nel 2009 nei dintorni di Kunduz. Il tribunale ha stabilito che non c'è alcuna prova che l'ufficiale tedesco che chiese il sostegno di aerei da guerra per bombardare i dirottatori talebani di due autobotti di gasolio (ma a cui si stava rifornendo la popolazione civile locale) abbia violato le sue regole d'ingaggio. Secondo l'accusa, rappresentata da Karim Popal, un avvocato afghano - tedesco che rappresenta 79 delle vittime, quel fatto portò a una strage premeditata di almeno 137 persone, che ora chiedono i danni alla Germania. Ma per il ministero della difesa tedesco il colonnello Georg Klein, che chiese il sostegno aereo, ha risposto a ordini impartiti nell'ambito della missione Nato in Afghanistan e non agiva dunque esclusivamente per conto di Berlino. Insomma la Germania si gira dall'altra parte e sottoscrive in un certo senso che non vi fu nessun colpevole: né la Nato, né i singoli piloti, tantomeno chi chiese aiuto dall'aria. Gli afgani si rivolgessero alla ruota infame del loro destino.
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giovedì 12 dicembre 2013
STRAGE DI KUNDUZ (2009): NESSUN COLPEVOLE
nel 2009 nei dintorni di Kunduz. Il tribunale ha stabilito che non c'è alcuna prova che l'ufficiale tedesco che chiese il sostegno di aerei da guerra per bombardare i dirottatori talebani di due autobotti di gasolio (ma a cui si stava rifornendo la popolazione civile locale) abbia violato le sue regole d'ingaggio. Secondo l'accusa, rappresentata da Karim Popal, un avvocato afghano - tedesco che rappresenta 79 delle vittime, quel fatto portò a una strage premeditata di almeno 137 persone, che ora chiedono i danni alla Germania. Ma per il ministero della difesa tedesco il colonnello Georg Klein, che chiese il sostegno aereo, ha risposto a ordini impartiti nell'ambito della missione Nato in Afghanistan e non agiva dunque esclusivamente per conto di Berlino. Insomma la Germania si gira dall'altra parte e sottoscrive in un certo senso che non vi fu nessun colpevole: né la Nato, né i singoli piloti, tantomeno chi chiese aiuto dall'aria. Gli afgani si rivolgessero alla ruota infame del loro destino.
martedì 15 novembre 2011
LA VIGILIA DELLA LOYA JIRGA
Il conto alla rovescia per la Conferenza di Bonn del 5 dicembre, a dieci anni da quella che nel 2011 sancì la nascita del “nuovo Afghanistan” di Karzai, è cominciato. Ma la tappa intermedia è già domani, quando 2030 delegati da 34 province si riuniranno nella Loya Jirga (Grande Assemblea), dove il protagonista sarà ancora Karzai. In vista di questi due appuntamenti, che seguono a ruota l'incontro di Istanbul organizzato da Ankara e Kabul all'inizio di novembre per disegnare un quadro di cooperazione regionale, tutti stanno (è il caso di dirlo) affilando le armi. Più o meno pacificamente.
In vista di Bonn lancia un appello una vasta coalizione di Ong e associazioni della società civile (tra cui l'italiana “Afgana”) che fanno capo alla rete dell'European Networkof NGO's in Afghanistan (Enna), preoccupata che “Bonn2”, come viene chiamata, si risolva in una passerella di buone intenzioni col compito di coprire il “tutti a casa” deciso dalla comunità internazionale che, oltre ai soldati, potrebbe ritirarsi definitivamente lasciando nel Paese solo i cocci di dieci anni il cui bilancio è più un fallimento che un successo. I talebani, in vista della Jirga del 16 novembre, hanno invece minacciato i partecipanti, considerati “traditori” e, per prendersi beffe di Karzai, ieri hanno fatto sapere di avere in mano la “mappa della sicurezza” dell'Assemblea.
Il governo ha respinto al mittente ma la guardia resta alta. anche perché all'ultima Jirga un paio di razzi avevano raggiunto la kermesse facendosi beffe di soldati e poliziotti. Quel che più preoccupa però è il vuoto politico che circonda quella che, ancora prima di Bonn, appare, più che un esercizio di democrazia “tribale” (le jirga è il luogo tradizionale del confronto) una passerella a uso e consumo del presidente che ha sentito l'obbligo di chiarire, giocando su un'interpretazione univoca del significato di jirga, che si tratta di un momento “consultivo”: consigli al governo che poi deciderà. La decisione finale in realtà è già presa, ma Karzai cerca un avallo al piano di cooperazione strategica con gli Stati Uniti, già santificato in diverse conferenze, che fissa al 2014 il termine per la transizione dei poteri e un appoggio indefinito degli americani che, non è chiaro in quale forma, resteranno. Aspetto controverso, perché il parlamento ha già criticato l'accordo tra il governo e la Nato, sostenendo che viola la sovranità nazionale. Infine l'altro argomento riguarda il processo di pace, su cui però non esiste nemmeno da parte di Karzai una linea chiara. Chissà se emergerà nei quattro giorni di discussione.
