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domenica 7 luglio 2024

L'Afghanistan e le nostre responsabilità




La presidente della Commissione Diritti umani della Camera Laura Boldrini ha reso nota lasua intenzione di presentare un'interrogazione al governo per “chiarire qual è la posizione dell'Italia nei confronti dell'Afghanistan, quali misure intenda intraprendere per sostenere la popolazione stremata e tutelarne i diritti - anche ripristinando aiuti allo sviluppo - e come intenda garantire la protezione internazionale alle afgane e agli afgani in fuga dai Talebani". Lo ha fatto dopo aver incontrato i responsabili della “Rete 26 febbraio” (strage di Cutro ndr) e quelli di 4 associazioni italiane e internazionali: Emergency, Intersos, Unitad Against Inhumanity (Uai) e Afgana. Durante un’audizione parlamentare abbiamo riassunto le condizioni in cui vive un popolo già vessato da leggi discriminatorie e dai postumi di una guerra infinita condotta con l’illusione di mettere le cose a posto e conclusasi con un fallimento. Cui è seguito un assordante silenzio. 

Riparlarne tre anni dopo la fuga del 15 agosto 2021 da Kabul, significa obbedire all’imperativo etico che obbliga un Paese che ha investito nella guerra afgana circa 10 miliardi (di cui il 90% in spesa militare) a non tradire la promessa fatta allora e che suonava più o meno così: “Non dimenticheremo l’Afghanistan”. Ma poi i soldi per l’emergenza si sono assottigliati, quelli per la ricostruzione sono scomparsi e la diplomazia europea – come quella americana - si è limitata a osservare la situazione da Doha, dove anche la nostra ambasciata è stata trasferita quell’estate, benché l’ambasciatore di allora a Kabul, Vittorio Sandalli, avesse ipotizzato che la nostra legazione in Afghanistan potesse rimanere aperta. Battaglia persa con la Farnesina e col governo.  

Ora ci si chiede se si può lasciar morire di fame la popolazione di un Paese solo perché non ne riconosciamo il regime. I numeri lo testimoniano: Emergency e Intersos – presenti sul territorio – ricordano che 23,7 milioni di afgani, oltre metà della popolazione, hanno bisogno di aiuti umanitari per sopravvivere e che oltre l’80% delle famiglie vive con meno di un dollaro al giorno. I tassi di malnutrizione materno-infantile sono fra i più alti al mondo così come l’incidenza di morti per ordigni esplosivi o da parto, conseguenza di una sanità  fragile con le carenze croniche di un sistema pubblico in cui l’accesso alle cure essenziali è un percorso a ostacoli. Uai ha ricordato il tema  della confisca delle riserve della Banca centrale afgana (Dab) da parte degli Usa e dei suoi  alleati (Italia compresa), col congelamento di 9,5 mld di dollari. Soldi del governo talebano? No, dei cittadini afgani che ora non possono metterli a garanzia per commerciare con l’estero. Tagliata fuori dal sistema bancario internazionale la Dab non è più in grado di svolgere le sue normali attività per garantire il funzionamento dell’economia. Uno scongelamento graduale con monitoraggio internazionale di quei fondi è urgente e necessario per il benessere dell’economia afgana. E non significa riconoscere il regime talebano.

Ma non c’è solo la crisi umanitaria, sanitaria ed economica, la repressione interna e la  discriminazione di genere. La società afgana sconta anche la mancanza di coraggio e creatività politica della diplomazia euro-atlantica. Di fronte all’impasse c’è bisogno di uno scarto: una diplomazia dei piccoli passi, che non sia declamatoria e basata su ultimatum ma che ricerchi l’opzione che più tutela i diritti e i bisogni della popolazione afgana e delle donne. Parlarsi non significa accettare le politiche talebane perché tra inazione e legittimazione esiste un ampio spettro di possibilità. Serve dunque un coinvolgimento attivo che comprenda anche il dialogo coi Talebani. In nome di quei diritti che da vent’anni proclamiamo di voler difendere.

Questo commento è apparso ieri su ilmanifesto accanto al pezzo di Giuliano Battiston

lunedì 1 luglio 2024

Torniamo a parlare dell'Afghanistan (e delle condizioni dei suoi abitanti)



Domani 2 luglio alle ore 11.30 Audizione sull'Afghanistan alla
Commissione permanente diritti umani presieduta da Laura Boldrini.

Parleranno Rossella Miccio (Emergency) Giovanni Visone (Intersos) Antonio Donini (United against Inhumanity) Giuliano Battiston (Afgana). Si può seguire (in diretta o differita) sul sito della Camera



giovedì 26 maggio 2022

Appuntamenti: la scelta delle armi


La geografia della guerra e gli accordi sui traffici di armi 

Roma 4 Giugno  18:30 - 19:30
Verano Bertha Kinsky (von Suttner)

La guerra viene con le armi 
Incontro-Dibattito organizzato da OGzero; Atlante delle Guerre;  Afgana. 

 Il 2022 si è aperto con una crisi internazionale che riporta venti di guerra in Europa. Ma il mondo è teatro di infinite proxy war; conflitti a sfondo religioso sostenuti da milizie o eserciti irregolari; scontri regionali tra stati vicini; lotte contro il neocolonialismo predatore. Qual è in questo momento la geografia di questi conflitti? Da cosa ci distrae quello in Ucraina oggi, e ieri quello in Afghanistan, prima ancora in Iraq, infine Siria? Quel che è certo è che c’è comunque una costante: il traffico e la vendita di armi. OGzero e Atlante delle Guerre dedicano il 2022 ad accendere un faro sul traffico di armi, legale o illegale che sia. Su un’apposita sezione del sito www.ogzero.org a partire da gennaio, sono pubblicati articoli, inchieste, leaks che riguardano il commercio di armi globale. È un progetto editoriale comune che verrà presentato nel corso del Festival dove verranno illustrati anche i contenuti dell’Atlante delle guerre e dei conflitti del Mondo edizione 2022, strumento per disegnare una geografia della guerra.

