Visualizzazioni ultimo mese

Cerca nel blog

Translate

Visualizzazione post con etichetta elezioni. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta elezioni. Mostra tutti i post

giovedì 15 febbraio 2024

L'oscuro passato del futuro presidente dell'Indonesia

Se le proiezioni di queste ore saranno confermate dai dati ufficiali come pare certo, è ormai davvero certo che a governare le 17mila isole indonesiane sarà Prabowo Subianto. Un uomo che ha saputo riciclarsi con abilità attraversando stagioni molto diverse. L'ultima delle quali quella del gemoy, il nonno "carino" che evidentemente è piaciuto a giovani e meno giovani che costituivano oltre il 55% dell'elettorato tra Generazione Z e Millennial 


Kupang - Prabowo Subianto Djojohadikusumo, classe 1951, tanto per cominciare viene da una famiglia ricca giavanese e da un giro di imprenditori amici del generale Suharto, un dittatore durato 32 anni. Il giovane Prabowo frequenta Jalan Cendana dove Suharto vive con la famiglia e dove corteggia Titiek, la secondogenita del rais. E’ nel giro che conta e nel maggio 1983 si sposano. Divorzieranno nel 1998, anno della caduta politica del padre. 

All’epoca Prabowo era un ufficiale dell’esercito che farà poi carriera in un corpo d'élite, le forze speciali Kopassus. A loro tocca tra il 1976 e il 1998 combattere la resistenza al governo centrale nell’Irian Jaya (Papua) ma soprattutto a Timor Est, la riottosa ex colonia lusitana che Suharto ha invaso dopo la Rivoluzione dei garofani portoghese che le aveva concesso la libertà. Si guadagna sul campo le stellette da generale. Poi, nel 1998 Suharto lo promuove alla Kostrad, la riserva strategica di cui lui stesso era stato il primo comandante all’epoca della repressione anticomunista (1965-66). 

Sono gli ultimi colpi di un vecchio dittatore ormai in coma che nel maggio di quell’anno si dimette. In quel periodo i generali giocano un ruolo chiave e saranno loro a scaricare il loro mentore. Prabowo cerca di ricavarne un guadagno ma lo batte in abilità una vecchia volpe, il potente generale Wiranto. Un ufficiale che condivide con lui una divisa piena di macchie.

Quando in un’intervista del 2014 ad Al Jazeera gli si chiede conto di attivisti anti Suharto scomparsi, Prabowo se ne fa scudo e risponde tranquillo che si, era roba sua ma erano “ordini superiori”. Ma intanto è in disgrazia. Viene esautorato dal ruolo militare e va in esilio in Giordania. Forse avrebbe preferito gli Usa che però lo avevano messo al bando (levato nel 2020) per il suo passato. Tornato dall’esilio pian piano si ripulisce. L’ultimo ritocco è merito di Jokowi.

sabato 14 novembre 2020

Un plebiscito per Aung San Suu Kyi



I dati ufficiali della Commissione elettorale birmana non sono ancora definitivi. Ma lo spoglio è più che sufficiente alla Lega nazionale per la democrazia (Lnd) per dichiararsi la vincitrice della prima elezione del Myanmar che si sia svolta sotto un governo civile. Si sa già anche che la Lega, il partito di Aung San Suu Kyi, ha ampiamente superato i 322 seggi necessari, nelle due Camere, per formare un nuovo governo. Voto più voto meno qui e là e una piccola batosta in aree come il Rakhine, dove la metà dei seggi son rimasti chiusi a causa della guerra, la Lega può vantare un consenso che ha riproposto un sostegno a valanga. Ne escono con le ossa rotte i militari e il loro partito per la solidarietà e lo sviluppo che, tanto per stare in linea con il trend generale, han subito contestato i risultati (con altri 16 partiti minori) chiedendo una Commissione di indagine sotto l’egida dell’esercito. 

Anche le organizzazioni di monitoraggio del voto han sollevato questioni su alcune irregolarità ma non c'è abbastanza per dichiarare nullo un plebiscito per altro largamente previsto, nonostante i dubbi per via del Covid-19 e per i tanti risultati mancati nelle promesse fatte nel 2015 quando si svolsero le prime elezioni libere. La Lega intanto ha aperto il dialogo con 39 parti “etnici” (che rappresentano le varie nazionalità del Paese, esclusi ovviamente i Rohingya) per fare dell’Unione repubblicana birmana - com'è ora - una Federazione, passaggio fondamentale anche per far si che la guerra tra Bamar e altre nazionalità smetta di consumare vite ed energie. Persino Tatmadaw, il nome con cui sono noti i militari birmani, sembra in realtà prepararsi già al futuro governo della Lega, tanto che l’altro ieri ha fatto sapere che sarebbe  d’accordo a un nuovo riavvio del processo di pace già in corso con diversi gruppi armati (per ora 10), includendo nel negoziato anche quelli che non hanno ancora siglato l’Accordo di cessate-il-fuoco (Nca), precondizione che hanno sempre ritenuto (e imposto) come pregiudiziale e che, cadendo, aprirebbe la strada al dialogo con almeno altre sette formazioni. Resta da vedere cosa fare con l’Arakan Army, protagonista del conflitto più recente negli Stati Chin e Rakhine. La Lega sarebbe disposta a negoziare. I militari, che hanno inserito l’AA tra i gruppi terroristi, han sempre detto no.... (continua su il manifesto)

domenica 2 agosto 2020

Pace, guerra e elezioni. Le sfide ravvicinate del Myanmar

Ultimora (4 agosto): il governo birmano ha rinviato di una settimana la riunione sul processo di pace senza dare spiegazioni. Avrebbe anche ripristinato Internet nel Nord Rakhine pur se secondo alcune fonti la connessione e' bassa e piena di buchi. Infine ha reso effettive le restrizioni sui voli da e per il Paese sino a ottobre, cioe' poco prima delle elezioni previste l'8 novembre

Si avvicinano in  Myanmar i due appuntamenti più importanti dell’anno che, nonostante le restrizioni per il Covid-19, si terranno con i tempi e i modi già decisi anche se con alcune limitazioni: si tratta della quarta sessione della “Conferenza sulla pace di Panglong del 21°secolo”, come è stato intitolato il vertice che si terrà nella capitale Naypyidaw a metà agosto, e delle elezioni legislative in programma per novembre. La consultazione elettorale si terrà con restrizioni nei raduni di massa e nelle modalità di propaganda dei partiti. La Conferenza di pace ha invece visto sostanzialmente diminuire il numero dei delegati, una misura accettata da tutti i partecipanti.

Alla riunione – fissata dal 12 al 14 agosto prossimi - sono invitate tutte le entità che hanno combattuto contro il governo centrale e che in gran parte hanno aderito al processo di pace. Ma hanno ricevuto l’invito anche gruppi che non hanno aderito o che hanno accettato in linea di principio il Nationwide Ceasefire Agreement (NCA) – siglato nel 2015 - ma senza firmare accordi. Tra gli invitati di rilievo, fuori dall’accordo, ci sono per esempio la Kachin Independence Organisation e l’United Wa State Party. Entrambi hanno un braccio armato. I temi sul tavolo riguardano sia l'attuazione dell'accordo di cessate il fuoco a livello nazionale, sia ulteriori negoziati sui principi di base per formare un'unione federale che continueranno anche dopo le elezioni. Sarà la prima volta che il federalismo, sinora parola tabù, farà il suo ingresso al tavolo negoziale. L’ultima conferenza si è tenuta tra il 31 agosto e il 4 settembre 2016, quando si era per la prima volta insediato il governo civile guidato dalla de facto premier Aung San Suu Kyi. Si chiuse con una "Roadmap for National Reconciliation and Union Peace" che prevedeva sette passaggi, alcuni dei quali rimasti lettera morta.

