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lunedì 23 marzo 2020

Afghanistan, tre fronti caldi per un negoziato


L'inviato  degli Stati Uniti Zalmay Khalilzad ha twittato ieri una notizia molto attesa e cioè che il governo afgano e i talebani hanno tenuto una riunione sulla liberazione dei prigionieri e sul processo di pace. Colloqui dunque che sembrano superare lo stallo che si trascina dalla firma dell'accordo di Doha. Eccone una sintesi prima del tweet di un uomo al centro da mesi di una delle più difficili e  tortuose maratone diplomatiche per far uscire l'Afghanistan dalla palude della guerra. Inshallah...

Martedi 10 marzo doveva essere un giorno particolarmente importante nel calendario della pacificazione dell’Afghanistan. In quella data, secondo quanto stabilito dall’accordo firmato a Doha il 29 febbraio tra americani e Talebani “per portare la pace in Afghanistan”,* sarebbe dovuto iniziare il vero e proprio negoziato intra afgano, tra il governo di Kabul e il governo ombra di mullah Akhundzada, rappresentato sinora dal team negoziale talebano in Qatar capeggiato da mullah Baradar. Se l’accordo di Doha tra guerriglia e parte delle forze di occupazione doveva pavimentare la strada per la pace, la prima data negoziata del vero e proprio processo di pace doveva essere appunto quel 10 marzo. Ma i guai sono iniziati ben prima. E su più fronti.

Il primo fronte caldo da menzionare è quello interno che riguarda l’esecutivo di Kabul cui spettava presentare, per il 10 di marzo, la lista del team negoziale in capo alla Repubblica. Un esecutivo che ancora non c’è e che si è spaccato, se così si può dire, ancor prima di nascere. Ancor prima infatti che la maratona negoziale di 18 mesi condotta da americani e Talebani a Doha partorisse il documento definitivo, Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah, rispettivamente presidente e capo dell’esecutivo uscenti, si erano già divisi sui risultati delle presidenziali del settembre 2019, resi noti in forma definitiva dalla Commissione elettorale nazionale il 18 febbraio. I risultati, che hanno confermato Ghani come presidente, sono stati immediatamente respinti dall’eterno secondo Abdullah; né l’intervento americano, né quello di notabili locali sono riusciti a ricomporre una crisi che il 9 marzo – il giorno prima del fatidico 10 – li vedeva entrambi prendere possesso della carica di presidente. Ghani con l’avvallo – seppur senza fanfare - di personalità politiche nazionali e internazionali. Abdullah Abdullah con l’appoggio di diversi personaggi politici dell’arena afgana. Infine, dopo il fallimento dei tentativi di conciliazione tra i due, veniva abolita nei primi decreti di Ghani la carica di capo dell’esecutivo (una figura istituzionale inventata nel 2014 per risolvere la prima crisi tra i due contendenti che aveva portato alla nascita di un governo bipolare).

Il secondo fronte caldo riguarda i rapporti con i Talebani. Se a Kabul non c’è un esecutivo che rispecchi l’equilibrio delle forze non c’è ovviamente nemmeno una lista condivisa per aprire i negoziati né, pertanto, una linea politica univoca – più o meno inclusiva – che rappresenti la Repubblica. La faccenda si complica sia per le colorazioni etniche (Ghani è pashtun come la stragrande maggioranza dei Talebani) sia per gli equilibri e i rapporti di forza, visto che ad Abdullah fa capo quel che resta della famosa e potente “Alleanza del Nord”, la coalizione di signori della guerra considerata la peggior nemica dei Talebani e la forza che, con l'aiuto esterno, determinò la fine dell’Emirato di mullah Omar nel dicembre 2001. A complicare le cose è nata una diatriba immediata sul rilascio di 5mila detenuti talebani rinchiusi nelle carceri della Repubblica cui doveva far seguito il rilascio di circa mille prigionieri (soprattutto militari) nella mani della guerriglia. Abdullah non è nemmeno entrato nel merito della questione mentre Ghani ha posto il rilascio dei primi detenuti talebani non come premessa ma semmai punto di discussione del futuro negoziato di pace. Ghani ha poi con un decreto dato luce verde alla liberazione di 1500 detenuti ma legandola a un calendario e, ancora una volta, non come una premessa per iniziare i colloqui. I Talebani, che in proposito agitano l’accordo di Doha sostenendo che la liberazione di 5mila combattenti è una precondizione e non un punto di discussione, hanno respinto il piano Ghani e, nel frattempo, ricominciato a intensificare le azioni contro l’esercito afgano, attenuatesi per una settimana alla vigilia dell’accordo di Doha del 29 febbraio.

