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giovedì 3 ottobre 2024

Il nostro ricordo di Gianni Rufini tre anni dopo


 
Amnesty International, ActionAid e Oxfam, in collaborazione con Medici Senza Frontiere, sono lieti di invitarti all’evento “Dialoghi su pace e diritti. Giornata in ricordo di Gianni Rufini” che si tiene domani a Roma venerdì 4 ottobre 2024, dalle ore 9.30 alle 17.30, allo Spazio Europa in via Quattro Novembre 149.

Una giornata ricca di spunti di riflessione e confronto sui temi delle guerre, delle crisi umanitarie e dei diritti delle persone migranti, argomenti che Gianni Rufini ha sempre sostenuto con passione e impegno. Per Lettera22 partecipiamo io e Paola Caridi
L’evento si concluderà con la consegna del “Premio Gianni Rufini per l’attivismo sui diritti umani,” conferito da Patrick Zaki.
Per accreditarti sarà sufficie

domenica 10 marzo 2024

Un'intervista col Gotha politico di Timor Est


“Siamo un piccolo Paese ma nel 2025 entreremo nell’Asean. Possiamo forse dare poco ma credo nell’importanza di essere dentro un contesto regionale attivo”. Xanana Gusmao, il “Che Guevara dell’Asia”, ci riceve in una saletta del Palazzo del Governo di Timor Est, un edifico bianco latte affacciato sul lungomare di Dili. Lo porta bene il peso degli anni questo signore che ne ha 78 e che ha sempre avuto una sua eleganza anche quando era in mimetica, la barba incolta, un sorriso empatico che ha conservato anche se ora ha un completo blu e una cravatta con un nodo perfetto. Gusmao non è stato solo uno dei protagonisti della Liberazione di Timor Est, con Ramos Horta, Mari Alkatiri, il vescovo Ximenes Belo. 

E’ stato anche l’uomo di una svolta moderata quando ha lasciato il Fronte di liberazione Fretilin per fondare un suo partito. Che alle ultime elezioni lo ha potuto consacrare premier. E’ stato combattente, mediatore, presidente, primo ministro. Protagonista della lotta all’Indonesia, Paese occupante, ma anche della lotta interna ai rivoluzionari che lo accusano di aver cambiato bandiera.

Il "Che" dell'Asia sudorientale

Pragmatico come sempre, ora deve far entrare il suo Paese nell’Associazione regionale del Sudest asiatico, un salto che farà di Timor Est l’11 Paese membro. Strada in salita. Su cui, prima di essere invitato al summit Asean di Giacarta del settembre scorso, ha lanciato una bomba che molti non gli hanno perdonato: “Nell’Asean non entriamo se non si risolve il dossier Myanmar”, dice Xanana nell’agosto 2023. Otto mesi fa. E adesso? “Fu un’affermazione in un momento che mi vedeva molto contrariato dall’espulsione dal Myanmar dei nostri diplomatici. Ne temevo gli effetti ma poi, nelle mie conversazioni con gli altri governi, ho percepito, e non solo coi Paesi Asean ma anche con Cina, Giappone o Stati Uniti, la stessa volontà di cambiamento: restituire la democrazia ai birmani”. Una guerra poco raccontata nascosta da altre sotto i riflettori. Ma, dice, senza le parole necessarie a spegnerle: “Quel che mi colpisce dei conflitti a Gaza o in Ucraina è il silenzio. E l’incapacità di chi potrebbe avere la leadership di impegnarsi veramente per il dialogo. Eppoi c’è questo senso di impotenza, perché noi siamo piccoli anche se sappiamo bene cosa significa la sofferenza della guerra. Se parliamo, chi ci sta a sentire? Chi potrebbe far sentire la sua voce invece, preferisce tacere e vendere armi. C’è bisogno di cambiare atteggiamento e ci vuole anche una riforma delle Nazioni Unite”.

E’ un tema che gli sta a cuore e di cui ha già parlato. Alla 69ma Assemblea generale Onu (2014) per esempio, aveva ricordato che le democrazie occidentali “che si dicono scioccate dalle violazioni dei diritti umani nei Paesi in via di sviluppo” sono le stesse che “hanno venduto armi sofisticate all’Indonesia”. Un Paese con cui Timor Est ha chiuso i conti e che adesso è il maggior sponsor di Dili per l’ingresso nell’Asean. Mentre ci lasciamo, un’ultima battuta: “La chiamavamo il Che dell’Asia. Cosa le resta dentro di quel mito?

“Resta l’impegno che è la forza che ci fa andare avanti e imparare dagli errori. Col Fretilin commettemmo l’errore di essere chiusi, un partito marxista leninista maoista per cui se non eri con noi eri fuori. Ci siamo anche uccisi tra di noi. Poi negli anni Ottanta abbiamo capito che dovevamo aprire: sei per l’indipendenza? Allora siamo insieme. Prima, chi non era del Fretilin era semplicemente un nemico”.