Interverranno: 

Adriano Boano (OGzero)
Alessandro De Pascale (Atlante delle Guerre) 
Emanuele Giordana (Afgana) 

domenica 12 dicembre 2021

Afghanistan, il futuro negato. Martedi 14 dicembre a Trento

Il primo incontro pubblico nazionale e in presenza sul futuro del Paese asiatico. La strategia italiana e la società civile afgana, la cooperazione e l'asilo. Organizzato da Afgana e 46mo Parallelo col sostegno della Provincia Autonoma

È necessario scrivere a info@atlanteguerre.it per assistere in presenza (necessario Green Pass)

Diretta Facebook qui


martedì 23 maggio 2017

"Afgana" su summit Nato: contro il surge di Donald Trump

 Afghanistan: Roma cambi strategia e rifiuti aumento soldati
Alla vigilia del summit Nato a Bruxelles ancora non è nota la posizione dell’Italia


In occasione del mini-vertice della Nato del 25 maggio a Bruxelles, l'associazione italiana Afgana – impegnata da anni nel dialogo con la società civile afgana – chiede al governo italiano quali politiche intenda adottare nel Paese centroasiatico. Secondo le indiscrezioni di stampa, l'amministrazione Trump ha intenzione di annunciare l'aumento delle truppe dispiegate in Afghanistan, portandole dalle attuali 8.500 unità a oltre 11mila, e di chiedere un contestuale aumento anche ai partner dell'Alleanza atlantica, tra cui l'Italia. Nell'ambito della missione-Nato “Resolute Support”, il nostro Paese stanzia in Afghanistan il secondo contingente per numero di soldati, dopo quello degli Stati Uniti. Afgana chiede dunque di sapere se il nostro governo abbia ricevuto una richiesta formale in tal senso, se abbia intenzione di assecondarla e in quali termini.

Di fronte agli evidenti fallimenti della strategia militare adottata negli ultimi 16 anni in Afghanistan, l'associazione italiana auspica un'inversione di rotta: più cooperazione civile e un impegno maggiore nel promuovere il processo di pace e di riconciliazione. Afgana si augura inoltre che qualunque decisione passi attraverso un dibattito parlamentare trasparente e condiviso.

comunicato stampa di "Afgana"

venerdì 15 luglio 2016

Afghanistan: esequie di Stato per il processo di pace

Arthur Conolly: finì ucciso
 dall'emiro di Bukhara
Dopo che  Obama ha deciso di rallentare l'uscita delle truppe americane dall'Afghanistan, la Nato ha reiterato il prolungamento della sua missione oltre il 2016 e il governo di Kabul ha spiegato che non ha alcuna intenzione di rivitalizzare il processo di pace, lo stallo è più che evidente. Qui di seguito un'analisi* che cerca di fare il punto della situazione

                           -------------------

Com’è noto la locuzione “Grande Gioco” - Great Game – si deve al britannico Arthur Conolly. Era uno dei tanti esploratori, diplomatici, spie al servizio di Sua Maestà britannica e aveva dato questo nome all’intrigo che dal 1800 aveva opposto soprattutto britannici e russi, ma anche francesi, persiani, afgani, circassi o turcmeni, che durante due secoli si erano combattuti, spiati, alleati e traditi in vista della grande posta in gioco: la conquista, o la conservazione della conquista, dell’India e, in molti casi, della propria indipendenza dalle mire russe o britanniche in Asia. Quello che in tempi recenti è stato chiamato Nuovo Grande Gioco sembra assomigliare alla primigenia edizione, benché la posta in gioco sia ovviamente mutata e così le tecniche per raggiungerla, ma mai come oggi sembra più appropriato il termine che aveva scelto un ministro dello Zar per descrivere quella guerra prolungata e non sempre guerreggiata senza esclusione di colpi: torneo delle ombre. Oggi come allora si agitano infatti, sullo sfondo del conflitto afgano, delle violenze in Pakistan, dei sommovimenti nel Caucaso, in Tagikistan, in Uzbekistan o nel Turkestan cinese, protagonisti e comprimari spesso in ombra assai più che tra l’800 e il 900. Sicuramente il campo di battaglia primario resta l’Afghanistan, ed è su questo campo di battaglia che porremo la nostra attenzione ma senza dimenticare le ombre che lo circondano. Metteremo assieme qualche idea e molte domande senza aver la pretesa di indicare risposte ma cercando di mettere in fila alcuni interrogativi che, oggi come allora, coinvolgono le grandi potenze regionali, gli Stati confinanti dal Caspio alla Cina, e le superpotenze che, adesso come un tempo, sono interessate al controllo di questo pietroso Paese senza sbocco al mare, quasi privo di gas e petrolio e con ricchezze minerarie ancora poco esplorate e comunque di difficile estrazione. Porremo la nostra attenzione soprattutto sull’Afghanistan per un semplicissimo motivo: la guerra – o la stagione di conflitto perenne iniziata con l’invasione sovietica del 1979 (quasi quarant’anni fa) – è ben lungi dall’esser terminata e assiste anzi a una ripresa che, solo in termini di vite umane, è diventata più esigente da quando la missione Isaf Nato si è ritirata – sostituita dalla più mite missione dell’Alleanza “Resolute Support” – nel dicembre 2014. Il fatto che la guerra afgana sia uscita dai riflettori della cronaca è solo – se mai ce ne fosse bisogno – l’indicazione che – per citare un vecchio adagio pacifista – la prima vittima della guerra è la verità. La guerra infatti non è affatto finita e gode anzi – ci si perdoni l’iperbole - di ottima salute.

Attori, comprimari, obiettivi

Non è difficile elencare i motivi per i quali l’Afghanistan desta interesse o apprensione e si presta ad essere un terreno di gioco più o meno eterodiretto. E’ facile comprenderlo per gli Stati confinanti.

venerdì 31 luglio 2015

Informarsi sull'Afghanistan (e il Pakistan)

Lettera22/Progetto Afghanistan  segue con notizie e soprattutto analisi l'infinita guerra afgana da almeno dieci anni (da quando con Arci e Lunaria fu tra le associazioni che crearono Afgana, rete divenuta poi associazione per la ricerca e il sostegno alla società civile afgana).