Sul processo di pace pesano diversi fattori: la forza di contrattazione delle diverse forze in campo, che possono contare sulla pressione militare dei relativi eserciti locali, la posizione della Cina - in grado di controllare diversi gruppi lungo la frontiera col Myanmar - e infine la guerra in corso, soprattutto nel Chin e nel Rakhine, cui contribuiscono gruppi armati fuori dal negoziato e, come nel caso dell’Arakan Army, inscritte nella lista dei gruppi terroristici. Proprio giovedi scorso, due raid aerei dell’esercito birmano hanno bombardato l’area tra Kyauktaw e Mrauk U - a circa 150 chilometri da Sittwe, capitale del Rakhine - per rispondere a un attacco dell’Arakan Army. La sezione Mrauk-U-Kyauktaw della carreggiabile Yangon-Sittwe è stata chiusa fino al tardo pomeriggio. I combattimenti hanno avuto luogo nei campi sul lato Est della strada tra la diga di Abaungtaw e quella di Taungphyu. Non si ha per ora notizia di vittime ma molti residenti avrebbero abbandonato l’area. La zona dista una sessantina di chilometri in linea d’aria dal territorio di Paletwa, nel Chin, dove, con la popolazione civile, sono intrappolati dai continui scontri armati anche cinque sacerdoti cattolici.

venerdì 10 luglio 2020

Sfida elettorale (scontata) nella Città del Leone

Lo Straits Times di Singapore, il giornale vetrina della città-stato, spiegava ieri mattina che la Città del Leone ha siglato tre dei primi cinque contratti di private equity e venture capital conclusi nella regione nel primo trimestre del 2020. E che benché l'attività economia si sia ridotta nel Sudest asiatico a causa del Covid, i tre accordi fanno un pacchetto di investimenti di oltre 800 milioni di dollari nei settori software, e-commerce ed energia solare. Innovazione tecnologica, per di più pulita. La notizia della buona performance della Città del Leone precede di un giorno le elezioni per l’unica Camera dell’isola che da 15 legislature è saldamente in mano al  People's Action Party (PAP) dell’attuale premier Lee Hsien Loong. La sua riconferma nel voto di oggi è scontata e si tratta solo di vedere se conserverà tutti i seggi (82 su 93) che gli contende un’opposizione che nelle ultime elezioni ha guadagnato punti ma che ora sembra molto sulla difensiva. Sa che non può vincere ma spera almeno di non perdere gli scarsi consensi guadagnati in passato.

Corre comunque divisa: a contendersi i parlamentari sono 11 partiti  con 192 candidati in uno scrutinio affidato a 2.6 milioni di elettori (circa un terzo dei quasi 6 milioni di residenti) che possono votare solo se hanno compiuto 21 anni. L’esito appare dunque scontato e si chiama Lee. Lee Kuan Yew è stato il grande padre padrone, paternalista autoritario e anti comunista, che ha dominato la politica di Singapore per decenni. Non un dittatore come Marcos o Suharto però, e abile negli affari e nel mantenere in equilibrio il melting pot della città. Poi lo scettro, salvo l’interregno del fedelissimo Goh Chok Tong (1990-2004), è passato al figlio Lee Hsien Loong il cui fratello minore, Lee Hsien Yang, milita invece nelle file dell'opposizione del Progress Singapore Party. Ha avuto il buon gusto di non candidarsi sostenendo che a Singapore di Lee ce ne sono abbastanza. Entrambi sono ex generali.

Di padre in figlio, il piccolo villaggio di pescatori, divenuto poi un polo commerciale di Sua Maestà britannica,  è riuscito a diventare una specie di Svizzera dell’Asia ma senza puntare solo sul settore bancario. Singapore è una delle grandi capitali dell’innovazione tecnologica e Tiziano Terzani l’aveva definita un Paese ad aria condizionata già negli anni Settanta. Ha saputo tenere a bada cinesi e americani alleandosi di volta in volta con loro ma tenendo le distanze e si è ritagliata un ruolo politico di primo piano anche se è poco più di una città con qualche isolotto e atollo (una sessantina) e un entroterra che sembra solo un grande giardino, 700 kmq in tutto, come il Cantone svizzero di Glarona. Un miracolo con i suoi buchi neri: oltre al voto per gli over 21, leggi draconiane di controllo sulla stampa, per esempio, e una manodopera immigrata con scarse garanzie, finita nell’occhio del ciclone per la sua ghettizzazione in epoca Covid; 300mila persone stipate in una quarantina di dormitori che si sono trasformati in un focolaio virale che ha messo in crisi la gestione del Coronavirus.

Eppure i migranti restano un buon esempio da demonizzare. Lo fa il Workers Party, nonostante sia di ispirazione socialdemocratica, l’unico partito che rappresenta una lieve minaccia per il PAP: ha pensato bene di mettere nel suo programma la limitazione degli ingressi, una politica “sovranista” che non è nemmeno nelle corde del PAP che sa benissimo come uno dei segreti del suo successo si debba proprio a questi silenziosi muratori, elettricisti, spazzini e camerieri a basso costo disposti a far la fila per partecipare al “miracolo” del Leone diventato Tigre.

domenica 29 dicembre 2019

Afghanistan, bilancio di fine anno


La mattina del 29 dicembre di quarant'anni fa, l'Afghanistan si svegliò ormai completamente prigioniero dell'Armata rossa che, il giorno prima, aveva completato tutte le operazioni di controllo del regime di Afizullah Amin (che già  il 27 aveva pagato con la vita i dissidi con  Mosca) e che quella mattina aveva annunciato, attraverso Radio Kabul, che il Paese era stato "liberato". Cos resta  dell'avventura bellica iniziata allora e proseguita con un conflitto interno e l'invasione del 2001 è noto. Ma cosa riserva il 2020 agli afgani?
Senza bisogno di fare profezie sul futuro – un mestiere che compete ai meteorologi – è abbastanza evidente che sul risultato finale delle presidenziali afgano si stiano addensando nubi tempestose. Un risultato ancora incerto si accompagna inoltre a un’ennesima stagione di veleni dove accanto alle denunce di frode, che vedono le accuse del dottor Abdullah nutrirsi di altri lai, non si risparmiano colpi bassi. Nemmeno all’alleato maggiore, gli Stati Uniti, accusati ieri pubblicamente dal Consigliere per la sicurezza nazionale Hamdullah Mohib di preoccuparsi più dello scambio di prigionieri occidentali in mano ai talebani che non del futuro degli accordi di pace. Tutto ciò non promette nulla di buono.

A fine settembre del 2014, a sei mesi dal primo turno delle penultime presidenziali, toccò al segretario di Stato Usa John Kerry risolvere le beghe elettorali nate dal primo scontro tra Ghani e Abdullah. Con abilità e fermezza, Kerry – che citò quell’accordo come un esempio di statesmanship and compromise (arte di governo e compromesso) - riuscì a far convergere i due sulla formula di un governo di unità nazionale che prevedeva una divisione dei poteri al 50 per cento tra i due contendenti: l’uno presidente, l'altro “capo dell’esecutivo”, bizzarra figura né premier né vicepresidente e non prevista dal dettato costituzionale afgano. I due, e con loro gli afgani, digerirono. Ma adesso...

Adesso, Ghani e Abdullah sono ancora lì ma al posto di Kerry c’è Mike Pompeo e, al posto di Obama, Donald Trump, un presidente instabile, sotto pressione per l’impeachment e capace di formidabili colpi di testa. Dall’altra parte della barricata ci sono più o meno gli stessi talebani di allora - nella sempre difficile situazione di squilibrio tra le varie fazioni del movimento - e in mezzo ci sono gli afgani, stretti in una miscela di dolorosa disperazione che si è espressa nella ennesima grande illusione del voto. Un voto dove ha elettoralmente parlato una popolazione di meno di due milioni di elettori su 9,7 di aventi diritto. Che equivale a circa la metà degli abitanti di Kabul.

