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domenica 3 aprile 2011

FUORI DALLA PORTA DEL GANDAMAK

Il “Gandamak”, alla fine del quartiere di Sherpur e all'inizio di Sharenaw, è il manifesto perfetto della distanza tra gli occidentali e il mondo reale in cui vivono quattro milioni di afgani a Kabul. Fondato da un famoso giornalista, è un luogo ameno un po' délabrée con un fascino d'altri tempi: vecchi fucili ad avancarica in rastrelliera, un'antica Royal Enfield monocilindrica di sapore coloniale all'ingresso e stucchi pseudo vittoriani su un ampio giardino su cui si affaccia un ristorante d'antan che serve croissant caldi e caffè fatto con la Moka. Ma questo ritrovo di contractor, giornalisti, spioni e diplomatici ha un piccolo difetto: è vietato agli afgani per via che vengono serviti gli alcolici e dunque, a parte i prezzi stratosferici, è un luogo così esclusivo da farvi venire un discreto voltastomaco.

Ma se il mondo occidentale, trasferitosi in Afghanistan con cinquemila funzionari e centomila soldati, è distante dagli afgani quasi per default per via dell'inevitabile differenza tra ricchi e poveri, sviluppati e sottosviluppati, potenti e disperati, anche nella stessa società afgana c'è una profonda cesura. Quella che si crea tra un governo e un parlamento usciti da elezioni a dir poco controverse e il mondo reale di trenta milioni di afgani molti dei quali, senza auto con la scorta e amicizie che contano, non sanno come conciliare il pranzo con la cena. Non di meno nella società di questo paese che soffre le evidenti ferite di trent'anni di guerra, il mormorio che sale dal basso si va facendo sempre più impetuoso: attraverso l'associazionismo di base – siano sindacati, Ong, fondazioni culturali, club delle nuove figure emergenti come avvocati o giornalisti – che comincia non solo a parlar chiaro per far valere i suoi diritti ma anche a parlare con una voce sola.

Se “società civile” rischia di essere una parola abusata, buona per tutte le stagioni e tutte le perifrasi che completano analisi sofisticate e intellettuali, in Afghanistan la società organizzata nelle sue forme più diverse e variegate, non solo esiste ma è tutt'altro che un piccolo segmento del paese: è un mondo che, a volerlo vedere, esiste e si fa sentire. Oltre i talebani e la Nato.
Sembra essere questo il risultato principale della Conferenza (“Rafforzare il ruolo della società civile nel processo decisionale”) che ha visto riuniti a Kabul 150 delegati, la metà dei quali donne, provenienti da tutte le province afgane ed espressione di piccole realtà di base o di grossi network che vanno dai disabili ai lavoratori della scuola, dalle Ong che fanno lobby sui diritti umani, ai centri di ricerca dove giovani neolaureati cominciano a produrre analisi più sensate di quelle che si fanno a Londra o a Washington. Se non altro perché sanno bene di che paese stanno parlando.

Dalla conferenza della società civile afgana il messaggio uscito per il governo è stato forte e chiaro, come si direbbe in gergo militare, l'unico che fino ad ora l'ha fatta da padrone: le organizzazioni di base vogliono entrare a far parte del dibattito nazionale, monitorare quel che fa il governo, spingere verso un processo di giustizia sociale che faccia i conti col passato, chiedere conto di come si spende il denaro pubblico. Ma il messaggio è stato forte e chiaro anche per la comunità internazionale che, da un anno a questa parte, ha scoperto la locuzione “società civile” (da unire alle varie declinazioni dell'exit strategy) non sapendo però bene come conciliare la parola con la realtà.

A donatori e cancellerie occidentali gli afgani chiedono più coerenza e investimenti di lungo periodo: non “progetti” ma la valorizzazione del pensiero locale e dunque di chi nel paese vive e forse sa davvero di cosa si avrebbe bisogno. Con realismo. Nella dichiarazione finale si fa cenno all'importanza della “formazione”, perché l'analfabetismo è ancora diffuso, all'università accedono ancora troppo poche persone e perché il diritto alla salute, all'istruzione o alla giustizia si pratica anche sapendo come chiederlo.

Il governo ha in parte snobbato la conferenza. La maggior parte delle cancellerie ha fatto lo stesso, anche se Karzai ha mandato un portavoce presidenziale a leggere un messaggio di augurio (e pare che a breve voglia incontrare il comitato organizzatore) e alcune ambasciate (Giappone, Germania, Canada e naturalmente Italia, la cui cooperazione ha fornito i fondi per organizzare l'incontro di Kabul) hanno prestato orecchio. Qualcosa si muove. Qualcuno inizia ad ascoltare. Forse qualcuno inizierà anche a muoversi.

La fotografia è di Romano Martinis

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