 In questi giorni segue il cambio al vertice dei talebani  e il processo di pace. Ma anche quanto avviene nel vicino Pakistan e la crescita di Daesh in entrambi i Paesi. Gli articoli sono principalmente di Giualiano Battiston e miei. In parte li trovate anche su questo blog.

Vai alla sezione di  Lettera22/

sabato 7 giugno 2014

Cinque domande sull'Afghanistan: il ministro risponde

Per la prima volta un  ministro della Repubblica, interrogato da un'associazione della società civile italiana sull'Afghanistan, risponde. E, senza vender fumo, va al cuore del problema. Cambiare passo - dice Federica Mogherini nella sua  lettera a il manifesto che risponde ai quesiti posti da Afgana - si può e si deve. Ecco il testo

Il 2014 sarà un anno cruciale per la transizione in Afghanistan, sia dal punto di vista politico sia da quello della gestione della sicurezza. E invece rischiamo di fare l'errore di pensare che con la fine di Isaf non sarà più necessario occuparsi di quel paese, delle sue contraddizioni e della sua faticosa ricerca di democrazia, pace, diritti. Per questo rispondo con piacere agli amici di Afgana, con i quali ho avuto occasione di collaborare spesso in passato e che ringrazio sia per il sostegno dato in questi anni alla società civile dell’Afghanistan. Mi si chiede dunque quale sia la strategia del governo per il dopo Isaf. Prima di tutto credo sia fondamentale mantenere l'impegno, preso formalmente con la comunità internazionale ma innanzitutto con la società civile afghana, di "non abbandonare" l'Afghanistan con la fine di Isaf. Però bisogna cambiare prospettiva: ogni passo dovrà essere deciso, disegnato, attuato su richiesta degli afghani e assieme a loro. così progetteremo il nostro sostegno alle istituzioni e alla società civile, e il sostegno alle forze di sicurezza afghane, con una residua presenza militare condizionata quindi a una richiesta di Kabul e limitata, eventualmente, solo a funzioni di formazione e assistenza. La strada che abbiamo intenzione di seguire è esattamente quella indicata da Afgana. Sono convinta, d'altra parte, che questo debba essere il tratto distintivo della nostra politica estera in tutte le aree di crisi e di transizione, dall'Ucraina alla Libia. Per rendere concreti questi impegni, appena ci saranno un nuovo presidente e un nuovo governo insediato andrò a Kabul per presiedere, assieme al ministro degli Esteri afghano, la prima riunione della Commissione congiunta prevista dall'accordo bilaterale di partenariato e impostare insieme un lavoro comune. Il sostegno alla società civile, su cui già si è molto lavorato, diventerà l’asse portante del nostro impegno così che dialogo e riconciliazione da un lato e tutela della libertà e dei diritti di tutti dall'altro possano poggiare su un terreno solido, pronto, su forme di partecipazione reale e diffusa. Manterremo e rafforzeremo quindi l'impegno della Cooperazione allo Sviluppo, con iniziative dirette e con il finanziamento a ong e spero che insieme al Parlamento potremo aumentare le risorse e renderle stabili. Sappiamo bene che serve però anche un serio sostegno internazionale. Con l’Ue si sta lavorando a un piano strategico, per il biennio 2014-2016, e nel nostro semestre di presidenza Ue lavoreremo all'attuazione. Infine, ma non da ultimo, sappiamo di doverci concentrare sia sulla riconciliazione interna, con il coinvolgimento politico di tutte le parti, sia sulla più ampia dimensione regionale e a fine agosto l'Italia parteciperà  a Tianjin, in Cina, alla riunione del processo di Istanbul. La comunità internazionale ha il dovere, e l'interesse, di continuare a occuparsi dell'Afghanistan e di farlo in modo nuovo, sostenendo un processo di transizione che deve essere prima di tutto in mano agli afghani.  

martedì 3 giugno 2014

Una lettera aperta sull'Afghanistan per il ministro Mogherini

La lettera pubblicata oggi su il manifesto dall'associazione “Afgana”

Cinque domande alla titolare degli Esteri
per capire se il governo intende cambiare passo
Il 2014 è un anno cruciale per l’Afghanistan. Perché segna il passaggio dalla prima, lunga parentesi post-talebana – inaugurata manu militari con l’intervento del 2001 guidato dagli Stati Uniti - a una nuova fase, i cui contorni sono ancora indefiniti. Nelle prossime settimane il presidente Hamid Karzai cederà il posto al suo successore, Abdullah Abdullah o Ashraf Ghani; entro la fine dell’anno, con il compimento della missione Isaf, la maggior parte delle truppe straniere lasceranno il paese, completando l’inteqal (la transizione), il passaggio della sicurezza dalle mani degli internazionali a quelle delle forze di sicurezza locali. Come ogni fase di transizione, anche l’inteqal afgana porta con sé molte incognite e molte opportunità. Le incognite riguardano la tenuta dell’assetto istituzionale, con un governo fragile, corrotto, incapace di soddisfare i bisogni della popolazione; la capacità delle forze di sicurezza di far fronte alla minaccia dei movimenti anti-governativi; lo stallo del processo di pace e di riconciliazione; la dipendenza dell’economia dagli aiuti internazionali; la giustizia che non c’è; i diritti negati, soprattutto per le donne. Affinché la società e il governo afgano riescano a fronteggiare adeguatamente tali sfide, c’è bisogno del sostegno della comunità internazionale. Ma affinché tale sostegno rifletta le aspettative della popolazione occorre voltare pagina, cogliendo le opportunità dell’attuale fase di passaggio.