Anche se gli americani appaiono riluttanti a una nuova “soluzione Kerry”, saranno obbligati a prendere il toro per le corna. Gli altri partner della coalizione sono ormai così sfiniti da questa avventura senza fine che il mutismo è la loro condizione ormai abituale. Mentre non è escluso che russi e cinesi, sempre più attenti alle vicenda afgane, si facciano avanti suggerendo una qualche soluzione che raffreddi gli animi.

In tutto ciò la colpa di questi animi surriscaldati è responsabilità anche degli afgani o meglio dell’élite che, col beneplacito degli alleati, governa il Paese da quando lo scettro del comando fu consegnato a Karzai nel dicembre del 2001. Da allora una pedissequa acquiescenza ai nuovi padroni del Paese, unita alla sacra alleanza con gli ex signori della guerra e i sempre attivi signori della terra, ha lavorato soprattutto per spartirsi privilegi e potere ricorrendo tra l’altro al peggiore degli strumenti: quello identitario. Soffiare sul fuoco del nazionalismo pashtun, tagico, hazara – un refrain sul tribalismo che in Occidente ha molti adepti – fa degli afgani un popolo che non merita né attenzione né solidarietà. La responsabilità di questa deriva, alimentata all’occorrenza dai partner americani e della Nato, ricade sui politici afgani. Non certo sulla gran parte della popolazione che, tra l'altro, ha marciato in lungo e in largo per il Paese facendo la richiesta più sensata: far tacere le armi.
Nessuno li ha ascoltati. Né le cancellerie, né i talebani, né il governo di Kabul e neppure la grande stampa. Tutti complici – a diverso titolo – della stessa congiura del silenzio che ha soffocato l’unica vera novità politica innovativa di questi anni.

martedì 26 novembre 2019

Il nuovo Grande Gioco allargato attorno all’Afghanistan

Il 19 ottobre la Commissione elettorale indipendente (Iec) avrebbe dovuto annunciare i risultati preliminari del voto presidenziale del 28 settembre scorso ma, come molti pensavano, ha posposto la data a un futuro indeterminato. Tutto è labile e fragile in questo Paese, e le elezioni non fanno eccezione. Come fa notare Afghanistan Analysts Network, il più accreditato centro di ricerca indipendente locale, la Commissione ha resi noti diversi aggiornamenti sull’affluenza alle urne, due dei quali sulla pagina Facebook di uno dei commissari (l’ultimo dà quasi 2,7 milioni su 9,6 aventi diritto).

Un modo per rendere noto che i dati ufficiali sul flusso elettorale ancora non sono completi ma anche un modo piuttosto inusuale per far sapere e non sapere com’è andato il voto, a parte la bassa affluenza. La confusione non ha fatto che aumentare sospetti e accuse di brogli che, come da copione, abbondano. E comunque, attestando un’affluenza parziale inferiore al 30%, il bilancio è davvero scadente: oltre il 10% in meno rispetto alle politiche del 2018 che già avevano registrato una partecipazione bassa ma comunque vicina al 40% con punte del 75% (Bamyan, ora al 49) o anche dell’80% (Daykundi, ora al 68)... (continua su AspeniaOnline)

sabato 16 novembre 2019

Le strane elezioni oggi a Sri Lanka

Incombe su 16 milioni di elettori e su 35 candidati alla presidenza il ricordo ancora vivo delle bombe di Pasqua nello Sri Lanka che colpirono chiese e alberghi di lusso uccidendo più di 250 persone e ferendone diverse centinaia. Per forza di cosa, l’eredita di quella vicenda oscura – col suo corollario di scontri tra comunità in un Paese dominato dai singalesi buddisti ma con importanti minoranze musulmane e indù (tamil) - ha guidato la campagna elettorale all’insegna della sicurezza, un mantra diffuso e facile da sventolare nelle strategie della propaganda. L'altro tema è la povertà, malattia atavica, e lo sviluppo in un Paese che non cresce e il cui debito estero – oltre 34 miliardi di dollari – vale quasi il 40% del Pil. Sono debiti soprattutto con la Cina contratti dal presidente Mahinda Rajapaksa che nel 2015 fu defenestrato – al netto di un tentato golpe per rimanere in sella – da Maithripala Sirisena, l’uomo che ha dovuto affrontare le bombe rivendicate dallo Stato islamico e su cui una scia di polemiche e controversie si sono accompagnate a una campagna securitaria sottolineata da scontri tra comunità soprattutto a danno dei musulmani.

Sirisena e Rajapaksa non si presentano alle elezioni ma uno dei due candidati favoriti è un “loro” uomo: Gotabaya Rajapaksa, fratello di Mahinda e controverso ministro della Difesa durante la sconfitta della guerriglia del partito armato delle “Tigri Tamil” nel maggio del 2009 . Il paradosso è che Sirisena, acerrimo nemico dei Rajapaksa e uomo dello Sri Lanka Freedom Party (Slfp) – un partito fondato dal socialista Solomon Bandaranaike – ha poi cambiato bandiera durante il suo quinquennato: scegliendo proprio il vecchio Mahinda come premier con cui sostituire l’attuale – Ranil Wickremesinghe - che poi l’ebbe vinta per decisione della Corte suprema. Sirisena si dice neutrale ma il suo partito appoggia di fatto Gotayaba del quale già si sa che come premier vorrebbe suo fratello Mahinda. I due, che pure vengono in origine dallo Slfp, sono ora nello Sri Lanka Podujana Peramunama (o Sri Lanka People’s Front): rappresentano l’ala più nazionalista e identitaria singalese-buddista dello schieramento.

In questo quadro confuso di amici-nemici, con sullo sfondo il rapporto complesso con la Cina (di cui i fratelli Rajapaksa sono gran fautori) e con l’India e gli Stati Uniti (che videro con favore la vittoria di Sirirsena nel 2015 proprio sperando di scalzare l’influenza di Pechino), anche l’altro candidato che potrebbe essere letto superando il 50% dei voti è una vecchia conoscenza dell’establishment srilankese. Si chiama Sajith Premadasa, classe 1967, del United National party (Unp), partito liberal conservatore che ha avuto, col fratello di Sajiit - Ranasinghe Premadasa – un premier e un presidente fino al 1993 quando Ranasinghe fu ucciso dalle Tigri. Adesso l’Unp ha il premier Ranil Wickremesinghe che già abbiamo ricordato essere detestato sia da Sirisena sia dai Rajapaksa. Ma anche Sanjit, se eletto, potrebbe cambiare cavallo. Anche se comunque il presidente, cui spetta la nomina del premier, dovrà pur sempre aspettare le parlamentari del prossimo febbraio.

Intanto, in un Paese semi presidenzialista, vincere lo scranno più alto è importante. Se lo vince Gotayaba, col beneplacito di Sirisena e l’ombra del fratello alle spalle, cambierà completamente il quadro politico e la famiglia Rajapaksa tornerà a regnare, al netto delle accuse di nepotismo, corruzione e violazione dei diritti umani di cui han fatto scorta in questi anni. Se invece la vittoria andrà a Sanjit, che sembra meno propenso di loro a cavalcare la bandiera identitaria, rafforzerà l’Unp aiutandolo a vincere anche le elezioni politiche. Sullo sfondo resta la tensione nei rapporti internazionali: con un vicino potente come l’India che ha sempre considerato Colombo una sorta di provincia d’oltremare e un lontano competitor – la Cina – che ha nella “lacrima dell’Ocenao indiano” una delle gemme della sua “collana di perle”, la Via della seta per via marittima che passa proprio da Sri Lanka.

venerdì 7 giugno 2019

Il mio eroe nelle elezioni tailandesi

Credit: Bangkok Post
Questo signore nella foto a destra si chiama Siripong Angkasakulsiat. E' un parlamentare eletto nelle ultime legislative alle quali l'altro ieri a Bangkok è seguita la votazione di Camera e Senato per eleggere il premier. Votazione che ha confermato il generale golpista Parayut a primo ministro della Thailandia. Golpe istituzionale poiché in regola con la legge elettorale che prevede l'elezione da parte dei due rami del parlamento. Con un piccolo però. I 250 senatori che hanno votato con i 500 parlamentari usciti dalle urne, non sono stati eletti ma scelti (date un'occhiata alla scheda sotto pubblicata dal Bangkok Post) dalla giunta che fino a ieri governava il Siam e che, da l'altro ieri, ancora lo fa.  Lo fa sebbene il partito di Prayut abbia avuto solo la maggioranza relativa dei voti, sebbene il suo partito abbia vinto solo 116 seggi contro i 136 del  Pheu Thai, sebbene l'indicazione popolare sia stata per il fronte anti giunta (in particolare per i partiti pro Taksim o per la novità rappresentata da  Thanathorn Juangroongruangkit, sospeso però dalla Commissione elettorale),  sebbene la Commissione elettorale abbia ostacolato continuamente l'opposizione, sebbene, sebbene...

