatte soprattutto contro l’occupazione straniera, fatto che ha trasformato un manipolo di islamisti radicali in una formazione partigiana. Senza più un esercito straniero da combattere, i Talebani restano senza argomenti senza contare che l'esercito della repubblica è in grado di sbarrargli la strada, ammesso e non concesso che vogliano farlo, nella conquista delle città. Il caos da temere non riguarda tanto i Talebani ma il vuoto che si creerà in un Paese finora assistito in ogni settore dagli occidentali. Se “non abbandoneremo gli afgani” come dice Di Maio, quel vuoto può essere riempito da un forte impegno civile a favore di sanità, istruzione, diritti e posti di lavoro. Se invece il futuro è il tutti a casa consigliato dai suoi emissari a Kabul il destino degli afgani appare già segnato.

Questo articolo è uscito anche su ilmanifesto e Lettera22

martedì 28 maggio 2019

Ritorno al cinema (indonesiano)

L'occasione è stata il 70esimo anniversario dei rapporti tra Italia e Indonesia che oggi ha visto nella bella ambasciata della capitale un incontro istituzionale col sottosegretario Manlio Di Stefano, lo Iai e alcuni buoni conoscitori della regione tra cui l'ottimo Pietro Masina dell'Orientale. Ma al di là di questi incontri - comunque importanti nelle relazioni fra i due Paesi - credo che sia stata un'ottima idea che l'ambasciatrice Esti Andayani  e la PusbangFilm abbiano scelto di far precedere l'aspetto  istituzionale da un incontro col cuore di questo grande e splendido Paese. E cosa poteva farlo meglio di una rassegna cinematografica di una settimana (INDONESIAN CINEMA DAYS) affidata a Italo Spinelli che da anni seleziona, scopre (e filma) tutto ciò che si muove nella vasta area asiatica? La scelta è stata rigorosa (e coraggiosa) per i quattro giorni romani (dal 23 al 26 maggio, qui il programma) con un unico difetto: peccato che solo il pubblico della città eterna abbia avuto accesso a un cinema che ha fatto passi da gigante - come temi, tecnica, idee - anche se resta ristretto agli adepti dei festival in un Paese che all'Asia ha sempre rivolto uno scarso interesse se non con luminose eccezioni.

La rassegna (di cui ha parlato anche il Jakarta Post da cui ho tratto lo scatto che riproduce un  momento della discussione tra Spinelli e due attori e un produttore indonesiani)  è stata un'occasione anche per me. Non solo per i film (che nemmeno ho potuto vedere tutti) ma per tornare su un mio vecchio amore, l'arcipelago indonesiano,  tanah air kita, la "nostra terra d'acque" come gli indonesiani chiamano il proprio Paese con 17mila isole allungate su poco meno di due milioni di kmq su cui vivono quasi 270 milioni di persone. Questi incontri mi obbligano a pensare e anche a tentare di capire quanto questo Paese è cambiato. Anche grazie a una conversazione domenica in chiusura dell'evento con Antonia Soriente, asiatista dell'Orientale,  e Spinelli.


Secondo la Banca mondiale "...l'Indonesia è la quarta nazione più popolosa del mondo, la decima più grande economia in termini di parità di potere d'acquisto ed è membro del G-20. Paese emergente a medio reddito, ha fatto enormi progressi nella riduzione della povertà, riducendone il tasso a più della metà dal 1999..." (9,8% nel 2018). Tra gli analisti si dice infatti che la sua crescita ne farà la sesta o la settima potenza economica mondiale nel giro di qualche anno. E in effetti, i grandi imperi si basano su due elementi soprattutto: terra e popolazione. L'Indonesia è più popolata della Russia anche se non ha molta terra e questo significa di per sé avere un grande mercato interno a disposizione. E' però  penalizzata, per essere un mondo insulare, da due fattori: l'acqua e le isole. Oggi però la difficoltà di comunicazione è diventata un nodo che la telematica sta superando rapidamente mentre l'inclusione dell'Indonesia nel progetto della Via della seta marittima aiuterà l'esportazione dei suoi beni. Va aggiunto che l'Indonesia, un Paese instabile e a lungo vessato da spinte centrifughe, ha fatto passi avanti in questa direzione assai più di altre nazioni. La sua influenza e importanza dunque (anche per via dell'elemento religioso) crescerà.

Così le turbolenze di questi giorni non devono trarre in inganno ma vanno semmai situate all'interno di una guerra (fredda per ora) che si sta combattendo per il primato internazionale non dunque solo sulla scena nazionale dell'arcipelago. Non credo infatti che gli incidenti dei giorni scorsi a Giacarta si possano collegare solo ad elementi endogeni. Ne dico uno per tutti: Jokowi è un aperturista. Prabowo Subianto un nazionalista identitario fortemente anti cinese. Credo siano elementi che vanno considerati. Sarebbe come far finta che quanto avvenne negli anni Sessanta fosse solo un fatto interno...