Fin qui, in Afghanistan la componente civile del sostegno internazionale è stata subalterna a quella militare, che ha prevalso in termini di risorse impiegate e di obiettivi programmatici. Nonostante le ingenti risorse dedicate, lo strumento militare si è rivelato inefficace, perfino controproducente, nel proteggere la popolazione, sconfiggere i gruppi di opposizione armata, consolidare un governo democratico. Il fallimento del paradigma adottato in Afghanistan - dove i Talebani rimangono una forza tutt’altro che residuale e la percentuale delle vittime civili continua a crescere - dimostra l’anacronismo e la disfunzionalità dell’equazione che in politica internazionale associa realismo e militarismo, l’idea cioè che la sicurezza e la stabilità possano essere garantite e perseguite affidandosi alle armi. La transizione afgana offre alla comunità internazionale l’occasione di archiviare tale paradigma, in favore di uno completamente diverso, fondato sulla cooperazione, la diplomazia, il multilateralismo, la faticosa ricerca del dialogo e della riconciliazione. Un paradigma che non veda più la politica estera schiacciata o subalterna alla politica della difesa e che non riduca più la politica della difesa alla semplice questione della “sicurezza”. A partire dalla piena attuazione dell’articolo 11 della Costituzione e dal legame che esso stabilisce tra vocazione pacifista e vocazione internazionalista del nostro paese, il governo italiano potrebbe farsi promotore in Europa di questo nuovo paradigma, evitando che la comunità internazionale ripeta i suoi errori o che abdichi alle proprie responsabilità in un momento così delicato per le sorti dell’Afghanistan.

Alla luce di questi elementi di discussione, ci rivolgiamo al ministro degli Esteri, Federica Mogherini – che nel corso degli anni, da deputato, ha dimostrato sincero interesse per gli sforzi compiuti in ambito civile in Afghanistan – per sapere: 1) quale sia la strategia del governo italiano per l’Afghanistan nella fase successiva al compimento della missione Isaf; 2) se il governo italiano intenda favorire una posizione comune sull’Afghanistan in sede europea e un maggior protagonismo delle Nazioni Unite; 3) quali iniziative intenda assumere il governo italiano per favorire il processo di pace e riconciliazione; 4) quali iniziative intenda assumere il governo per favorire la società civile afgana; 5) quali iniziative intenda assumere il governo per sostenere le attività svolte dalle Ong italiane che operano in Afghanistan.



martedì 17 dicembre 2013

COSA PENSANO GLI AFGANI DEL 2014

Quali sono le ragioni del conflitto in Afghanistan? Come risolverlo? Cosa ci si aspetta per la fase successiva alla fine della missione Isaf della Nato? E, soprattutto, cose ne pensano gli afgani? Sono queste infatti le principali domande attorno alle quali si articola l’ultima ricerca di Giuliano Battiston*: “Aspettando il 2014: la società civile afghana su pace, giustizia e riconciliazione”, presentata ieri in una sala del ministero degli Esteri.

Frutto di quasi cinque mesi di lavoro sul campo in sette diverse province afgane (Balkh, Bamiyan, Farah, Faryab, Herat, Kabul, Nangarhar), la ricerca è parte di un più ampio progetto della Rete Afgana e promosso da una serie di Ong italiane: da Arcs come capofila in partenariato con Oxfam Italia, Nexus, Aidos, Cgil e Arci, cofinanziato dalla Dgcs del ministero degli Affari Esteri. Gli argomenti discussi con i rappresentanti della società civile afghana sono quattro: 1) le cause del conflitto e le ragioni della mobilitazione antigovernativa; 2) il processo di pace e di riconciliazione con i Talebani; 3) il rapporto tra pace e giustizia; 4) le aspettative per il post-2014. Per commentali ci ritorneremo, ma intanto potete scaricare qui una sintesi del documento, a giorni disponibile integralmente in italiano e in inglese.

* giornalista e ricercatore freelance. Ha viaggiato a lungo in Afghanistan, realizzando reportage, inchieste e due ricerche accademiche: La società civile afghana: uno sguardo dall’interno, nell’ambito del primo progetto promosso dal network “Afgana” con il contributo della Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri; Le truppe straniere agli occhi degli afghani. Opinioni, percezioni e rumors a Herat, Farah e Badghis, promossa dall’Ong Intersos.
Può essere contattato all’indirizzo g.battiston@gmail.com.

domenica 1 dicembre 2013

LA CONFERENZA DI HERAT SULLA SOCIETA' CIVILE (La Videoteca di Amanullah)




Conferenza internazionale di Herat giugno 2013 "Afghan Civil Society in Transition: role, opportunities, challenges and expectations" organizzata da "Afgana" in collaborazione con Arcs e dal Comitato della società civile afgana, col sostegno del Mae

Girato di Romano Martinis
Montaggio Andrea Musi

giovedì 1 agosto 2013

ELBA, I DUE FILM AFGANI IN CONCORSO



Non fidarti del mio silenzio



e Vendo carbone ma amo il calcio



sono i due corti afgani selezionati per Universo Corto Elba Film Festival nella seconda edizione nata l'anno scorso all'interno del Festival e dedicata al giovane cinema del Paese asiatico. Non fidarti mio silenzio! di Sahar Fetrat, racconta delle molestie stradali di cui soffrono le donne afgane di ogni età. Vendo carbone ma amo il calcio di Ghullam Abbas Farzami è la storia di un carbonaio che vuole diventare un giocatore della nazionale. I corti sono stati preselezionati e prodotti dall'associazione “Afghanistan New Generation Organization” diretta da Najib Sharif che ha presentato al Festival cinque cortometraggi. La seconda selezione è stata invece curata da “Afgana”, rete della società civile italiana per l'Afghanistan.

giovedì 13 giugno 2013

IL FUTURO NELLA SFIDUCIA E NELLA SPERANZA DEGLI AFGANI

Qualche giorno fa abbiamo dato conto dell'intervento di Elizabeth Winter al convegno internazionale di studi sulla società civile afgana che si è tenuto ad Herat il 6 giugno, organizzato dalla rete Afgana. Al suo – che era per lo più un contributo teoretico - ne sono seguiti diversi altri tra cui quello di Giuliano Battiston, che di Afgana fa parte sin dall'inizio e per la quale ha già realizzato una ricerca precedente sulla percezione che gli afgani hanno del concetto di società civile.