Il terzo fronte caldo riguarda gli Stati Uniti, il loro rapporto coi Talebani e quello con Kabul, a sua volta diviso in due tronconi. Ma c’è anche un fronte interno al Congresso, a una parte del Pentagono poco convinta dagli accordi di Doha e a un clima di sfiducia che dopo la firma ha contagiato un po’ tutte le parti in causa con l'esclusione di Zalmay Khalilzad, l’inviato americano artefice degli accordi di Doha la cui maratona diplomatica non si è mai fermata. Prima, durante e dopo l’accordo di febbraio. Va aggiunta infine la variabile Donald Trump. Il presidente americano, che ha investito sulla riuscita degli accordi buona parte della sua campagna elettorale per la rielezione, si è distinto per una posizione ondivaga sin dall'inizio del suo mandato: favorevole al ritiro durante la prima campagna elettorale era tornato interventista da presidente con la decisione di un aumento degli “stivali sul terreno”, salvo poi caldeggiare il negoziato di Khalilzad. E si deve a Trump se una prima firma dell’accordo è saltata a settembre (famosa la sua frase: “Il negoziato coi Talebani è morto”), costringendo i negoziatori di Doha a una nuova maratona di oltre cinque mesi. Infine il presidente americano ha probabilmente indispettito i più tiepidi verso l’accordo di Doha, sia a Kabul sia a Washington, con una telefonata a mullah Baradar immediatamente dopo la firma del 29 febbraio. Una conversazione così poco gradita che dopo un’altra telefonata tra Trump e Ghani, il neo presidente afgano si affrettava a chiarire che non c’era alcun impegno a liberare 5mila prigionieri talebani, argomento nemmeno trattato nell'amichevole chiacchierata con Donald: “Questione di sovranità nazionale”.

Quanto al fronte interno americano, è sufficiente riportare qualche dichiarazione in merito al ritiro delle truppe (da 13mila a 8.600 in 135 giorni), i cui preparativi sarebbero già iniziati settimana scorsa: Il generale Kenneth "Frank" McKenzie, comandante dell’United States Central Command (Centcom), ha sottolineato a denti stretti la celebrazione degli accordi di Doha da parte di Al Qaeda, che li ha definiti "una grande vittoria storica" del movimento jihadista: “Nell'accordo di ritiro delle forze occupanti – continuava la nota dei qaedisti - c’è un'evidente vittoria e una sconfitta umiliante per l'America e i suoi alleati". Infine il generale notava che il livello di attacchi talebani seguiti alla fine della settimana di tregua di febbraio “non sono coerenti con un'organizzazione che intenda mantenere la sua parola". Gli faceva eco il segretario alla Difesa Mark Esper: "Possiamo fermare il ritiro in qualsiasi momento e metterlo in pausa". Una clausola prevista dagli accordi di Doha se i talebani non dovessero rispettare gli impegni. Ma negli Stati Uniti, già al momento dell’accordo del 29, molti timori erano già venuti a galla surriscaldando il clima: con i repubblicani preoccupati dal calendario del ritiro e poco fiduciosi sugli impegni presi dai Talebani e i democratici a chiedere un maggior coinvolgimento del Congresso nelle decisioni della Casa Bianca. Infine molti parlamentari restano sospettosi sui due annessi “segreti” all’accordo di Doha - ammessi dal segretario di Stato Pompeo - che stabiliscono nel dettaglio le regole sul ritiro delle truppe. Trump però ha sempre respinto tutte le critiche confermando tra l'altro di voler incontrare di persona i Talebani. Le primarie e in seguito il Covid-19, lo hanno poi aiutato a distogliere l’attenzione dalla guerra più lunga del Paese che, al momento, deve comunque a Trump quantomeno la possibilità di un inizio della sua fine.

Un ultimo punto val forse la pena di essere sottolineato. E’ una sorta di peccato originale e al contempo un’ipoteca sul futuro di negoziati che appaiono ancora nebulosi. Purtroppo il dialogo Usa-Talebani si è svolto senza padrini né mediatori. E lo stesso sembra dover accadere per il processo di pace intra afgano – qualora cominci veramente e sempre che compaia una lista di negoziatori. Una lista di possibili parti terze è circolata alcune settimane fa ma gli interessati, citati da un servizio della Cnn, hanno smentito. E’ una delle tante nubi sul futuro, una cattiva stella sotto la quale si è cominciato a trattare senza che il negoziato di Doha fosse, in qualche modo, “accompagnato” da terzi e dunque garantito anche sulla sua interpretazione. Una mancanza cui sarebbe bene – per il dialogo intra afgano - porre rimedio in fretta.

* Come recita il titolo dell’accordo: Agreement for Bringing Peace to Afghanistan between the Islamic Emirate of Afghanistan which is not recognized by the United States as a state and is known as the Taliban and the United States of America



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