 Dunque Prayut incassa i voti del Senato e poi alla Camera bassa quelli dei partitelli che lo hanno sostenuto o che si sono accordati (come nel caso del Bhumjaithai Party di Siripong, il cui leader Anutin Charnvirakul era candidato premier). Ma al momento del voto il deputato Siripong si astiene: fa il "cobra", espressione usata per i traditori che votano per i loro interessi personali e non secondo le indicazioni del partito. Una bufera ma Siripong è adamantino.

 Spiegherà che lui, ai suoi elettori, aveva detto che avrebbe sostenuto il suo capo partito, non Prayut, e che  dunque si è astenuto per mantenere le promesse. Coerenza e coraggio da levarsi il cappello in un Paese dove la democrazia è ancora un miraggio


giovedì 23 maggio 2019

Cosa succede a Giacarta?

Prabowo: eterno secondo
Quasi due giorni interi e soprattutto due notti di scontri a Giacarta dove chi ha perso le presidenziali ha chiamato i suoi per contestare i risultati. Almeno sei vittime. Centinaia i feriti e gli arrestati. Le avvisaglie in realtà c’erano già state alla vigilia dei risultati delle presidenziali indonesiane che hanno confermato al secondo mandato Joko “Jokowi” Widodo. Alcuni supporter dell’ex generale Prabowo Subianto, conservatore appoggiato dall’islam radicale nonché arrivato anche questa volta secondo, vengono fermati lunedi a Giava orientale con 4 cocktail Molotov nascosti nel minibus.

La meta è la capitale Giacarta dove mercoledi devono esser resi noto i risultati, anticipati poi a martedi. Jokowi (a sinistra tra i suoi elettori) vince il testa a testa e allora i militanti che Prabowo ha chiamato a raccolta scendono in piazza con una manifestazione ben preparata – mazze, razzi e bottiglie incendiarie – che è il seguito delle minacce reiterate dell’eterno secondo: se non vinco, contesto. Ci sono anche due figlie importanti: quella di Suharto (sua ex) e la minore di Sukarno. Si scatena l’inferno e la battaglia è lunga. Sembra conclusa a notte fonda ma alle 4 di mattina di mercoledi, gli amici di Prabowo tornano in piazza. All’inizio l’urto è forte e la polizia retrocede persino. Ha ordine di non sparare. Verso le tre del pomeriggio, torna la calma. I manifestanti han negoziato e sono ormai circondati. In seguito però la battaglia ricomincia per la seconda notte. Si conclude con oltre 250 arrestati.

Jokowi non la prende bene... (continua su atlanteguerre)

domenica 19 maggio 2019

Sri Lanka, arriva lo strongman

C’è una novità nella politica srilankese a pochi giorni dalla prima ricorrenza delle bombe di Pasqua che il 21 aprile uccisero oltre 250 persone in uno degli attentati recenti più sanguinosi. E’ una novità che ha in realtà un sapore antico poiché si riferisce non solo a un personaggio del passato ma anche a un uomo di cui è lecito dubitare proprio per il suo passato. Si chiama Gotabaya Rajapaksa ed è un fratello dell’ex presidente Mahinda – due mandati alle spalle – che qualche mese fa aveva tentato, con il bizzarro appoggio dell’attuale capo dello Stato suo ex rivale, di tornare in pista come premier. Le presidenziali si avvicinano e Mahinda aveva pensato di sfidare la legge correndo per un terzo mandato (vietato nello Sri lanka) ma dopo la sua recente e sfortunata avventura da premier (cancellata dal tribunale), deve averci ripensato. E così si fa avanti Gotabaya, l’uomo che dal novembre 2005 al gennaio 2015, quando Mahinda perderà le elezioni contro l’attuale presidente Sirisena, ha ricoperto l'incarico di segretario generale alla Difesa. Non è un titolo qualsiasi e non fu un decennio qualsiasi....continua su atlanteguerre.ithttps://www.atlanteguerre.it/sri-lanka-si-fa-avanti-luomo-forte/

Questo articolo è uscito oggi anche su il manifesto

mercoledì 17 aprile 2019

Si vota in Indonesia. All'ombra dei militari

Con oltre 190 milioni di elettori che devono scegliere sia il nuovo presidente sia i 711 deputati del parlamento, le elezioni di oggi in Indonesia sono, assieme a quelle indiane, una delle più complesse tornate elettorali del pianeta. Gli occhi sono puntati soprattutto sulla scelta del nuovo presidente il cui mandato – in una repubblica dove il capo dello Stato è il dominus dell’esecutivo – dura cinque anni, fino al 2024. La sfida, come già nel 2014, è tra l’attuale presidente Joko Widodo, detto Jokowi, e il suo rivale ormai tradizionale: l’ex generale Prabowo Subianto, ex comandate della riserva strategica ed ex marito di Titiek, secondogenita di Shuarto (divorziarono lo stesso anno della caduta del dittatore nel 1988); gode dell’appoggio della Muhammadiyah, una delle più potenti organizzazioni islamiche del Paese. In ticket con lui Sandiaga Uno, imprenditore e già vice governatore della capitale.

Ma chi pensa che, come fu nel 2014, la sfida tra Jokowi e Prabowo sia tra vecchio e nuovo - laici contro islamisti, civili contro militar, progressisti contro conservatori – ora deve (almeno in parte) ricredersi. Jokowi si presenta infatti con un vice che è un anziano teologo della Nahdlatul Ulama, l’altra grande organizzazione religiosa del Paese: e Ma’ruf Amin, che ne era a capo presiede anche il Consiglio degli ulema. Quanto ai militari, i suoi critici dicono che il presidente non ha aiutato l’Indonesia a uscire da un rapporto troppo stretto con gli uomini in divisa. E anche se la NU è stata in molti casi un’organizzazione progressista (espresse il primo presidente eletto del dopo Suharto, Gusdur) e i rapporti coi generali sono, nel caso di Jokowi, meno stretti che nel caso di Prabowo, molti indonesiani sponsor del presidente uscente storcono il naso. Non molti per la verità: nel parlamento uscente Jokowi conta su una larga coalizione di partiti che, salvo uno, lo appoggeranno come già nel 2014, e nella società alcuni sondaggi hanno visto considerare le forze armate (Tni) l’organizzazione che maggiormente si guadagna la fiducia del popolino. Un abbraccio antico quanto la Repubblica nata alla meta del secolo scorso dopo la fine della colonia olandese e che ha sempre dovuto convivere con la stretta, a volte soffocante, della casta militare e di quella degli ulema.