Anche questa volta, benché il tema fosse altro e riguardasse aspettative e speranze ma anche la coscienza del proprio passato, Battiston ha cercato di riferire il punto di vista degli afgani o di quella che definiamo società civile afgana*. Cercheremo qui di riassumerne il focus essenziale prendendo spunto dal suo intervento pubblico a Herat. Il suo personale punto di vista Battiston invece lo ha sottolineato molto brevemente e riguarda la cornice attuale: per noi – dice il ricercatore di Afgana- la transizione rappresenta una grande occasione per introdurre più voci afgane nel processo di decisione politica, assenza che gli afgani per primi lamentano.

Dalla sua ricerca sembra infatti emergere e dominare una senso di sfiducia generale. Che non impedisce la speranza – dice Battiston – ma che rende gli afgani piuttosto disillusi: verso il governo, la comunità internazionale, i talebani. I primi due non sembrano in realtà metterci tutto l'impegno che la transizione e il processo di riconciliazione richiederebbero: agli afgani sembrano sbagliati gli strumenti e gli attori messi in campo dal governo che utilizza un approccio inappropriato e inefficace. Un approccio da “bazar” dove ognuno negozia la sua convenienza personale, ossia la sua agenda particolare e non quella del paese. Discorso in cui rientrano a pieno titolo anche i talebani, sulle cui mosse grava l'ombra e di agenti esterni che ne manipolano i piani. Infine questo mercato è lontano dagli sguardi della gente, è chiuso verso l'opinione pubblica. E' un mercato dove si negozia in segreto e che agli afgani intervistati non sembra dare frutti: ne emerge una figura del popolo afgano che lo disegna come molto cosciente sia della propria identità nazionale sia della scarsa trasparenza dei protagonisti attuali che di coscienza nazionale (intesa come interesse pubblico) non sembrano proprio averne. Così alla maggioranza degli intervistati i processi di reintegrazione e riconciliazione sembrano importanti e fondamentali ma anche inefficaci perché strumentalizzati politicamente dalle varie parti in gioco: il governo per farsi bello dei successi, i talebani approfittandone per fare cassa.

La sfiducia sembra generalizzata su più fronti. Dalla ricerca emerge un evidente timore delle agende di Iran e Pakistan e dunque la fiducia negli americani si brucia nel momento in cui si constata la loro scarsa pressione su Islamabad. Anche i talebani finiscono schiacciati dal peso del Paese dei puri. La ricerca, durata 4 mesi e condotta in 7 province, sembra raccontarci un Paese molto diverso da quello che conosciamo. Certamente Battiston tiene conto e riferisce di colloqui con un'intellighenzia ormai diffusa quanto ineludibile che forse non rappresenta tutto il paese nella sua complessità. Ma che sicuramente ne rappresenta la faccia più attenta e più impegnata civilmente (la società civile organizzata) tanto da restituirci, attraverso le tante testimonianze, un Paese che affronta il suo futuro con lucidità e con le idee chiare.
La pace ad esempio. Ci vuole - dicono gli afgani - un doppio approccio: un processo di pace condotto dall'alto e uno condotto dal basso, una “social peace” che renda effettiva la “poltical peace” delle istituzioni. Ma c'è anche la coscienza che troppi problemi irrisolti, specie se riguardano crimini passati e impunità, lasceranno una pessima eredità sul futuro di un Paese dove la vera pace non si potrà ottenere senza coniugarla alla giustizia. E qui torna la sfiducia. Si riuscirà a conciliare pace e giustizia? La maggioranza giudica questa opzione “irrealistica”.

* “La società civile afghana: pace, giustizia e aspettative per il post-2014” è il titolo della ricerca di Battiston alla conferenza internazionale “Società civile afgana in transizione: ruolo, prospettive, sfide, opportunità”cui hanno partecipato tra gli altri Mirwais Wardak (Afghanistan: PRTO, Peace Training and Research Organization) Elizabeth Winter (Regno Unito: LSE, London School of Economics), Fhiam Akim (AIhrc)

giovedì 6 giugno 2013

SOCIETA' CIVILE, ALLA RICERCA DI UNA DEFINIZIONE

La società civile in Afghanistan è un'invenzione occidentale? La domanda arriva diretta e tagliente. La fa Elizabeth Winter, una veterana della ricerca sulla società civile in Afghanistan, al convegno internazionale promosso dalla rete Afgana a Herat (“Afghani civil society in Transition: role, opportunities, challenges and expectations”) conclusosi oggi nella città afgana. Il provocatorio quesito che fa da titolo al suo intervento viene rivolto dalla ricercatrice un'attenta platea, per quasi metà composta da donne, in un'aula della facoltà di agraria. C'è un attimo di gelo pur nella temperatura torrida, poi alzano la mano in due: una giovane studentessa e un non più giovanissimo signore.

Winter cerca innanzi tutto di comporre una “definizione operativa” - dice – visto che ognuno usa questo termine un po' come gli pare. E dice che una definizione accettabile potrebbe indicare “individui e attori collettivi volontari, favorevoli a una crescita e sviluppo sociali della società che non ne comprometta la dignità. Insiste su due punti: la dignità e il fatto che società civile è anche l'individuo, non solo il gruppo associativo dunque. Ci deve essere – aggiunge – la componente non profit e quella culturale e l'articolazione in campagna e attività di sostegno a battaglie per i diritti. Ne fan parte a pieno titolo le Ong certamente, ma anche le associazioni culturali e professionali, quelle delle donne, sindacati, coalizioni e reti, imprenditori. E ritorna poi sull'elemento individuale: le persone singole, dice, sono il popolo.

La Winter alla fine non crede che la società civile sia un'invenzione occidentale: esisteva già prima in Afghanistan e utilizza valori condivisi anche dall'Islam, non è dunque in contraddizione e non è un'imposizione La società civile ha la sua ragion d'essere nei “valori umani”, quindi trasversali quindi impossibili da monopolizzare dall'Occidente o da chicchessia.
Convincente e preparata la Winter ha preparato anche una serie di “raccomandazioni” che ha però rimandato alla parte scritta del suo intervento che verrà data alle stampe con gli atti.