L'opinione di Mari Alkatiri

Il Paese oggi nemici non ne ha ma ha le sue difficoltà. E’ piccolo, non ha un milione e mezzo di abitanti, la scolarità è diffusa ma manca un’istruzione di livello. Ha oro nero ma si esaurirà e i detrattori, che guardano a un bilancio dello Stato che per il 70% viene dal comparto gas-petrolio, accusano Timor di una politica di sussidi – oltre il 40% del budget - che non incentiva l’imprenditoria. Eppoi la crisi politica che si trascina proprio col Fretilin, di cui Ramos Horta era stato tra i fondatori. Assieme a Mari 

Alkatiri. Alkatiri è un uomo di poche parole. Apparentemente freddo. Ci riceve nel suo ufficio di ex primo ministro. E’ l’uomo degli inizi, premier del primo governo dopo il referendum del 2022, l’uomo che tratta con gli australiani per difendere il petrolio di Timor e che fa di Oecussi – l’exclave in territorio indonesiano – un piccolo paradiso, come in tanti gli riconoscono. Poi, dopo le oscure vicende del 2006 – rivolta e violenze che fanno intervenire una coalizione internazionale - perde il premierato. In seguito, il Fretilin - di cui è segretario - sconta un'emorragia di voti.

Cosa rimprovera a Xanana? “Incompetenza, un bilancio incomprensibile, la relazione con un'opposizione “costruttiva” – che il Fretilin gli ha offerto – e che per il governo significa dire sempre sì, pressioni sulla magistratura... Xanana non è un manager. E’ rimasto un comandante. Che si regge su una coalizione che pensa solo a interessi di parte”. Il dialogo è impossibile? “Vorrei dire che lo è, ma non posso. Ragionano emotivamente, non razionalmente e non hanno un’idea-Paese. Io credo a un governo che sappia ascoltare, inclusivo. Questo non lo è”. Su una cosa c’è accordo: l’ingresso nell’Asean, un’arena “dove dobbiamo far sentire la nostra voce”.

Cammino in salita

Al cronista cresciuto nel mito della rivoluzione timorese, che oggi si chiama solo liberazione, è difficile fare il punto. Eppure questo piccolo Paese è riuscito a passare dalla lotta armata a una transizione pacifica. E’ riuscito a chiudere col passato. Oggi gli indonesiani, che invasero l’isola nel 1975 con violenze e stragi, sono amici. Il presidente Horta si è appena congratulato con Prabowo Subianto, il nuovo Capo di Stato indonesiano che negli anni Ottanta comandava i berretti verdi degli invasori. Quella generazione – gli Xanana, gli Alkatiri – ha creato un modello che ha poi trasferito nel G7plus, un’organizzazione intergovernativa di 20 nazioni con sede a Dili che fa da piattaforma ai Paesi colpiti da conflitti sulla base di un dialogo nazionale che superi la guerra. Velleitario? Forse, ma è l’espressione di un patrimonio abbastanza unico e che continua a indicare che c’è un’altra via che non la guerra. Quanto alla vecchia generazione, forse dovrebbe lasciare il passo a leader che al momento non ci sono. Anche per quelle presenze ingombranti e litigiose?

Il punto con Roque Rodrigues

Che Gusmao e Alkatiri non vadano d’accordo non è una novità. Chiediamo a Roque Rodrigues, un timorese della stessa generazione - che si definisce ancora un ”combattente” e ha ricoperto ruoli ufficiali importanti - se non vi sia anche uno scontro tra personalità. “Può essere – dice allargando le braccia – perché sono due personaggi di grande carisma. Se hanno un difetto è che non riescono a dialogare. Anche perché sono attorniati da persone che soffiano sul fuoco: per gli uni Xanana è un diavolo. Per gli altri, Mari è legato ad Al Qaeda… perché – ride - Alkatiri è di origine yemenita”. Ma anche sulla sua generazione ha qualcosa da aggiungere: “Noi anziani siamo stati importanti. Ma adesso, per un giovane di Timor, alcune parole non hanno più lo stesso senso che avevano per noi. A noi il nome Prabowo Subianto dice qualcosa. Loro ci vedono solo quello che gli propone Tik Tok”.


Questo articolo è uscito anche su ilmanifesto  atlanteguerree Lettera22

giovedì 15 febbraio 2024

L'oscuro passato del futuro presidente dell'Indonesia

Se le proiezioni di queste ore saranno confermate dai dati ufficiali come pare certo, è ormai davvero certo che a governare le 17mila isole indonesiane sarà Prabowo Subianto. Un uomo che ha saputo riciclarsi con abilità attraversando stagioni molto diverse. L'ultima delle quali quella del gemoy, il nonno "carino" che evidentemente è piaciuto a giovani e meno giovani che costituivano oltre il 55% dell'elettorato tra Generazione Z e Millennial 


Kupang - Prabowo Subianto Djojohadikusumo, classe 1951, tanto per cominciare viene da una famiglia ricca giavanese e da un giro di imprenditori amici del generale Suharto, un dittatore durato 32 anni. Il giovane Prabowo frequenta Jalan Cendana dove Suharto vive con la famiglia e dove corteggia Titiek, la secondogenita del rais. E’ nel giro che conta e nel maggio 1983 si sposano. Divorzieranno nel 1998, anno della caduta politica del padre. 