E’ il calcolo che Jokowi deve aver fatto scegliendo Ma’ruf. Ed e il calcolo che deve anche aver fatto quando ha deciso che i militari possono avere incarichi pubblici prima di andare in pensione. Durante la dittatura di Suharto la cosa era normale. Ma in seguito, con l’avvento della democrazia, l’Indonesia aveva abolito la cosiddetta dwifungsi dell’esercito: una doppia funzione che gli consentiva di essere un potere civile oltreché militare. Dopo la dittatura terminata con la dismissione di Suharto (messo fuori gioco dai suoi generali come in Algeria o in Sudan) all’esercito furono anche levati i seggi di diritto in parlamento (com’è invece ancora oggi in Myanmar) e a soldati e poliziotti fu impedito di avere incarichi civili e persino di andare a votare durante il servizio. Ma la cosa ha creato problemi e prodotto un surplus nelle forze armate che ha spinto Jokowi a rivedere lo schema: nel 2017, oltre 140 generali e 790 colonnelli non avevano un posto il che fece decidere all’esecutivo di creare nuove unità e di consentire ad alcuni di loro di poter avere un posto nell'amministrazione civile senza dover andare in pensione come non avveniva più dalla riforma del 2004.

Ma Jokowi e’ andato oltre: già nel 2016 il presidente aveva nominato l'ex capo dell'esercito Wiranto ministro per gli affari politici, legali e di sicurezza (incarico che già aveva con Giusdur) anche se l’ex generale è stato accusato dalle Nazioni Unite di crimini contro l'umanità durante la repressione a Timor Est. Infine non ha storto il naso quando Try Sutrisno, già vice presidente con Suharto, ha dichiarato di appoggiarlo. Ma Jokowi il riformatore è anche l’uomo che ha continuato l’opera di rimozione della memoria delle stragi che diedero il via dal 1965 alla dittatura di Suharto ed è anche un presidente che si è distinto per l’applicazione della pena capitale. Non di meno resta un riformatore nel sociale con un welfare innovativo, l’aumento dell’accesso a scuole e servizi e la lotta alla corruzione. Ma neppure lui sembra sfuggire all’abbraccio in mimetica dei generali. Ex o in servizio.

domenica 24 marzo 2019

La giunta tailandese alla prova del voto

Se c'erano dei dubbi sul fatto che le elezioni tailandesi siano lo specchio di un vecchio scontro - quello tra le giunte militari sostenute dalla monarchia e i sostenitori della famiglia Shinawatra (Thaksin e sua sorella Yingluck entrambi esautorati ed esiliati) - il matrimonio di un rampollo di Thaksin a Hong Kong nei giorni scorsi ne è stata la riprova. Alla vigilia dell'apertura delle urne,  cui ci si può recare da stamane  nel Paese, c'era una sorpresa: al matrimonio in pompa magna ha partecipato infatti, senza nascondersi, la principessa Ubolratana Rajakanya che Pheu Thai, il partito che rappresenta in Thailandia gli interessi della famiglia esiliata, aveva presentato come candidata alle elezioni guadagnandosi così l'esclusione dalla corsa elettorale dopo un intervento diretto della Real Casa che ha vietato alla figlia del vecchio re - e sorella dell'attuale -. di entrare in politica. Quel matrimonio alla vigilia del voto, che i giornali tailandesi non han potuto ignorare, spiega bene come lo scontro tra i militari e il vecchio imprenditore populista sia tutt'altro che finito. Ritorna infatti nel voto di oggi. Ma con qualche sorpresa aggiuntiva.
La giunta militare che da cinque anni regge la Thailandia dopo una lunga sequenza di golpe in divisa va oggi alla sfida del voto nella prima tornata elettorale dove vecchie e nuove forze le contendono il nuovo governo. Ma è un’elezione blindata sia nei numeri sia nelle leggi che regolano la longeva e conservatrice monarchia siamese. Si vota per il rinnovo di 500 membri dell’Assemblea nazionale con un sistema complicato e farraginoso e non basterà  guadagnare la metà più uno per ottenere la guida del governo... segue su atlanteguerre.it

sabato 9 febbraio 2019

La fine della favola della principessa e il generale (aggiornato)

E' molto a rischio la designazione di Ubolratana a premier della Thailandia nelle prossime elezioni del 24 marzo: venerdi in tarda serata infatti, suo fratello Maha Vajiralongkorn - il re della Thailandia - ha bollato come "inappropriata" la scelta della sorella maggiore. La decisione di candidarla, in capo al Thai Raksa Chart, un partito che con il  Pheu Thai è considerato un'emanazione della famiglia Shinawatra (in esilio) di cui l'ex principessa Ubolratana è molto amica, ha scatenato un vero e proprio terremoto politico in Thailandia - sui giornali e nei social - tra i favorevoli e i contrari alla sua candidatura (nell'immagine a dx, Ubolrata in un manifesto elettorale).

 Lei - il cui nemico elettorale è il generale Prayuth Chan-o-cha - si è difesa oggi su Instagram sostenendo che è solo una comune cittadina da quando ha sposato un americano "borghese" cinquant'anni fa rinunciando alle prerogative della real casa. Ma i maligni fanno notare che Ubolratana usufruisce perlomeno di alcuni dei privilegi concessi ai reali. Cosa succederà ora? La signora dal sangue blu vuole andare avanti ma il suo partito - sostenendo di voler rispettare il dettato reale - ha già fatto un passo indietro e ora rischia anche l'esclusione dalle urne se la Commissione elettorale, come il partito dei militari chiede, dovesse ritenerlo colpevole di aver violato la legge. "Ha commesso un suicidio candidando la principessa", scriveva un commentatore sul Bangkok Post.

L'opinione pubblica è spaccata. Ma, soprattutto, il re ha detto la sua. E in un Paese come la Thailandia le parole del re hanno un peso come forse in nessun'altra monarchia al mondo.

venerdì 8 febbraio 2019

La signora (di sangue blu) e il generale

A sorpresa la signora Ubolratana di Thailandia, già Mrs. Julie Jensen e ancora prima Sua altezza reale principessa Ubolratana Rajakanya Sirivadhana Barnavadi, ha deciso di candidarsi come futuro premier  alle prossime elezioni del 24 marzo che dovranno chiudere la lunga parentesi gestita dal Consiglio nazionale per la pace e  l'ordine, la giunta militare che governa il Siam dal 2015 con un primo ministro "ad interim".

Le sorprese però non finiscono qui: Ubolratana non è più principessa da quando si sposò con un americano e dunque dovette rinunciare al titolo come prevede la "legge salica" (per usare un termine improprio) tailandese. Ma è pur sempre la figlia dell'amatissimo re Bumiphol (morto nel 2016) e della regina Sikirt ed è sempre la sorella maggiore dell'attuale regnante re Maha Vajiralongkorn.

Chi, si chiedeva oggi con ironia il quotidiano britannico The Guardian, oserebbe parlar male di lei?


Se la prima notizia è che una nobile tailandese di rango scende nell'arena politica, la seconda notizia è con chi lo fa. Si tratta del partito Thai Raksa Chart, erede più o meno diretto del Thai Rak Thai di Thaksin Shinawatra che si fece poi rappresentare (fu sollevato dal suo incarico di premier da un golpe nel 2006) dalla sorella  Yingluck Shinawatra (leader del  Pheu Thai la cui cupola è ora in parte trasmigrata nel Raksa Chart),  altro premier uscito di scena con un golpe (2014). La sfida è dunque tutta per l'attuale premier generale Prayuth Chan-o-cha (a sinistra nell'immagine) del Palang Pracharath Party (Pprp), in sostanza il partito dei militari e il garante dello status quo. I candidati premier sono sei ma i riflettori sono ora puntati soprattutto su due...

domenica 21 ottobre 2018

Italia/Afghanistan. Storia di un disinteresse



Questo articolo è 
un  contributo
 al un dossier sulle elezioni afgane
 uscito il 18 ottobre su ispionline