Fin qui la cronaca...

Un paio di punti mi lasciano perplesso: l'inclusione degli imprenditori che, per loro stessa natura, sono profit e che dunque mi paiono attori in contraddizione col concetto di volontariato. Certo possono essere solidali, ci mancherebbe, e soprattutto possono finanziare campagne e associazioni a fin di bene. Ma sugli imprenditori non può non gravare il sospetto che dietro ogni buona azione ci sia un obiettivo personale, di profitto. Se una campagna andasse contro i loro interessi non la finanzierebbero o smetterebbero di appoggiarla. Ciò li rende, mi pare un po' spurii. Quanto agli individui singoli, li si può certo includere nella società civile ma con qualche distinguo. L'individuo singolo non può mai fare molto e l'insieme dei singoli (popolo) può fare opinione ma non va oltre quella che è appunto l' “opinione pubblica”. La differenza a mio avviso la fa l'organizzazione. Quando il singolo membro della società civile cioè si associa con un altro. Punti di vista.

Per saperne di piu', il pezzo di A. Depascale su Il Punto

mercoledì 5 giugno 2013

IL CHI E' DELLA SOCIETA' CIVILE AFGANA


Si apre domani all'università di Herat il primo seminario internazionale di studi sulla società civile afgana, organizzato dalla rete Afgana (www.afgana.org) e da un consorzio di Ong, con capofila Arcs, nel quadro di un progetto finanziato dal ministero degli Esteri.
Il seminario “Società civile afgana in transizione: ruolo, prospettive, sfide, opportunità” è forse il pirmo incontro internazionale di studi sulla società civile afgana. Vedrà interventi, tra gli altri, di Mirwais Wardak (Afghanistan: PRTO, Peace Training and Research Organization) e Elizabeth Winter (Regno Unito: LSE, London School of Economicczds), considerati tra i più importanti ricercatori su questo tema.
Tra i relatori italiani, Giuliano Battiston, già autore del primo studio italiano sulla società civile afghana, presenterà i risultati della ricerca “La società civile afghana: pace, giustizia e aspettative per il post-2014”.

In questo stesso
contesto, sono stati realizzati anche i dibattiti che si sono tenuti nei giorni scorsi in diverse città afgane (Kabul, Mazar-i-Sharif, Jalalabad), organizzati dalle associazioni locali partner con il sostegno delle università delle città coinvolte. Negli incontri, alcuni esponenti della società civile italiana hanno discusso tematiche centrali per il rafforzamento del processo di democratizzazione del Paese come diritti, lavoro dignitoso, pace, conflitti, partecipazione attiva dei cittadini e rapporto con la rappresentanza istituzionale locale, beni comuni, legalità.

Queste attività
sono accompagnate da una mostra del fotografo Romano Martinis, con una lunga esperienza in aree di conflitto, che dal 2007 ha documentato in diverse zone del Paese i molti aspetti su cui la società civile è impegnata. Si tratta della seconda mostra esposta nel recentissimo centro ACKU (Afghan Center at Kabul University), inaugurato nel 2013 e frutto dell'impegno di Nancy Dupree, che ha donato alla fondazione 70mila documenti sull'Afghanistan, raccolti con il marito in decenni di lavoro.

Le associazioni sociali e italiane e le Ong aderenti alla rete Afgana riaffermano e rafforzano con queste iniziative il loro sostegno alle associazioni per i diritti umani, fondazioni di ricerca, reti di donne, Ong afgane, "terza forza" di un Paese stretto tra talebani e signori della guerra. Afgana auspica che il governo italiano, che ha contribuito al finanziamento di queste attività, continui a investire ancora sul processo di democratizzazione nel Paese e sul rafforzamento delle istanze sociali, pilastro di una vera ricostruzione e garanzia di diritti futuri dopo il ritiro militare. A tal proposito la rete Afgana ha lanciato alle forze politiche la proposta di riconvertire il 30% del risparmio ottenuto col ritiro militare in attività di cooperazione.

lunedì 3 giugno 2013

LA MOZIONE DI SEL SULL'AFGHANISTAN



La pubblico con colpevole ritardo ma è stata presentata a fine maggio proprio mentre stavo tornando a Kabul per una serie di eventi di cui darò conto nei prossimi giorni:

Atto Camera

Mozione 1-00060
presentato da
MIGLIORE Gennaro
testo di
Mercoledì 29 maggio 2013, seduta n. 25

La Camera,
premesso che:

sono trascorsi quasi 12 anni dall'inizio della missione NATO in Afghanistan, uno dei conflitti più lunghi, controversi e sanguinosi, in cui hanno perso la vita oltre 3.000 soldati della coalizione, di cui 52 italiani e oltre 70.000 civili afghani;
soltanto nel 2011, in base ad un rapporto dell'UNICEF, in Afghanistan sono stati uccisi o feriti, a causa del conflitto, 1.756 bambini, una media di 4,8 bambini al giorno; sempre lo stesso anno, 316 tra bambini e ragazzi sotto i 18 anni di età sono stati reclutati dalle parti in conflitto, in particolare dai gruppi armati di opposizione;
trattasi di una missione che ha visto schierati 130.000 soldati stranieri, 4.000 dei quali italiani, e che è costata solo agli Stati Uniti oltre 150 miliardi di dollari, mentre l'Italia ha speso 5.415.640.096 euro di cui solo 217.903.400 destinati alla cooperazione;
nel vertice della NATO, tenutosi a Lisbona nel novembre 2010, si è deciso di ritirare le truppe dall'Afghanistan entro il 2014, quando le forze di sicurezza afghane avranno assunto il controllo della sicurezza sul territorio, mentre nel vertice tenuto a Chicago nel maggio 2012 la NATO ha deciso che trasferirà la sicurezza alle forze afghane in tutto il territorio entro il 2013 e che resterà con un solo ruolo di sostegno fino alla fine del 2014; successivamente resteranno truppe di addestramento e saranno finanziati stipendi a soldati e poliziotti afghani, con un costo annuo di 4,1 miliardi di dollari per mantenere ed addestrare i 228.500 effettivi;
al vertice di Chicago l'Italia si è impegnata a sostenere le forze di sicurezza negli anni 2015-2017 con 360 milioni di euro da spalmare nel triennio;
la Conferenza dei donatori dell'Afghanistan, svoltasi a Tokyo nel luglio 2012, ha preso l'impegno di fornire più di 16 miliardi complessivi in aiuti civili entro il 2015 e di proseguire con i finanziamenti almeno fino al 2017;
il prodotto interno lordo dell'Afghanistan, secondo la Banca mondiale, dipende per il 90 e 95 per cento dall'aiuto esterno; dunque la paura degli afghani è che finita la missione militare si verifichi un disimpegno della comunità internazionale sia a livello economico, che di attenzione verso le sorti del Paese;
la Francia ha anticipato il ritiro del suo contingente, portando a casa nel 2012 le truppe da combattimento (circa 2000 soldati su 3550), gli altri hanno l'incarico di organizzare il rimpatrio del materiale e l'addestramento delle forze di sicurezza afghane; dopo il 2014 resterà una ridottissima presenza francese per una limitata cooperazione civile ed economica;
anche Canada ed Australia hanno annunciato un ritiro anticipato delle loro truppe;
gli enormi sforzi in termini di vite umane e investimenti economici sono stati ripagati da scarsi progressi di democrazia e sviluppo;
secondo l'UNODC, l'ufficio dell'ONU per le droghe ed il crimine, il fenomeno della corruzione in Afghanistan ha toccato nel 2012 i 3,9 miliardi di dollari, con una crescita del 40 per cento rispetto al 2009, nello stesso anno circa un afghano su due ha pagato la «mazzetta» per ottenere un servizio pubblico;
sempre da un rapporto dell'UNODOC, risulta che nel 2011 in Afghanistan le terre coltivate ad oppio siano 154.000 ettari, con un incremento del 18 per cento rispetto all'anno precedente, con una produzione di 3.700 tonnellate, con un calo del 36 per cento rispetto al 2010 a causa di malattie delle piante e cattive condizioni meteorologiche; quello dell'oppio è un business che rappresenta fra il 4 ed il 7 per cento del prodotto interno lordo del Paese;
secondo il rapporto 2012 di Amnesty International, le autorità giudiziarie, la polizia e l'esercito nazionale afghano hanno commesso gravi violazioni dei diritti umani. Sono continuate le detenzioni e gli arresti arbitrari, con ricorso sistematico alla tortura e ad altre forme di maltrattamento da parte dei servizi d’intelligence. Gli afghani, in particolare donne e ragazze, sono stati privati dei loro diritti alla salute e all'istruzione. Gli aiuti umanitari sono rimasti inaccessibili per gran parte della popolazione nelle zone controllate dai talebani e da altri gruppi d'insorti. La violenza contro donne e ragazze è stata diffusa ed è rimasta impunita, in particolare nelle zone controllate dagli insorti. L'Isaf e la Nato hanno continuato a lanciare attacchi aerei e raid notturni, mietendo decine di morti tra i civili;
il Ministro della difesa pro tempore Giampaolo Di Paola aveva annunciato una riduzione della presenza militare italiana in Afghanistan del 25/30 per cento entro il 2013 e del restante 70/75 per cento entro il 2014;
questa fase di passaggio è un'occasione per il Governo italiano di rilanciare la sua credibilità come attore rilevante nella cooperazione internazionale, con un importante contributo alla costruzione di una società afghana fondata sul rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali di donne e uomini,

impegna il Governo:

ad annunciare l'immediata uscita del nostro Paese dalla missione ISAF, riportando quanto prima in Italia le truppe impegnate sul terreno, lasciando sul campo solo i militari necessari ad organizzare il rientro del materiale con precise regole d'ingaggio;
a fornire al Parlamento una dettagliata analisi sulla presenza militare italiana in Afghanistan negli ultimi dodici anni e, in particolare, nell'ultimo periodo, ovvero da quando il Ministro pro tempore Di Paola ha annunciato la possibilità per gli aerei italiani di caricare bombe e colpire obiettivi a terra;
nel rifinanziare le missioni per l'ultimo trimestre del 2013, ad assumere due iniziative normative urgenti, una per l'Afghanistan e una per tutte le altre missioni, finalizzando per la prima i fondi della missione militare al solo scopo di organizzare il ritiro delle truppe e destinando il 30 per cento di ogni euro risparmiato dalla missione militare alle politiche di cooperazione con l'Afghanistan;
a sostituire quanto prima la missione militare con una civile con lo specifico compito di sostenere la popolazione afghana con progetti di sostegno alla cooperazione e di ricostruzione civile del Paese.

(1-00060) «Migliore, Scotto, Duranti, Claudio Fava, Piras, Aiello, Airaudo, Boccadutri, Franco Bordo, Costantino, Di Salvo, Daniele Farina, Ferrara, Fratoianni, Giancarlo Giordano, Kronbichler, Lacquaniti, Lavagno, Marcon, Matarrelli, Melilla, Nardi, Nicchi, Paglia, Palazzotto, Pannarale, Pellegrino, Piazzoni, Pilozzi, Placido, Quaranta, Ragosta, Ricciatti, Sannicandro, Zan, Zaratti».


