Pol Pot |
La
Corte straordinaria della Cambogia, un organismo giuridico misto
creato dall’Onu, ha condannato ieri a
Phnom Penh per
genocidio Nuon Chea e Khieu Samphan, gli ultimi due capi
khmer
rossi
al vertice della Kampuchea Democratica di Pol Pot, artefice
di uno dei maggiori stermini di massa della seconda metà del secolo
scorso. I due vecchi sono già stati condannati all’ergastolo per
crimini contro l’umanità ma la rilevanza della notizia sta
nell’uso di quella parola: “genocidio”. Che,
finora, non era mai stata usata ufficialmente e legalmente nelle
sentenze di una corte che non prevede la pena capitale e che dunque
non ha potuto che reiterare la condanna già in essere alla catena
perpetua.
Vittoria
del diritto? La parola fine a
uno degli episodi più bui del secolo breve? O, come qualcuno dice,
una beffa che arriva a quarant’anni – e con milioni di dollari
spesi - dalla fine del breve regime del terrore istituito da Pol Pot
e dai suoi sodali in Cambogia tra il 1975 e il 1979? Per dirla tutta
la condanna di genocidio non riguarda effettivamente quell’oltre
milione e mezzo di cambogiani (le stime variano tra 1,5 e 2 milioni)
che perirono per fame e stenti o che finirono nella macchina delle
epurazioni che aveva nella prigione di Tuol Sleng, ora museo
dell’orrore, la sua icona
nella quale si entrava vivi e si usciva solo da morti. La condanna
riguarda quanto i khmer
rossi fecero alla minoranza musulmana dei Cham (un’antica
popolazione migrata a Nord dall’Indonesia in
epoca remota)
e a quella vietnamita in onore a una frase di Pol Pot che voleva
anche l’ “ultimo seme” di quella
comunità spazzato via dalla sua nuova Cambogia che aveva
ricominciato dall’anno
zero. Per quel milione e mezzo di cambogiani uccisi, la parola
genocidio non è stata formulata
dalle legge internazionale che dal 1997 è rappresentata dalla corte
straordinaria
(Eccc) concordata dall’Onu con l’allora reame cambogiano. Per
quei crimini, sia Nuon Chea sia Khieu Samphan sono già
stati condannati alla
prigione a vita quattro anni fa; eppure
le
loro vittime,
dicono i critici del concetto di genocidio che regola l’azione
delle nazioni Unite, furono l’oggetto
di
un’azione
genocidaria
seppur i
carnefici appartenessero alla
loro
stessa
comunità.
Infine
non si può nemmeno dire che la partita khmer rossi sia
definitivamente
chiusa.
Ci sono almeno altri quattro responsabili già
individuati e che meriterebbero di essere giudicati dalla corte
speciale. Ma chi si oppone è Hun Sen, premier d’acciaio e
dittatore tollerato: ex khmer rosso poi passato al
Vietnam,
fu tra coloro che guidarono l’invasione vietnamita e che da Hanoi
fu
posto a comandare la
nuova Cambogia filovietnamita. Hun Sen vuole chiudere la partita che
dunque
lascia solo
alla Storia un giudizio non solo sui criminali di guerra ma sugli
attori esterni – da Pechino a Washington, da Londra ad Hanoi - che,
più o meno direttamente, appoggiarono i khmer rossi oppure li
combatterono in un “Grande Gioco” asiatico dove la Cambogia fece
la fine dell’Afghanistan e dove i khmer rossi furono assassini ma
anche
eroi, burattini i cui fili venivano tirati
fuori dal Paese. Una brutta vicenda che
in tribunale non è mai entrata.
Nuon
Chea, 92 anni, la pelle incartapecorita e slavata, era il “fratello
numero due”,
l’ideologo che con Pol Pot, al secolo Saloth Sar, ideò la Cambogia
pura
dell’anno zero. Khieu Samphan, 87 anni, era invece l’ex capo di
Stato. Entrambi ebbero la condanna del carcere a vita nel 2014. Non
da soli. Kaing
Guek Eav, meglio noto come “Duch”, l’uomo che reggeva le sorti
di Tuol Sleng – l’ex liceo della capitale conosciuto anche come
S-21 – ha lui pure avuto l’ergastolo: condannato a trent’anni
del 2010 si è
visto
commutare la pena nel carcere a vita due anni dopo. Ma ha scampato
l’accusa di genocidio proprio perché S-21 era la
galera dedicata ai
cambogiani ribelli. Lui
però
in prigione
non c’è:
la malattia lo ha fatto ricoverare
in un
ospedale
a Phnom
Penh
dove deve aver visto il processo in tv.
E’ andata bene anche al “fratello numero tre”,
al secolo Ieng Sary, che l’ergastolo lo aveva già avuto nel 2007:
membro
del Comitato centrale
e ministro degli Esteri, è morto nel 2013 scampando così al
processo per genocidio. A sua moglie Ieng
Thirith, ministro
e sorella
della prima moglie di Pol Pot, è andata ancora meglio. E’
deceduta
nel 2015 senza
mai esser giudicata:
ormai arteriosclerotica non
era
in grado, si
disse,
di affrontare il processo.
Scamparono
il processo anche Ta Mok, il “macellaio”, morto in carcere nel
2006 e Son Sen, il capo dell’esercito cambogiano, morto nel 1997.
Ma l’imputato per eccellenza, che non ha mai visto né un giudice
né un carceriere e che è morto nel suo letto di guerrigliero nelle
montagne del Nord, è il “fratello numero uno”, Pol Pot, passato
a miglior vita nel 1998.
La
morte di Pol Pot, primo ministro della Cambogia dal 25 ottobre 1976
al 7 gennaio 1979 (i suoi vice erano Ieng Sary, Son Sen e Vorn Vet,
ucciso a S-21 nel 1978) è un piccolo giallo. Le cronache dicono che
sia morto di un attacco di cuore mentre aspettava la macchina che
avrebbe dovuto consegnarlo alle autorità cambogiane secondo un piano
concordato da
alcuni del
vertici
khmer rosso,
tra cui Ta Mok. Ma secondo il giornalista Nate Thaye, che lavorava
per la Far Eastern Economic Review, si sarebbe ucciso con una dose
eccessiva di Valium e clorochina. Proprio
per sfuggire l’onta di un processo. Per
genocidio o altro, probabilmente per lui non avrebbe fatto
differenza.
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