Per capire l’orientamento dell’Italia nella vicenda afgana è necessario prendere in considerazione diversi aspetti: dalla permanenza del nostro contingente militare – fino a qualche settimana fa numericamente il secondo dopo quello statunitense – alla politica migratoria o di cooperazione civile. Il ministero degli Esteri ha un ufficio dedicato al Paese asiatico – col quale Roma si era impegnata inizialmente soprattutto a sostenere il “pilastro” giustizia e a contribuire significativamente alla missione Nato-Isaf (fino a 4mila soldati); attualmente però l’ufficio è senza la direzione di un “inviato speciale” (figura creata alcuni anni fa su ispirazione americana e adottata anche da altri Paesi europei) dal momento che l’ultimo in carica –Alberto Pieri – è stato nominato ambasciatore a Nairobi ai primi di settembre. Quanto alla politica di migrazione, l’Italia segue le direttive impresse nel 2016 dalla Ue con un accordo con Kabul per favorire il rientro degli afgani. Una decisione che sollevò polemiche per il carattere coattivo della misura – cui ha fatto seguito nel gennaio di quest’anno, ufficialmente per motivi di sicurezza, la chiusura degli uffici consolari di tutti i Paesi Ue, che ora rilasciano visti per l’Europa solo eccezionalmente. Va comunque notato che l’Italia è tra i pochi Paesi europei a non effettuare rimpatri forzati, pur avendo aderito, come membro dell’Ue, all’accordo tra Bruxelles e Kabul. Quanto all’aspetto militare e di strategia politica, ci si può invece affidare solo a dichiarazioni di intenti, soprattutto pre elettorali, da parte di chi regge l’attuale esecutivo. Dunque lo scenario si presenta abbastanza nebuloso e incerto, pur comprensibilmente visto che, dall’insediamento del governo, son passati solo pochi mesi e alcune scelte o indirizzi si presentano particolarmente spinosi specie se riguardano le sensibilità del nostro maggior alleato: gli Stati Uniti.

Ritirarsi o restare?

La missione militare che costa al contribuente italiano grosso modo 500mila euro al giorno, impegna circa 1000 soldati (tra il teatro afgano e la logistica nel Golfo) e ha tecnicamente il mandato di contribuire solo all’addestramento dell’apparato di sicurezza afgano. Per il quale effettivamente mille uomini sembrano un numero sovradimensionato. Chi si aspettava svolte clamorose, sul piano del ritiro o sulla riconversione della spesa militare in un maggior contributo alla cooperazione civile, è rimasto per ora deluso e non c’è segno che le cose possano cambiare a breve sebbene in passato partiti e movimenti ora al governo (M5S e Lega) abbiano fatto del ritiro dei nostri soldati un cavallo di battaglia.

"Sull'intervento in Afghanistan siamo sempre stati chiari. Per noi quello è un intervento che per la spesa pubblica italiana è insostenibile". Così a novembre del 2017 Luigi Di Maio, in visita a Washington in veste di vicepresidente della Camera e candidato premier in pectore del Movimento 5 Stelle: “È già nel nostro programma ed era già nelle nostre proposte. Ma non siamo pregiudizialmente contro missioni di pace all'estero, specialmente quelle a guida italiana… Non c'è pregiudizio ideologico". Posizione reiterata in campagna elettorale a febbraio 2018: «Pensiamo che il contingente italiano non debba più restare in Afghanistan. Questa missione espone i nostri soldati a rischi inutili».

Il 29 giugno 2018 la ministra Trenta, intervistata dalla rivisita americana Defense News, parla di un “cambio di passo” con una possibile riduzione dei militari da 900 a 700 unità (già stabilita però dal precedente governo). Ma aggiunge: "Non vogliamo ridurre la stabilità o ridurre il sostegno per gli afgani… non vogliamo indebolire la missione, quindi cercheremo altri partner per assumere compiti come la logistica." Il ritiro in realtà, si è saputo a inizio ottobre, sarà soltanto di 100 soldati dall’Afghanistan entro la fine di ottobre e di 50 dall’Irak.

La Lega, per anni favorevole al ritiro delle truppe non solo dall’Afghanistan, è invece diventata più silenziosa sulla questione. La parola ritiro non figura più nei messaggi del ministro Salvini e ricorre semmai nelle esternazioni di qualche parlamentare. Non di meno il contratto di governo, siglato dai due partiti per formare l’esecutivo, recita al paragrafo 9: «È opportuno rivalutare la nostra presenza nelle missioni internazionali sotto il profilo del loro effettivo rilievo per l’interesse nazionale».

500mila euro al giorno. Tanto costa
 la missione militare
La patata bollente è dunque nelle stanze del ministro Enzo Moavero Milanesi che regge il dicastero degli Esteri. Moavero ha avocato a sé tutte le competenza che riguardano aree di conflitto e di conseguenza l’Afghanistan, che avrebbe dovuto essere attribuito al sottosegretario M5S Manlio Di Stefano con delega all’area asiatica (tra i più favorevoli al ritiro, reiterato il giorno del suo insediamento). Il dossier resta dunque nelle mani di un ministro estremamente cauto e parco di esternazioni. Il mese più intenso è lo scorso giugno ma le poche parole usate da Moavero sulla vicenda afgana riguardano soprattutto il nostro rapporto con la Nato cui il capo della diplomazia italiana ha dedicato più spazio che non ad altri argomenti su cui si è espresso stringatamente (per la visita di Abdullah a Roma o la tregua tra Kabul e la guerriglia di Eid el-fitr). Sempre in giugno, nel “più che cordiale colloquio” col Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, Moavero cita l’Afghanistan solo per ricordare come “l’Italia, quinto contributore al bilancio, abbia profuso un grande impegno in termini di uomini, mezzi e risorse nelle operazioni NATO, quali Afghanistan e Kossovo”. Fonti diplomatiche sostengono che il ministro abbia ricevuto forti pressioni, sia da Stoltemberg sia dagli americani, per non toccare il nostro contingente. Che alla Farnesina regnino le parola d’ordine “continuità” e “rassicurazione” non è un mistero. E solo i prossimi mesi potranno dire se il “cambio di passo” non resterà solo nelle intenzioni.

Cooperazione civile

Se il costo della partecipazione alle missioni militari in Afghanistan a partire dal novembre 2001 (Enduring Freedom fino al 2006, ISAF fino 2014, Resolute Support dal 2015) è stato finora di quasi 8 miliardi (185.343.173 milioni nel 2018 con copertura sino al 30 settembre dell’anno in corso), gli investimenti in cooperazione civile sono stati in totale di soli 280 milioni in diversi settori, dalla sanità alle infrastrutture, con una sostanziale riduzione (20 mln l’anno) a partire dal 2013. A questi vanno aggiunti i fondi veicolati dalle Ong, attualmente scoraggiate dall’intervenire nel Paese – per motivi di sicurezza – e non più finanziate dal ministero degli Esteri (che gestisce il flusso di cassa in bilaterale o con versamenti agli organismi internazionali) e che si sono pertanto ridotte di numero dovendo dipendere dai soli fondi privati o europei. Il futuro potrebbe essere quello di una continuità equivalente a quella militare ma al vertice della neonata Agenzia di cooperazione (Aics) – cui era a capo la dimissionaria Laura Frigenti - manca però ancora un direttore e voci insistenti alla Farnesina dicono che il ministero vorrebbe riprendere il controllo della creatura nata due anni fa e non dimostratasi particolarmente efficiente. Il candidato numero uno è infatti un diplomatico. Ma si devono fare i conti con la neo viceministra con delega alla cooperazione, Emanuela del Re, neoeletta deputata del M5S e nominata a fine luglio. Gode della stima degli ambienti non governativi e della fiducia del governo. Finora però nemmeno lei ha chiarito cosa intende fare in Afghanistan.


martedì 7 agosto 2018

Pugno di ferro a Dacca contro gli studenti (aggiornato)

Shahidul Alam in uno scatto di  Rahnuma Ahmed
 sul Daily Star: Hrw accusa governo e polizia di pestaggi
e tortura al fotografo incarcerato durante le proteste
Da oltre una settimana la cronaca quotidiana di Dacca, capitale del Bangladesh, è attraversata da incidenti tra forze di polizia e studenti. Iniziate pacificamente, le manifestazioni degli studenti hanno incontrato sempre più resistenza e, un paio di giorni fa, la semplice azione di contenimento è diventata una vera e propria repressione senza esclusione di colpi. Cui non sono estranee squadracce del partito la governo, la Lega Awami, che si sta preparando per le elezioni di dicembre: appuntamento sempre contrassegnato da violenze in un Paese che vede da decenni uno scontro bipolare tra due partiti e due donne premier.

