Quali sono le ragioni del conflitto in Afghanistan? Come risolverlo? Cosa ci si aspetta per la fase successiva alla fine della missione Isaf della Nato? E, soprattutto, cose ne pensano gli afgani? Sono queste infatti le principali domande attorno alle quali si articola l’ultima ricerca di Giuliano Battiston*: “Aspettando il 2014: la società civile afghana su pace, giustizia e riconciliazione”, presentata ieri in una sala del ministero degli Esteri.
Frutto di quasi cinque mesi di lavoro sul campo in sette diverse province afgane (Balkh, Bamiyan, Farah, Faryab, Herat, Kabul, Nangarhar), la ricerca è parte di un più ampio progetto della Rete Afgana e promosso da una serie di Ong italiane: da Arcs come capofila in partenariato con Oxfam Italia, Nexus, Aidos, Cgil e Arci, cofinanziato dalla Dgcs del ministero degli Affari Esteri. Gli argomenti discussi con i rappresentanti della società civile afghana sono quattro: 1) le cause del conflitto e le ragioni della mobilitazione antigovernativa; 2) il processo di pace e di riconciliazione con i Talebani; 3) il rapporto tra pace e giustizia; 4) le aspettative per il post-2014. Per commentali ci ritorneremo, ma intanto potete scaricare qui una sintesi del documento, a giorni disponibile integralmente in italiano e in inglese.
* giornalista e ricercatore freelance. Ha viaggiato a lungo in Afghanistan, realizzando reportage, inchieste e due ricerche accademiche: La società civile afghana: uno sguardo dall’interno, nell’ambito del primo progetto promosso dal network “Afgana” con il contributo della Direzione Generale della Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri; Le truppe straniere agli occhi degli afghani. Opinioni, percezioni e rumors a Herat, Farah e Badghis, promossa dall’Ong Intersos.
Può essere contattato all’indirizzo g.battiston@gmail.com.
Visualizzazioni ultimo mese
Cerca nel blog
Translate
Visualizzazione post con etichetta ricerca. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta ricerca. Mostra tutti i post
martedì 17 dicembre 2013
giovedì 13 giugno 2013
IL FUTURO NELLA SFIDUCIA E NELLA SPERANZA DEGLI AFGANI
Qualche giorno fa abbiamo dato conto dell'intervento di Elizabeth Winter al convegno internazionale di studi sulla società civile afgana che si è tenuto ad Herat il 6 giugno, organizzato dalla rete Afgana. Al suo – che era per lo più un contributo teoretico - ne sono seguiti diversi altri tra cui quello di Giuliano Battiston, che di Afgana fa parte sin dall'inizio e per la quale ha già realizzato una ricerca precedente sulla percezione che gli afgani hanno del concetto di società civile.
Anche questa volta, benché il tema fosse altro e riguardasse aspettative e speranze ma anche la coscienza del proprio passato, Battiston ha cercato di riferire il punto di vista degli afgani o di quella che definiamo società civile afgana*. Cercheremo qui di riassumerne il focus essenziale prendendo spunto dal suo intervento pubblico a Herat. Il suo personale punto di vista Battiston invece lo ha sottolineato molto brevemente e riguarda la cornice attuale: per noi – dice il ricercatore di Afgana- la transizione rappresenta una grande occasione per introdurre più voci afgane nel processo di decisione politica, assenza che gli afgani per primi lamentano.
