Sarebbero ormai una sessantina i morti dell’ultimo attacco stragista rivendicato dallo Stato islamico che domenica, a Kabul, ha ucciso in un quartiere a maggioranza sciita chi si stava registrando per le elezioni che si terranno in ottobre. Lo stesso giorno, nella provincia di Baghlan, un altro attentato uccideva sei persone, sempre in un centro di registrazione per il voto. La notizia delle stragi, ormai pane quotidiano da che anche gli emuli del califfato operano nel Paese, non è che l’ennesimo boicottaggio di un processo elettorale cui credono davvero in pochi. La mancanza di sicurezza gioca sicuramente a sfavore, ma c’è altro. La gente non ci crede, dicono i giornali afgani indipendenti, e sta per altro trovando nuove vie per dimostrare cosa vuole veramente: né col governo, né coi talebani, né ingerenze esterne ma una tregua pur che sia, come chiede ormai da un mese un vasto movimento autoconvocato dal basso e che raccoglie – già in diverse province – il vero sostegno popolare di cui non gode né il governo, né la guerriglia, né le truppe di occupazione.
I dati della registrazione elettorale parlano chiaro: in dieci giorni si sono registrate poco più di 290mila persone, ossia un segmento irrisorio degli aventi diritto. E un quarto di loro sono kuchi, i nomadi afgani (pashtun ma non solo) che, proprio grazie al loro nomadismo che li tiene un po’ fuori dai giochi, sembrano sfuggire più dei residenti ad attentati, bombardamenti e bombe sulla strada. La gente insomma non va volentieri a registrarsi: nel Paese ci sono 1400 centri per farlo di cui 83 del resto sono chiusi (20 dei quali nella capitale). Andrà a votare?

Reazioni spontanee hanno cominciato a fiorire prima nella provincia di Helmand (Lashkargah è la capitale) poi nella vicina Kandahar. Poi in giro per il Paese in ben 16 province, come testimonia il resoconto del ricercatore afgano Ali Mohammad Sabawoon: sit in di appoggio alla protesta dei famigliari delle vittime di Lashkargah si contano a Herat, Nimruz, Farah, Zabul, Kandahar, Uruzgan, Ghazni, Paktia, Kunduz, Kunar, Nangrahar, Balkh, Parwan, Daykundi, Maidan Wardak e Jawzjan. La novità consiste proprio nella resistenza nel tempo della protesta pacifica e nell’assenza di una leadership: un moto spontaneo che potrebbe essere un’occasione eccezionale per tutti. Per lo stesso governo, i talebani e l’insipiente diplomazia internazionale, chiusa nelle sue ambasciate-fortino che ormai non rilasciano più visti agli afgani. Colpevoli di cercare la pace nei Paesi dei loro supposti alleati.
Il fatto interessante è che nel vicino Pakistan accade qualcosa di molto simile. Qui c’è un movimento pashtun strutturato - Pashtun Tahaffuz Movement – e una piattaforma pragmatica che ha visto domenica a Lahore migliaia e migliaia di pashtun criticare governo e militari il cui pugno di ferro anti terroristico colpisce indiscriminatamente. La manifestazione era vietata ma la polizia è rimasta immobile anche se il governo ha obbligato molti media a censurare la notizia della protesta che, per l’establisment militare, sarebbe – guarda caso – eterodiretta. Si ripeterà a breve a Karachi. La protesta ha molto in comune con quella oltre frontiera. E a Islamabad, come a Kabul, come nelle montagne dove si rifugiano talebani pachistani e afgani, l’imbarazzo è palpabile.
Nessun commento:
Posta un commento