domenica 29 luglio 2018

La faccia legale dell'islam radicale

Guardate bene la faccia di questo signore dalla barba curata e lo sguardo
arcigno. Si chiama Khadim Hussain Rizvi ed è un teologo predicatore punjabi che ha fondato nel 2017 il Tehreek Labbaik Pakistan, un partito islamista tutt'altro che moderato. Imarn Khan, l'uomo che ha vinto le elezioni in Pakistan, dovrà fare i conti anche con lui perché, a  Karachi, il suo partito ha ricevuto 321mila voti per l'Assemblea nazionale (il parlamento), non sufficienti a guadagnare uno scranno ma non certo pochi. In compenso le urne per il parlamento provinciale del Sindh gli hanno consegnato due seggi. A detta del Tlp, che denuncia brogli, i voti sarebbero stati di più e tali da garantire uno scranno nazionale e addirittura sei a livello di provincia. E' una forza emergente che rischia di portare via voti sempre di più agli islamisti moderati del Muttahida Majlis-i-Amal che a Karachi  gli han ceduto terreno. Il Tlp, come il Pti di Imran, ha avuto anche facile gioco grazie alla debacle sia del Ppp ma soprattutto del  Muttahida Qaumi Movement, il movimento storico della città vessato da scissioni e anche da persecuzioni governative.

Di partiti islamisti radicali in Pakistan ce ne sono tanti ma questo è da tenere d'occhio. E' famoso per due cose: essersi schierato con  Mumtaz Qadri, un poliziotto dell'élite reo confesso dell'omicidio di  Salmaan Taseer, governatore del Punjab contrario alle punizione previste per i blasfemi (vedi il caso della cristiana Asia Bibi - condannata a morte per blasfemia - che Taseer aveva difeso). Mumtaz .fu condannato a morte. Un'ingiustizia secondo Khadim.

La secondo cosa riguarda invece l'azione conosciuta come  Faizabad sit-in nella quale diversi partiti islamisti hanno bloccato nel 2017 un incrocio chiave di Islamabad per questioni inerenti lo status religioso dei candidati alle legislative. Non furono sgomberati, il governo trattò e cedette e Khadim Hussain Rizvi diventò il nuovo idolo dei gruppi di ispirazione barelvi, movimento religioso che conterebbe 200 milioni di seguaci in Asia meridionale. Khadim è per l'introduzione della sharia e per il califfato - oltre che per leggi durissime contro i bblasfemi - ma è soprattutto un abile agitatore che non disdegna forzature violente in piazza. Un movimento con cui fare i conti.


mercoledì 25 luglio 2018

Terrore elettorale

Nonostante il timore suscitato dall'ondata di sangue che, alla vigilia della consultazione si è abbattuta sul Paese dei puri alla vigilia del voto, oggi in Pakistan si vota. Una giornata che è stata subito bagnata dal sangue di 29 persone in Belucistan per un attentato con la firma Stato islamico e nonostante 370mila uomini delle forze di sicurezza siano stati mobilitati per garantire il voto nelle varie circoscrizioni e negli 85mila seggi elettorali. I morti erano già già stati a decine con quasi 150 persone in un solo colpo a metà luglio proprio in Belucistan.

L'appuntamento è importante in un Paese ufficialmente in pace ma attraversato da una guerra di bassa intensità con l'islam radicale: per la prima volta nella storia del paese il cambio di governo avverrà tra uomini che non portano la divisa. Gli aventi diritto sono 105 milioni contesi da 110 partiti e oltre 3.700 candidati. Il risultato è incerto con l'interrogativo di brogli e intimidazioni, ma le elezioni sono un fatto rilevante che aiuta un Paese a lungo sotto tutela militare a uscire dal tunnel di una fosca tradizione. Si vota nelle quattro grandi province chiamati alle urne in Sindh, Belucistan, Punjab e Khyber Pakhtunkhwa e preoccupazioni sulla trasparenza elettorale sono state espresse dalla Human Rights Commission of Pakistan e da altri organismi locali. il voto sarà seguito da missioni di diversi osservatori internazionali tra cui Free and Fair Elections Network, la Ue e il Commonwealth.

In palio ci sono 342 seggi dell'Assemblea nazionale (di cui 60 riservati alle donne e 10 per i non
musulmani). Sono così ripartiti : Belucistan - la provincia sudoccidentale al confine con Iran e Afghanistan: 17 seggi; Khyber Pakhtunkhwa - la ex provincia della Frontiera che ora include anche le aree tribali al confine con l'Afghanistan: 43 seggi; Punjab - la provincia più industrializzata e più ricca che fu divisa in due tra India e Pakistan dalla Partition del Raj britannico nel 1947: 183 seggi; il Sindh, agricolo e feudo della famiglia Bhutto con la grande città-porto di Karachi: 75 seggi; le Federally Administered Tribal Areas, da poco incluse nella Khyber Pakhtunkwa: 12 seggi; Islamabad capitale federale: 2 seggi (i territori del Nord Gilgit/Baltistan seguono un sistema a parte e non partecipano al voto).

La partita elettorale si gioca tra tre organizzazioni storiche del panorama politico e con tre candidati che rappresentano altrettante dinastie. La più antica è quella del Partito popolare pachistano (Pakistan Peoples Party – Ppp) guidato da Bilawal Bhutto Zardari, classe 1988, figlio dell’ex presidente Zardari - e soprattutto della scomparsa ex premier Benazir - e nipote di Ali Bhutto, leader socialdemocratico impiccato dal dittatore militare Zia ul-Haq. Il suo feudo elettorale è la provincia agricola del Sindh, ma raccoglierà voti anche altrove. Non abbastanza, dicono gli osservatori, per contrastare la vera sfida: quella tra la Lega musulmana (Pakistan Muslim League-Nawaz – Pml-N) e la tradizionale opposizione del partito capeggiato dall’ex giocatore di cricket Imran Khan (Pakistan Tehreek-e-Insaf – Pti), che si presenta e autopresenta come il favorito alla carica di premier.

La speranza di ottenere abbastanza seggi per formare il governo non è in realtà affatto scontata per Imran, personaggio istrionico e robante che sta sfruttando con abilità la tempesta che si è abbattuta sulla Lega, rimasta priva - alla vigilia delle elezioni - sia del suo leader sia dell’uomo che è stato – senza concluderlo - a capo dell’ultimo mandato sancito dalla vittoria elettorale del 2013. Nawaz Sharif, premier a più riprese a capo di un partito di centrodestra, è stato infatti destituito dalla carica di premier in seguito allo scandalo dei cosidetti Panama Papers, che hanno rivelato maneggi di denaro in conti esteri e proprietà immobiliari a Londra non dichiarate. Accuse che gli sono costate 10 anni (più 7 alla figlia Maryam): arrestato con la figlia al suo ritorno in patria, per tentare di rivitalizzare un’immagine distrutta dai guai giudiziari e che stava costando cara al parito, vedrà la battaglia elettorale dalla sua cella.

Suo fratello Shehbaz è il cavallo su cui punta la Lega soprattutto in Punjab, la provincia ricca e più popolosa dove gli Sharif sono dei rais: Shahbaz è stato chief minister, guadagnandosi la fama di abile amministratore. Inutile dire che aveva un appoggio forte nel governo del fratello.
Imran Khan se la sta giocando da favorito ma sapendo bene che dalla sua roccaforte del Khyber Pakhtunkhwa muovere alla conquista delle altre province non è facile. In casa poi, gli gioca contro anche la rinascita della Muttahida Majlis–e–Amal, una coalizione di partiti islamisti di destra che ha già governato sia nel Khyber sia in Belucistan.
Di Imran si è detto molto, persino che fosse sponsorizzato dai militari che, stando a quanto si racconta nei circoli della Lega, avrebbero deciso di cambiare cavallo sciftando dalla destra degli Sharif verso un partito "nuovo" e paladino di legalità e buon governo ma che scarseggia di esperienza. C’è chi sostiene che alla fine, la potente macchina militare abbia preferito puntare ancora una volta sulla Lega e sulla dinastia che, nel tempo, si è dimostrata più solida. Senza il rischio di grandi scossoni.

