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mercoledì 2 marzo 2011

LEZIONE MEDITERRANEA

Del senno di poi son piene le fosse e sarebbe dunque un esercizio inutile dar colpa alle diplomazie occidentali e americane di non aver previsto la “vague méditerranéenne” che ha colto tutti impreparati. Né è stato molto generoso Bill Emmott che, sulle pagine de La Stampa, ha ricordato come, sin dal 2009, l'Economist avesse previsto il “risveglio dal sonno” del mondo arabo. Per noi giornalisti gettare lo strale è facile e non c'è Paese al mondo del quale non potreste dire “succederà qualcosa”, per poi rivendicarlo qualche anno dopo con la caduta della borsa, una sommossa di piazza, la fine del partito di maggioranza. “Io l'avevo detto...”. La questione è un'altra.

Quando una situazione, per quanto imperscrutabile e imprevedibile, precipita, la diplomazia si mette al lavoro. E' nelle crisi che si vede la stoffa, la preparazione e di quanti e quali strumenti è in possesso. La rivolta del Mediterraneo, dall'Egitto alla Tunisia passando per la Libia, ci ha visto solidamente impreparati, con qualche gaffe notevole (come indicare durante la crisi a Tunisi il modello Gheddafi), un esagerato prendere tempo (non disturbiamo il colonnello) e poi, improvvisamente, un'esibizione muscolare che ci vorrebbe fautori della “no fly zone”, opzione su cui in queste ore si esercitano analisti e generali, osservatori e opinionisti. Non è il caso di dilungarsi sui rischi insiti in questa scelta, ben presenti in primis all'Amministrazione Obama e ai vertici delle Nazioni unite, sulla quale conviene invitare, questa volta sì, alla prudenza, se non si ha troppa fretta di innescare l'ennesimo conflitto dagli esiti incerti: un altro Afghanistan dietro l'angolo nel quale sperimentare nuovi sistemi d'arma mettendo in conto, nel centrare gli aerei del rais, qualche quotidiano bilancio di effetti collaterali civili.

Ma il vero punto, come in particolare segnalano bene le difficoltà della diplomazia francese e italiana, è come attrezzarsi nell'epoca in cui, con eccessiva semplicità, abbiamo liquidato schiere di funzionari pubblici con la feluca in nome del fatto che la “politica estera adesso la fanno presidenti e primi ministri” e in una fase in cui la società civile, assai più di ministri e cancellieri, tiene banco sulla scena politica come la vague méditerranéenne sembra indicarci.

Sul primo punto è chiaro che la semplificazione è quantomeno superficiale: se premier e capi di stato decidono nei vari G declinati numericamente (G2, G8, G10, G20 e via moltiplicando), sono ambasciatori e consiglieri, segretari e consoli a tessere una tela diventata sempre più intricata. La diplomazia ha assai meno bisogno di cene ufficiali e cerimoniali ma assai più necessità di orecchie e occhi attenti. In una crisi come quella libica sarebbero i rapporti con gli ex ministri di Gheddafi, quelli antichi col rais, quelli nuovi con gli emergenti capi popolo a salvare il salvabile. Altro che fly zone. Per un Paese la cui Costituzione impone il ripudio della guerra “come strumento di offesa e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, la diplomazia è un'arte sacra, un'opzione irrinunciabile, la spina dorsale stessa del Dna del nostro Paese. E qui si viene al secondo punto.

Quanto siamo attrezzati oggi (noi, i francesi, i tedeschi, gli americani) a comprendere il mondo in cui viviamo? Quanto siamo in grado di capire, non tanto quando un regime dittatoriale cadrà, ma quali saranno i suoi becchini? Quanti contatti abbiamo, in una parola, con la società reale dei Paesi in cui operiamo? Quanto conosciamo le sue associazioni, i suoi centri culturali, le sue espressioni nascoste di dissenso, i circoli, i ritrovi, i luoghi dove il malessere si esprime e dove nascono, maturano, si fanno strada i nuovi leader? Una salda diplomazia coltiva empirei e bassifondi, il “Circolo della caccia” e le associazioni di quartiere, i salotti dei notabili e i luoghi di ritrovo al parco pubblico dove si diffonde il pensiero antagonista che non trapela sui giornali di regime, nelle discussioni dei politici ammaestrati, nei finti reportage delle tv di Stato.

Questa conoscenza, che si fa metodo e strategia, ha naturalmente bisogno di una direzione e di un ripensamento dei vecchi strumenti diplomatici che il mondo moderno ha messo in crisi: un ripensamento che guidi i giovani studenti della scienza diplomatica nei meandri di facebook tanto quanto nell'abile capacità di stendere un valido “trattato di amicizia”. La Libia è un buon banco di prova. Ma non per mostrare muscoli tardivi, velleitarie opzioni sull'uso della forza, lo stantio ricorso all'ingerenza umanitaria che trasforma le missioni di pace in guerre senza fine. Su questo banco di prova si può misurare la statura di un Paese, la sua capacità di mediare, di proporre soluzioni, di individuare referenti e protagonisti. Un esercizio che ben fatto ci salverebbe dall'ennesimo pericoloso slancio militare e da una retorica che rischia di far male a noi quanto al povero popolo libico. Che vorremmo salvare dalle mani insanguinate del colonnello a costo di cacciarlo in una nuova guerra.

1 commento:

Giulio Maria Raffa ha detto...

Molto interessante! Ad una conferenza svoltasi ieri a Roma su 'servizi segreti e crisi in Medio Oriente', Nicola Pedde ha menzionato proprio quel 'certo tipo' di diplomazia ricordando Uri Lubrani (ultimo ambasciatore israeliano in Iran) che tra il 1978 e il 1979 usciva di nascosto la notte (i suoi servizi di sicurezza gli impedivano di uscire dall'ambasciata per la pericolosità della situazione a Teheran) e incontrava tutte le persone per le strade e i vari luoghi di ritrovo nei momenti ferventi della Rivoluzione. Cosa non indifferente, Lubrani parlava perfettamente farsi.
Quell'ambasciatore, infatti (anche così facendo), pare sia stato l'unico a capire come si stava evolvendo 'realmente' la situazione e a prevedere la cacciata dello Shah.