All’epoca Prabowo era un ufficiale dell’esercito che farà poi carriera in un corpo d'élite, le forze speciali Kopassus. A loro tocca tra il 1976 e il 1998 combattere la resistenza al governo centrale nell’Irian Jaya (Papua) ma soprattutto a Timor Est, la riottosa ex colonia lusitana che Suharto ha invaso dopo la Rivoluzione dei garofani portoghese che le aveva concesso la libertà. Si guadagna sul campo le stellette da generale. Poi, nel 1998 Suharto lo promuove alla Kostrad, la riserva strategica di cui lui stesso era stato il primo comandante all’epoca della repressione anticomunista (1965-66). 

Sono gli ultimi colpi di un vecchio dittatore ormai in coma che nel maggio di quell’anno si dimette. In quel periodo i generali giocano un ruolo chiave e saranno loro a scaricare il loro mentore. Prabowo cerca di ricavarne un guadagno ma lo batte in abilità una vecchia volpe, il potente generale Wiranto. Un ufficiale che condivide con lui una divisa piena di macchie.

Quando in un’intervista del 2014 ad Al Jazeera gli si chiede conto di attivisti anti Suharto scomparsi, Prabowo se ne fa scudo e risponde tranquillo che si, era roba sua ma erano “ordini superiori”. Ma intanto è in disgrazia. Viene esautorato dal ruolo militare e va in esilio in Giordania. Forse avrebbe preferito gli Usa che però lo avevano messo al bando (levato nel 2020) per il suo passato. Tornato dall’esilio pian piano si ripulisce. L’ultimo ritocco è merito di Jokowi.

mercoledì 24 agosto 2011

RESTEREMO SINO AL 2024?

Gli americani non lasceranno l'Afghanistan prima del 2024. Quanti resteranno dopo il 2014, la data teoricamente fissata per il ritiro, ancora non è chiaro né lo sarà a breve. Ma, stando a un'indiscrezione del Daily Telegraph, in qualche modo confermata dal ministro degli Esteri afgano Spanta, un accordo sarebbe già sotto traccia per garantire al traballante governo di Hamid Karzai di stare in piedi oltre quella data. Dovrebbe essere presentato e avallato nella Conferenza di Bonn che si terrà a fine anno in Germania, a dieci anni dallo storico summit che disegnò il nuovo Afghanistan nato dalle ceneri dell'invasione del 2001.

A quanto pare sarebbero le Forze speciali la truppa d'élite che rimarrebbe in Afghanistan con compiti ancora non chiari, al netto di un battaglione di agenti dei servizi che, com'è noto, non sono mai inclusi negli accordi alla luce del sole. Dunque Bonn potrebbe segnare, come già la Conferenza di Kabul l'anno scorso, un nuovo paletto. Spostando la data del ritiro dal 2014 al 2024. Resteremo anche noi per altri 12 anni?

Frattini è stato laconico. Si è parlato di un inizio del ritiro delle truppe italiane nel 2012 ed è stata ventilata una riconsegna agli afgani dell'area sotto nostro controllo entro il 2014. Ma è legittimo immaginare che, se le indiscrezioni del Telegraph fanno senso, anche l'Italia stia pensando a una presenza in Afghanistan che potrebbe protrarsi oltre quella data. O no? Se si, con quali compiti? Addestramento o contro insurrezione? Per ora la preoccupazione maggiore sembra quella di tenere in piedi il traballante governo di Karzai finché non sarà più chiaro il destino del Paese. Ma presupporre una presenza militare sino al 2024 significa anche immaginare che non esista una soluzione pacifica in vista. Che può essere garantita, ancorché a scalare, da una dipartita definitiva delle truppe straniere presenti sul suolo afgana. Precondizione dei talebani - sarà bene ricordarlo - per avviare una seria trattativa con Kabul.

Se Bonn dovesse sancire che soldati americani e Nato resteranno in Afghanistan per altri 12 anni anziché per due, le cose si faranno più complicate. Può darsi che le vittorie libiche abbiano ringalluzzito i comandi militari ma non dovrebbero fuorviare gli orientamenti politici che saggiamente avevano fissato a una data più ravvicinata il ritiro delle truppe. Sarebbe semmai opportuno prevedere, più che un presidio senza fine degli eserciti attuali, la formazione di una missione internazionale di peacekeeping largamente condivisa con truppe che comprendano il maggior numero di Paesi: missione con mandato Onu, Ue, della Lega araba e della Organizzazione della conferenza islamica e chi più ne ha ne metta: sarebbe, oltre che una garanzia per gli afgani che temono un ritorno dell'oscurantismo, una proposta difficilmente contestabile dagli stessi talebani. Ma Bonn non sembra orientata in questa direzione. L'Italia nemmeno. E il successo della Nato in Libia rischia di farci credere che tutto sommato si può andare avanti così. Dimenticando troppo rapidamente un decennio di gestione fallimentare in quel Paese.

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