Qualche giorno fa abbiamo dato conto dell'intervento di Elizabeth Winter al convegno internazionale di studi sulla società civile afgana che si è tenuto ad Herat il 6 giugno, organizzato dalla rete Afgana. Al suo – che era per lo più un contributo teoretico - ne sono seguiti diversi altri tra cui quello di Giuliano Battiston, che di Afgana fa parte sin dall'inizio e per la quale ha già realizzato una ricerca precedente sulla percezione che gli afgani hanno del concetto di società civile.
Anche questa volta, benché il tema fosse altro e riguardasse aspettative e speranze ma anche la coscienza del proprio passato, Battiston ha cercato di riferire il punto di vista degli afgani o di quella che definiamo società civile afgana*. Cercheremo qui di riassumerne il focus essenziale prendendo spunto dal suo intervento pubblico a Herat. Il suo personale punto di vista Battiston invece lo ha sottolineato molto brevemente e riguarda la cornice attuale: per noi – dice il ricercatore di Afgana- la transizione rappresenta una grande occasione per introdurre più voci afgane nel processo di decisione politica, assenza che gli afgani per primi lamentano.
Dalla sua ricerca sembra infatti emergere e dominare una senso di sfiducia generale. Che non impedisce la speranza – dice Battiston – ma che rende gli afgani piuttosto disillusi: verso il governo, la comunità internazionale, i talebani. I primi due non sembrano in realtà metterci tutto l'impegno che la transizione e il processo di riconciliazione richiederebbero: agli afgani sembrano sbagliati gli strumenti e gli attori messi in campo dal governo che utilizza un approccio inappropriato e inefficace. Un approccio da “bazar” dove ognuno negozia la sua convenienza personale, ossia la sua agenda particolare e non quella del paese. Discorso in cui rientrano a pieno titolo anche i talebani, sulle cui mosse grava l'ombra e di agenti esterni che ne manipolano i piani. Infine questo mercato è lontano dagli sguardi della gente, è chiuso verso l'opinione pubblica. E' un mercato dove si negozia in segreto e che agli afgani intervistati non sembra dare frutti: ne emerge una figura del popolo afgano che lo disegna come molto cosciente sia della propria identità nazionale sia della scarsa trasparenza dei protagonisti attuali che di coscienza nazionale (intesa come interesse pubblico) non sembrano proprio averne. Così alla maggioranza degli intervistati i processi di reintegrazione e riconciliazione sembrano importanti e fondamentali ma anche inefficaci perché strumentalizzati politicamente dalle varie parti in gioco: il governo per farsi bello dei successi, i talebani approfittandone per fare cassa.
La sfiducia sembra generalizzata su più fronti. Dalla ricerca emerge un evidente timore delle agende di Iran e Pakistan e dunque la fiducia negli americani si brucia nel momento in cui si constata la loro scarsa pressione su Islamabad. Anche i talebani finiscono schiacciati dal peso del Paese dei puri. La ricerca, durata 4 mesi e condotta in 7 province, sembra raccontarci un Paese molto diverso da quello che conosciamo. Certamente Battiston tiene conto e riferisce di colloqui con un'intellighenzia ormai diffusa quanto ineludibile che forse non rappresenta tutto il paese nella sua complessità. Ma che sicuramente ne rappresenta la faccia più attenta e più impegnata civilmente (la società civile organizzata) tanto da restituirci, attraverso le tante testimonianze, un Paese che affronta il suo futuro con lucidità e con le idee chiare.
La pace ad esempio. Ci vuole - dicono gli afgani - un doppio approccio: un processo di pace condotto dall'alto e uno condotto dal basso, una “social peace” che renda effettiva la “poltical peace” delle istituzioni. Ma c'è anche la coscienza che troppi problemi irrisolti, specie se riguardano crimini passati e impunità, lasceranno una pessima eredità sul futuro di un Paese dove la vera pace non si potrà ottenere senza coniugarla alla giustizia. E qui torna la sfiducia. Si riuscirà a conciliare pace e giustizia? La maggioranza giudica questa opzione “irrealistica”.
* “La società civile afghana: pace, giustizia e aspettative per il post-2014” è il titolo della ricerca di Battiston alla conferenza internazionale “Società civile afgana in transizione: ruolo, prospettive, sfide, opportunità”cui hanno partecipato tra gli altri Mirwais Wardak (Afghanistan: PRTO, Peace Training and Research Organization) Elizabeth Winter (Regno Unito: LSE, London School of Economics), Fhiam Akim (AIhrc)
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giovedì 13 giugno 2013
giovedì 6 giugno 2013
SOCIETA' CIVILE, ALLA RICERCA DI UNA DEFINIZIONE
La società civile in Afghanistan è un'invenzione occidentale? La domanda arriva diretta e tagliente. La fa Elizabeth Winter, una veterana della ricerca sulla società civile in Afghanistan, al convegno internazionale promosso dalla rete Afgana a Herat (“Afghani civil society in Transition: role, opportunities, challenges and expectations”) conclusosi oggi nella città afgana. Il provocatorio quesito che fa da titolo al suo intervento viene rivolto dalla ricercatrice un'attenta platea, per quasi metà composta da donne, in un'aula della facoltà di agraria. C'è un attimo di gelo pur nella temperatura torrida, poi alzano la mano in due: una giovane studentessa e un non più giovanissimo signore.