sabato 23 febbraio 2013

POLITICA ESTERA CENERENTOLA NAZIONALE

L'Associazione Italia Alpi, la Rete Afgana e la redazione di 46 Parallelo hanno reso note le adesioni e le risposte all'appello “Da che parte stare” rivolto ai candidati delle politiche 2013. Ne esce un quadro sconfortante e solo 10 interventi di candidati: 6 di Rivoluzione Civile, 3 di Sel, 1 dei montiani e un circolo di Sinistra ecologia libertà. Dovevano rispondere a 11 quesiti sulla politica estera del nostro Paese...Leggi il comunicato sul sito di Afgana

venerdì 8 febbraio 2013

ALCUNE QUESTIONI SULLA SOCIETA' CIVILE AFGANA*


A cadenza regolare il conflitto in Afghanistan è stato scandito da alcune parole chiave. Talebani, jihadisti, sicurezza, transizione, exit strategy, post-2014. Le parole con cui raccontiamo la realtà o con cui cerchiamo di figurarci come sarà in futuro, nascondono spesso illusioni o speranze, ma a volte un vuoto teorico che viene riempito solo dal loro suono. Molto sinceramente la mia impressione è che il termine “civil society”, jemaa madani in dari, appartenga a questa categoria. Questa locuzione ha iniziato ad apparire nei dossier e nei discorsi ufficiali già da qualche anno ma negli ultimi due la sua presenza è aumentata. Direi anzi che, come nel caso del termine “gender”, non può essere evitata. Ma se scavate dietro a quel termine, se ci chiediamo cosa esattamente vuol dire o rappresenta, ci prende un certo sconforto. Nel caso della società civile afgana non si può dire che abbondino gli studi o le ricerche anche se da un paio d'anni a questa parte qualche passo avanti è stato fatto. In realtà, se quando diciamo “pashtun” sappiamo bene a cosa ci stiamo riferendo o se diciamo “sistema finanziario” comprendiamo esattamente di cosa si tratta, quando utilizziamo il termine “civile society” - questa almeno è la mia impressione – intendiamo forse cose molto diverse o non sappiamo esattamente a cosa ci riferiamo....Segue (versione italiana)

Certain words appear with unerring regularity in reference to the conflict in Afghanistan: the Taleban, jihadists, security, transition, exit strategy, post 2014. The words we use to describe the situation or through which we try to imagine a future often conceal illusions or hopes, but they are also frequently used to fill a theoretical void. To be perfectly honest, it seems to me that the term ‘’civil society’’ (jemaa madani in Dari) fits into this category. Though it first started appearing in official speeches and dossiers a few years back, its use has increased sharply in recent times...Go to english version

* Il mio intervento alla Conferenza “Afghanistan to 2014 and beyond – Ask and Task”, Rome, 7-8 February 2013 organizzata da Iai e Nato Defense College

mercoledì 6 febbraio 2013

QUALCHE DOMANDA SULLA POLITICA ESTERA

L'Associazione Ilaria Alpi, 46mo parallelo, che da quattro anni pubblica l'Atlante delle guerre e dei conflitti, e la Rete Afgana hanno chiesto oggi con un appello diffuso in Rete ai futuri parlamentari e alle loro liste di esprimersi sulla politica estera e sugli impegni che intendono prendere nella prossima legislatura.

L'appello “Da che parte stare” si richiama nel preambolo all'articolo 11 della Costituzione sul ripudio della guerra ed è nato a gennaio durante la presentazione pubblica dell'Atlante in una libreria di Roma. Sono undici domande che partono dalla considerazione che “i partiti e le coalizioni che si presentano alle elezioni del 24 febbraio 2013 mostrano, nei programmi proposti agli elettori, carenze e vuoti – dicono i promotori - per ciò che riguarda la politica estera. Non chiariscono – dice ancora il testo dell'appello - cosa intendono fare una volta chiamate a governare, non indicano ai cittadini la posizione del Paese su questioni importanti quali la partecipazione a missioni armate, il ruolo nel Mediterraneo, la cooperazione internazionale, la funzione della Nato e delle Nazioni Unite, i rapporti commerciali con Paesi che non rispettano i diritti umani e la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo”. La prima domanda riguarda gli F-35.

Afgana, con un comunicato ricorda, tra l'altro, di aver già proposto alle forze politiche di impegnare il 30% del risparmio ottenuto col ritiro dele truppe dall'Afghanistan perché sia investito in cooperazione civile in quel Paese.

Le domande si trovano sui siti delle tre associazioni Ass Ilaria Alpi, 46mo Parallelo/Atlante delle guerre, Afgana, sui quali si raccolgono anche le adesioni e le risposte di liste e candidati. Molte le associazioni e le Reti che hanno aderito. Tra i primi firmatari:
TAVOLA DELLA PACE, ARCI, ARCS, CIPSI, LETTERA22, AMANI, EDUCAID, VOGLIO VIVERE ONLUS, BEATI COSTRUTTORI DI PACE, TERRA DEL FUOCO, KOINONIA ROMA, LEGAMBIENTE, AAM TERRANUOVA EDIZIONI o singoli cittadini come la docente dell'Università di Scienze politiche a Milano Elisa Giunchi o la coreanista Rosella Ideo.

sabato 17 novembre 2012

CONTROLLARE CHE LE DONNE POSSANO VOTARE

Nell'aprile del 2014 in Afghanistan si sceglie e il presidente e il nuovo parlamento. Dunque bisogna garantire un serio monitoraggio delle prossime elezioni afgane e soprattutto verificare l'accesso delle donne alle urne. Un progetto che non venga affidato al governo afgano ma alle organizzazioni della società civile, a garanzia che il processo elettorale sia trasparente e democratico in ogni sua fase.

E' questa una delle proposte che la società civile afgana e quella italiana hanno fatto ieri al Sottosegretario agli Affari Esteri, Min. Staffan De Mistura a conclusione di una settimana di incontri con le istituzioni nazionali e alcune/i esponenti del Parlamento italiano. Per finanziare anche questo intervento, il Comitato della società civile afgana e la rete italiana “Afgana” hanno chiesto al Ministero per la Cooperazione Internazionale e l'Integrazione e al Ministero degli Affari Esteri la costituzione di un fondo comune (Joint Cooperation Fund of civil society) per la società civile.

Leggi tutto su Afgana Nella foto, Ahmad Joyenda, ex parlamentare, presidente di una fondazione culturale e vice direttore di Areu. Tra i nove delegati della società civile venuti a Roma