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mercoledì 25 gennaio 2012

LA MISSIONE COMPIUTA DI MITT ROMNEY

La politica estera, lo sanno anche i sassi, non è mai un grande argomento quando il dibattito interno si fa infuocato, come nel caso di nuove elezioni o di crisi economiche. Si veda l'Italia di questi mesi. E' una spia importante però e dunque un banco di prova non irrilevante della credibilità di un candidato. Ora se prendiamo quello che Mitt Romney, candidato alle presidenziali americane in pole position, continua a dire sul conflitto più importante che riguarda il suo Paese, vengono in brividi.

Autorevoli commentatori
, come David Igantius, lo hanno già criticato per la sua uscita anti negoziato coi talebani. Così che, ha fatto notare sul Post Jackson Diehl ieri, un dibattito prodotto dalla Nbc Florida gli ha dato l'occasione di puntualizzare. “Governatore – gli chiede il moderatore – come pensa di metter termine alla guerra in Afghanistan senza negoziare coi talebani”? E lui pronto: “Battendoli”. Menare forte insomma, e duro. Nella miglior tradizione dello stereotipo dell'americano rozzo e muscoloso che non perde tempo e mette le cose a posto con due sganassoni. Non è solo un'idea piuttosto superficiale e che i fatti hanno già smentito. E' anche un'immagine “vecchia” che rispecchia le antiche posizioni di alcuni militari e ambasciatori di Washington a Kabul e di qualche testa pensante della Nato, molti dei quali hanno anche forse cambiato idea dopo che si è capito che i talebani, non solo non si riesce a batterli, ma non si riesce a menar loro troppo duro.

La mediazione
, piaccia o no a Romney, l'ha trovata Obama con l'aiuto di Petraeus (il Patton iracheno). Picchio duro (dove posso e possibilmente senza perdere i miei soldati) ma tendo la mano. Gli americani avrebbero dovuto anzi farlo prima e se hanno commesso un errore, come poi l'Amministrazione ha saggiamente riconosciuto (o forse lo aveva messo in conto), è stato quello di voler far troppo da soli, incalzati dalla fretta di voler arrivare in buca il prima possibile. Marc Grossman, l'inviato speciale di Obama, sta adesso rimettendo i birilli al loro posto, con Kabul (inizialmente esclusa dai colloqui tra Usa e talebani) e (forse) con Islamabad. Ben conscio che non si negozia la pace in Afghanistan senza tutti gli afgani (e senza i pachistani).


Romney invece
è rimasto a “missione compiuta”, la frase che fece di Bush e della sua guerra in Irak una tragica macchietta. Ovviamente gli americani non lo giudicheranno su quel che va dicendo sull'Afghanistan perché hanno altri problemi. Ma chi segue da vicino l'Afghanistan (in America e all'estero) non può non identificare il candidato presidenziale repubblicano più gettonato come una bad news. Se sull'Afghanistan la pensa ancora come tre anni fa la pensavano i più retrivi tra i comandanti americani e più miopi tra i diplomatici, che penserà del dossier iraniano? E di quello nordcoreano? E della Cina? Penserà che bisogna picchiar duro sempre e comunque?

Ai delusi da Obama piacerà sapere che il futuro è pieno di incognite con un candidato così che sembra avere un'idea del suo Paese che risale a qualche decennio fa. E, almeno la politica estera, potrà dare una mano al presidente uscente che avrà mille difetti ma, almeno sull'Afghanistan – finalmente - sembra avere le idee più chiare e più pragmaticamente – il lato migliore degli americani - realistiche

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