Winter cerca innanzi tutto di comporre una “definizione operativa” - dice – visto che ognuno usa questo termine un po' come gli pare. E dice che una definizione accettabile potrebbe indicare “individui e attori collettivi volontari, favorevoli a una crescita e sviluppo sociali della società che non ne comprometta la dignità. Insiste su due punti: la dignità e il fatto che società civile è anche l'individuo, non solo il gruppo associativo dunque. Ci deve essere – aggiunge – la componente non profit e quella culturale e l'articolazione in campagna e attività di sostegno a battaglie per i diritti. Ne fan parte a pieno titolo le Ong certamente, ma anche le associazioni culturali e professionali, quelle delle donne, sindacati, coalizioni e reti, imprenditori. E ritorna poi sull'elemento individuale: le persone singole, dice, sono il popolo.
La Winter alla fine non crede che la società civile sia un'invenzione occidentale: esisteva già prima in Afghanistan e utilizza valori condivisi anche dall'Islam, non è dunque in contraddizione e non è un'imposizione La società civile ha la sua ragion d'essere nei “valori umani”, quindi trasversali quindi impossibili da monopolizzare dall'Occidente o da chicchessia.
Convincente e preparata la Winter ha preparato anche una serie di “raccomandazioni” che ha però rimandato alla parte scritta del suo intervento che verrà data alle stampe con gli atti.
Fin qui la cronaca...
Un paio di punti mi lasciano perplesso: l'inclusione degli imprenditori che, per loro stessa natura, sono profit e che dunque mi paiono attori in contraddizione col concetto di volontariato. Certo possono essere solidali, ci mancherebbe, e soprattutto possono finanziare campagne e associazioni a fin di bene. Ma sugli imprenditori non può non gravare il sospetto che dietro ogni buona azione ci sia un obiettivo personale, di profitto. Se una campagna andasse contro i loro interessi non la finanzierebbero o smetterebbero di appoggiarla. Ciò li rende, mi pare un po' spurii. Quanto agli individui singoli, li si può certo includere nella società civile ma con qualche distinguo. L'individuo singolo non può mai fare molto e l'insieme dei singoli (popolo) può fare opinione ma non va oltre quella che è appunto l' “opinione pubblica”. La differenza a mio avviso la fa l'organizzazione. Quando il singolo membro della società civile cioè si associa con un altro. Punti di vista.
Per saperne di piu', il pezzo di A. Depascale su Il Punto
Winter cerca innanzi tutto di comporre una “definizione operativa” - dice – visto che ognuno usa questo termine un po' come gli pare. E dice che una definizione accettabile potrebbe indicare “individui e attori collettivi volontari, favorevoli a una crescita e sviluppo sociali della società che non ne comprometta la dignità. Insiste su due punti: la dignità e il fatto che società civile è anche l'individuo, non solo il gruppo associativo dunque. Ci deve essere – aggiunge – la componente non profit e quella culturale e l'articolazione in campagna e attività di sostegno a battaglie per i diritti. Ne fan parte a pieno titolo le Ong certamente, ma anche le associazioni culturali e professionali, quelle delle donne, sindacati, coalizioni e reti, imprenditori. E ritorna poi sull'elemento individuale: le persone singole, dice, sono il popolo.
La Winter alla fine non crede che la società civile sia un'invenzione occidentale: esisteva già prima in Afghanistan e utilizza valori condivisi anche dall'Islam, non è dunque in contraddizione e non è un'imposizione La società civile ha la sua ragion d'essere nei “valori umani”, quindi trasversali quindi impossibili da monopolizzare dall'Occidente o da chicchessia.
Convincente e preparata la Winter ha preparato anche una serie di “raccomandazioni” che ha però rimandato alla parte scritta del suo intervento che verrà data alle stampe con gli atti.
Fin qui la cronaca...
Un paio di punti mi lasciano perplesso: l'inclusione degli imprenditori che, per loro stessa natura, sono profit e che dunque mi paiono attori in contraddizione col concetto di volontariato. Certo possono essere solidali, ci mancherebbe, e soprattutto possono finanziare campagne e associazioni a fin di bene. Ma sugli imprenditori non può non gravare il sospetto che dietro ogni buona azione ci sia un obiettivo personale, di profitto. Se una campagna andasse contro i loro interessi non la finanzierebbero o smetterebbero di appoggiarla. Ciò li rende, mi pare un po' spurii. Quanto agli individui singoli, li si può certo includere nella società civile ma con qualche distinguo. L'individuo singolo non può mai fare molto e l'insieme dei singoli (popolo) può fare opinione ma non va oltre quella che è appunto l' “opinione pubblica”. La differenza a mio avviso la fa l'organizzazione. Quando il singolo membro della società civile cioè si associa con un altro. Punti di vista.
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