La Jirga rischia insomma di essere un fallimento: in parlamento Karzai è senza maggioranza e la società civile afgana, attraverso le sue diverse reti e associazioni, teme, al solito, che la jirga bypassi le sue richieste facendosi beffe dei pochi diritti faticosamente acquisiti (specie per le donne) e limitandosi a decidere quanto già deciso.
Il ruolo della società civile, in Afghanistan e durante Bonn, è il focus del documento delle Ong europee che temono il solito meccanismo di esclusione e orecchie da mercante sui timori che siano ignorate le richieste che vengano dal basso. A Bonn, come nella jirga, il rischio è che tutto sia deciso al chiuso di quattro pareti, senza meccanismi di verifica e senza che venga dato ascolto a chi in Afghanistan dovrebbe contare di più: i cittadini. Ma la richiesta più interessante di Enna riguarda il processo di pace: Bonn, dice il documento, dovrebbe indicare in che termini debba agire un mediatore di alto profilo. Proprio quello che manca a un negoziato di cui non si sa molto. E che, senza una figura terza riconosciuta dalle parti (compresa la società civile afgana), rischia di non andare da nessuna parte.

Il governo ha respinto al mittente ma la guardia resta alta. anche perché all'ultima Jirga un paio di razzi avevano raggiunto la kermesse facendosi beffe di soldati e poliziotti. Quel che più preoccupa però è il vuoto politico che circonda quella che, ancora prima di Bonn, appare, più che un esercizio di democrazia “tribale” (le jirga è il luogo tradizionale del confronto) una passerella a uso e consumo del presidente che ha sentito l'obbligo di chiarire, giocando su un'interpretazione univoca del significato di jirga, che si tratta di un momento “consultivo”: consigli al governo che poi deciderà. La decisione finale in realtà è già presa, ma Karzai cerca un avallo al piano di cooperazione strategica con gli Stati Uniti, già santificato in diverse conferenze, che fissa al 2014 il termine per la transizione dei poteri e un appoggio indefinito degli americani che, non è chiaro in quale forma, resteranno. Aspetto controverso, perché il parlamento ha già criticato l'accordo tra il governo e la Nato, sostenendo che viola la sovranità nazionale. Infine l'altro argomento riguarda il processo di pace, su cui però non esiste nemmeno da parte di Karzai una linea chiara. Chissà se emergerà nei quattro giorni di discussione.
La Jirga rischia insomma di essere un fallimento: in parlamento Karzai è senza maggioranza e la società civile afgana, attraverso le sue diverse reti e associazioni, teme, al solito, che la jirga bypassi le sue richieste facendosi beffe dei pochi diritti faticosamente acquisiti (specie per le donne) e limitandosi a decidere quanto già deciso.
Il ruolo della società civile, in Afghanistan e durante Bonn, è il focus del documento delle Ong europee che temono il solito meccanismo di esclusione e orecchie da mercante sui timori che siano ignorate le richieste che vengano dal basso. A Bonn, come nella jirga, il rischio è che tutto sia deciso al chiuso di quattro pareti, senza meccanismi di verifica e senza che venga dato ascolto a chi in Afghanistan dovrebbe contare di più: i cittadini. Ma la richiesta più interessante di Enna riguarda il processo di pace: Bonn, dice il documento, dovrebbe indicare in che termini debba agire un mediatore di alto profilo. Proprio quello che manca a un negoziato di cui non si sa molto. E che, senza una figura terza riconosciuta dalle parti (compresa la società civile afgana), rischia di non andare da nessuna parte.
mercoledì 24 agosto 2011
RESTEREMO SINO AL 2024?
Gli americani non lasceranno l'Afghanistan prima del 2024. Quanti resteranno dopo il 2014, la data teoricamente fissata per il ritiro, ancora non è chiaro né lo sarà a breve. Ma, stando a un'indiscrezione del Daily Telegraph, in qualche modo confermata dal ministro degli Esteri afgano Spanta, un accordo sarebbe già sotto traccia per garantire al traballante governo di Hamid Karzai di stare in piedi oltre quella data. Dovrebbe essere presentato e avallato nella Conferenza di Bonn che si terrà a fine anno in Germania, a dieci anni dallo storico summit che disegnò il nuovo Afghanistan nato dalle ceneri dell'invasione del 2001.
A quanto pare sarebbero le Forze speciali la truppa d'élite che rimarrebbe in Afghanistan con compiti ancora non chiari, al netto di un battaglione di agenti dei servizi che, com'è noto, non sono mai inclusi negli accordi alla luce del sole. Dunque Bonn potrebbe segnare, come già la Conferenza di Kabul l'anno scorso, un nuovo paletto. Spostando la data del ritiro dal 2014 al 2024. Resteremo anche noi per altri 12 anni?