Questo articolo è stato scritto per il sito dell'Atlante delle guerre










sabato 14 luglio 2018

Sangue alla viglia del voto pachistano

Due stragi nello stesso giorno con oltre 100 morti, l’ex premier arrestato all’aeroporto mentre
rientrava in patria, attentati contro i candidati. E’ il clima alla vigilia delle elezioni parlamentari in agenda per il 25 luglio in Pakistan tra meno di due settimane in una preoccupante escalation di violenza politica. Il primo attentato del venerdi di sangue è avvenuto ieri mattina a Bannu, nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa al confine con l’Afghanistan, con un attacco a un convoglio dell’ex chief minister Akram Khan Durrani del partito religioso Jamiat Ulema-e Islam (F). Se l’è cavata ma 4 persone sono state uccise (senza rivendicazione); oltre trenta i feriti. La strage maggiore è però arrivata più tardi in Belucistan, preceduta la notte prima da un attentato che aveva ferito due persone vicino all'ufficio del Balochistan Awami Party (Bap), nel mirino dei terroristi. Venerdi hanno colpito duro, causando un’esplosione in un luogo pubblico nel distretto baluci di Mastung: un bilancio provvisorio è di almeno 128 morti e 200 feriti. L’attacco suicida è stato rivendicato dallo Stato islamico.

Tra i morti c’è anche il leader politico Nawabzada Siraj Raisani, candidato di questo recente partito federalista nato da una costola della Pakistan Muslim League, a sua volta divisa in correnti, la cui fazione maggioritaria fa capo all’ex premier Nawaz Sharif, preso in custodia ieri al suo arrivo da Londra all’aeroporto di Lahore da agenti del National Accountability Bureau. Lo devono scortare in prigione dove Nawaz e sua figlia Maryam, con lui sul volo, dovranno scontare 10 e 7 anni di galera dopo la condanna per lo scandalo detto Panamagate (corruzione, appropriazione indebita e altri capi di imputazione). La Corte suprema aveva costretto Nawaz a dimettersi.
In questo clima politico infuocato che precede il voto, la violenza, sia terroristica, sia di forze anonime, si sta facendo sentire da settimane: il 10 luglio un kamikaze del Tehreek e Taleban Pakistan (Ttp o talebani pachistani) ha ucciso vicino a Peshawar il leader del partito secolarista Awami National Party, Haroon Bilour, con altre 19 persone (il Ttp aveva già ucciso il padre nel 2012). Il 7 luglio un candidato del Muttahida Majlis e Amal (Mma) è stato ferito con altri sempre a Bannu mentre gli inizi del mese hanno registrato un attacco al Pakistan Tehreek-i-Insaf (Pti) – partito dell’ex cricketer Imran Khan - nel Nord Wazirista (10 feriti).

martedì 24 aprile 2018

La terza via (di pace) afgana

Mentre continuano gli attentati ai centri di registrazione per il voto di ottobre, entra nel secondo mese la protesta di un movimento pacifista autoconvocato. In Afghanistan e in Pakistan.

Sarebbero ormai una sessantina i morti dell’ultimo attacco stragista rivendicato dallo Stato islamico che domenica, a Kabul, ha ucciso in un quartiere a maggioranza sciita chi si stava registrando per le elezioni che si terranno in ottobre. Lo stesso giorno, nella provincia di Baghlan, un altro attentato uccideva sei persone, sempre in un centro di registrazione per il voto. La notizia delle stragi, ormai pane quotidiano da che anche gli emuli del califfato operano nel Paese, non è che l’ennesimo boicottaggio di un processo elettorale cui credono davvero in pochi. La mancanza di sicurezza gioca sicuramente a sfavore, ma c’è altro. La gente non ci crede, dicono i giornali afgani indipendenti, e sta per altro trovando nuove vie per dimostrare cosa vuole veramente: né col governo, né coi talebani, né ingerenze esterne ma una tregua pur che sia, come chiede ormai da un mese un vasto movimento autoconvocato dal basso e che raccoglie – già in diverse province – il vero sostegno popolare di cui non gode né il governo, né la guerriglia, né le truppe di occupazione.

I dati della registrazione elettorale parlano chiaro: in dieci giorni si sono registrate poco più di 290mila persone, ossia un segmento irrisorio degli aventi diritto. E un quarto di loro sono kuchi, i nomadi afgani (pashtun ma non solo) che, proprio grazie al loro nomadismo che li tiene un po’ fuori dai giochi, sembrano sfuggire più dei residenti ad attentati, bombardamenti e bombe sulla strada. La gente insomma non va volentieri a registrarsi: nel Paese ci sono 1400 centri per farlo di cui 83 del resto sono chiusi (20 dei quali nella capitale). Andrà a votare?

Il movimento pacifista, nato dal basso dopo l’ennesima strage a Lashkargah, in una delle aree più conflittuali del Paese, si è allargato a macchia d’olio con sit in, manifestazioni, scioperi della fame e una proposta a governo e guerriglia (e dunque alle forze straniere): tregua subito senza ma o se. La cosa – come spiega bene unrapporto uscito ieri dal centro di ricerca afgano Afghanistan Analysts Network – ha messo in imbarazzo sia la guerriglia in turbante, sia il governo, latore di un piano di pace sempre snobbato dai talebani. Adesso che la richiesta di pace viene dal popolino – analfabeta, ignorante, povero e disarmato, vessato dalla guerra e unico vero pagatore degli effetti del conflitto – i combattenti della fede sono spiazzati tanto quanto la leadership di Kabul. Il governo tace e manda emissari più o meno dissimulati. I talebani han fatto prima il muso duro (accusando i manifestanti di essere eterodiretti) poi han scelto un imbarazzato silenzio.


Reazioni spontanee hanno cominciato a fiorire prima nella provincia di Helmand (Lashkargah è la capitale) poi nella vicina Kandahar. Poi in giro per il Paese in ben 16 province, come testimonia il resoconto del ricercatore afgano Ali Mohammad Sabawoon: sit in di appoggio alla protesta dei famigliari delle vittime di Lashkargah si contano a Herat, Nimruz, Farah, Zabul, Kandahar, Uruzgan, Ghazni, Paktia, Kunduz, Kunar, Nangrahar, Balkh, Parwan, Daykundi, Maidan Wardak e Jawzjan. La novità consiste proprio nella resistenza nel tempo della protesta pacifica e nell’assenza di una leadership: un moto spontaneo che potrebbe essere un’occasione eccezionale per tutti. Per lo stesso governo, i talebani e l’insipiente diplomazia internazionale, chiusa nelle sue ambasciate-fortino che ormai non rilasciano più visti agli afgani. Colpevoli di cercare la pace nei Paesi dei loro supposti alleati.

Il fatto interessante è che nel vicino Pakistan accade qualcosa di molto simile. Qui c’è un movimento pashtun strutturato - Pashtun Tahaffuz Movement – e una piattaforma pragmatica che ha visto domenica a Lahore migliaia e migliaia di pashtun criticare governo e militari il cui pugno di ferro anti terroristico colpisce indiscriminatamente. La manifestazione era vietata ma la polizia è rimasta immobile anche se il governo ha obbligato molti media a censurare la notizia della protesta che, per l’establisment militare, sarebbe – guarda caso – eterodiretta. Si ripeterà a breve a Karachi. La protesta ha molto in comune con quella oltre frontiera. E a Islamabad, come a Kabul, come nelle montagne dove si rifugiano talebani pachistani e afgani, l’imbarazzo è palpabile.