Frattini è stato laconico. Si è parlato di un inizio del ritiro delle truppe italiane nel 2012 ed è stata ventilata una riconsegna agli afgani dell'area sotto nostro controllo entro il 2014. Ma è legittimo immaginare che, se le indiscrezioni del Telegraph fanno senso, anche l'Italia stia pensando a una presenza in Afghanistan che potrebbe protrarsi oltre quella data. O no? Se si, con quali compiti? Addestramento o contro insurrezione? Per ora la preoccupazione maggiore sembra quella di tenere in piedi il traballante governo di Karzai finché non sarà più chiaro il destino del Paese. Ma presupporre una presenza militare sino al 2024 significa anche immaginare che non esista una soluzione pacifica in vista. Che può essere garantita, ancorché a scalare, da una dipartita definitiva delle truppe straniere presenti sul suolo afgana. Precondizione dei talebani - sarà bene ricordarlo - per avviare una seria trattativa con Kabul.
Se Bonn dovesse sancire che soldati americani e Nato resteranno in Afghanistan per altri 12 anni anziché per due, le cose si faranno più complicate. Può darsi che le vittorie libiche abbiano ringalluzzito i comandi militari ma non dovrebbero fuorviare gli orientamenti politici che saggiamente avevano fissato a una data più ravvicinata il ritiro delle truppe. Sarebbe semmai opportuno prevedere, più che un presidio senza fine degli eserciti attuali, la formazione di una missione internazionale di peacekeeping largamente condivisa con truppe che comprendano il maggior numero di Paesi: missione con mandato Onu, Ue, della Lega araba e della Organizzazione della conferenza islamica e chi più ne ha ne metta: sarebbe, oltre che una garanzia per gli afgani che temono un ritorno dell'oscurantismo, una proposta difficilmente contestabile dagli stessi talebani. Ma Bonn non sembra orientata in questa direzione. L'Italia nemmeno. E il successo della Nato in Libia rischia di farci credere che tutto sommato si può andare avanti così. Dimenticando troppo rapidamente un decennio di gestione fallimentare in quel Paese.
anche su Terra
A quanto pare sarebbero le Forze speciali la truppa d'élite che rimarrebbe in Afghanistan con compiti ancora non chiari, al netto di un battaglione di agenti dei servizi che, com'è noto, non sono mai inclusi negli accordi alla luce del sole. Dunque Bonn potrebbe segnare, come già la Conferenza di Kabul l'anno scorso, un nuovo paletto. Spostando la data del ritiro dal 2014 al 2024. Resteremo anche noi per altri 12 anni?
Frattini è stato laconico. Si è parlato di un inizio del ritiro delle truppe italiane nel 2012 ed è stata ventilata una riconsegna agli afgani dell'area sotto nostro controllo entro il 2014. Ma è legittimo immaginare che, se le indiscrezioni del Telegraph fanno senso, anche l'Italia stia pensando a una presenza in Afghanistan che potrebbe protrarsi oltre quella data. O no? Se si, con quali compiti? Addestramento o contro insurrezione? Per ora la preoccupazione maggiore sembra quella di tenere in piedi il traballante governo di Karzai finché non sarà più chiaro il destino del Paese. Ma presupporre una presenza militare sino al 2024 significa anche immaginare che non esista una soluzione pacifica in vista. Che può essere garantita, ancorché a scalare, da una dipartita definitiva delle truppe straniere presenti sul suolo afgana. Precondizione dei talebani - sarà bene ricordarlo - per avviare una seria trattativa con Kabul.
Se Bonn dovesse sancire che soldati americani e Nato resteranno in Afghanistan per altri 12 anni anziché per due, le cose si faranno più complicate. Può darsi che le vittorie libiche abbiano ringalluzzito i comandi militari ma non dovrebbero fuorviare gli orientamenti politici che saggiamente avevano fissato a una data più ravvicinata il ritiro delle truppe. Sarebbe semmai opportuno prevedere, più che un presidio senza fine degli eserciti attuali, la formazione di una missione internazionale di peacekeeping largamente condivisa con truppe che comprendano il maggior numero di Paesi: missione con mandato Onu, Ue, della Lega araba e della Organizzazione della conferenza islamica e chi più ne ha ne metta: sarebbe, oltre che una garanzia per gli afgani che temono un ritorno dell'oscurantismo, una proposta difficilmente contestabile dagli stessi talebani. Ma Bonn non sembra orientata in questa direzione. L'Italia nemmeno. E il successo della Nato in Libia rischia di farci credere che tutto sommato si può andare avanti così. Dimenticando troppo rapidamente un decennio di gestione fallimentare in quel Paese.
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