Dalla sua ricerca sembra infatti emergere e dominare una senso di sfiducia generale. Che non impedisce la speranza – dice Battiston – ma che rende gli afgani piuttosto disillusi: verso il governo, la comunità internazionale, i talebani. I primi due non sembrano in realtà metterci tutto l'impegno che la transizione e il processo di riconciliazione richiederebbero: agli afgani sembrano sbagliati gli strumenti e gli attori messi in campo dal governo che utilizza un approccio inappropriato e inefficace. Un approccio da “bazar” dove ognuno negozia la sua convenienza personale, ossia la sua agenda particolare e non quella del paese. Discorso in cui rientrano a pieno titolo anche i talebani, sulle cui mosse grava l'ombra e di agenti esterni che ne manipolano i piani. Infine questo mercato è lontano dagli sguardi della gente, è chiuso verso l'opinione pubblica. E' un mercato dove si negozia in segreto e che agli afgani intervistati non sembra dare frutti: ne emerge una figura del popolo afgano che lo disegna come molto cosciente sia della propria identità nazionale sia della scarsa trasparenza dei protagonisti attuali che di coscienza nazionale (intesa come interesse pubblico) non sembrano proprio averne. Così alla maggioranza degli intervistati i processi di reintegrazione e riconciliazione sembrano importanti e fondamentali ma anche inefficaci perché strumentalizzati politicamente dalle varie parti in gioco: il governo per farsi bello dei successi, i talebani approfittandone per fare cassa.
La sfiducia sembra generalizzata su più fronti. Dalla ricerca emerge un evidente timore delle agende di Iran e Pakistan e dunque la fiducia negli americani si brucia nel momento in cui si constata la loro scarsa pressione su Islamabad. Anche i talebani finiscono schiacciati dal peso del Paese dei puri. La ricerca, durata 4 mesi e condotta in 7 province, sembra raccontarci un Paese molto diverso da quello che conosciamo. Certamente Battiston tiene conto e riferisce di colloqui con un'intellighenzia ormai diffusa quanto ineludibile che forse non rappresenta tutto il paese nella sua complessità. Ma che sicuramente ne rappresenta la faccia più attenta e più impegnata civilmente (la società civile organizzata) tanto da restituirci, attraverso le tante testimonianze, un Paese che affronta il suo futuro con lucidità e con le idee chiare.
La pace ad esempio. Ci vuole - dicono gli afgani - un doppio approccio: un processo di pace condotto dall'alto e uno condotto dal basso, una “social peace” che renda effettiva la “poltical peace” delle istituzioni. Ma c'è anche la coscienza che troppi problemi irrisolti, specie se riguardano crimini passati e impunità, lasceranno una pessima eredità sul futuro di un Paese dove la vera pace non si potrà ottenere senza coniugarla alla giustizia. E qui torna la sfiducia. Si riuscirà a conciliare pace e giustizia? La maggioranza giudica questa opzione “irrealistica”.
* “La società civile afghana: pace, giustizia e aspettative per il post-2014” è il titolo della ricerca di Battiston alla conferenza internazionale “Società civile afgana in transizione: ruolo, prospettive, sfide, opportunità”cui hanno partecipato tra gli altri Mirwais Wardak (Afghanistan: PRTO, Peace Training and Research Organization) Elizabeth Winter (Regno Unito: LSE, London School of Economics), Fhiam Akim (AIhrc)
Anche questa volta, benché il tema fosse altro e riguardasse aspettative e speranze ma anche la coscienza del proprio passato, Battiston ha cercato di riferire il punto di vista degli afgani o di quella che definiamo società civile afgana*. Cercheremo qui di riassumerne il focus essenziale prendendo spunto dal suo intervento pubblico a Herat. Il suo personale punto di vista Battiston invece lo ha sottolineato molto brevemente e riguarda la cornice attuale: per noi – dice il ricercatore di Afgana- la transizione rappresenta una grande occasione per introdurre più voci afgane nel processo di decisione politica, assenza che gli afgani per primi lamentano.
Dalla sua ricerca sembra infatti emergere e dominare una senso di sfiducia generale. Che non impedisce la speranza – dice Battiston – ma che rende gli afgani piuttosto disillusi: verso il governo, la comunità internazionale, i talebani. I primi due non sembrano in realtà metterci tutto l'impegno che la transizione e il processo di riconciliazione richiederebbero: agli afgani sembrano sbagliati gli strumenti e gli attori messi in campo dal governo che utilizza un approccio inappropriato e inefficace. Un approccio da “bazar” dove ognuno negozia la sua convenienza personale, ossia la sua agenda particolare e non quella del paese. Discorso in cui rientrano a pieno titolo anche i talebani, sulle cui mosse grava l'ombra e di agenti esterni che ne manipolano i piani. Infine questo mercato è lontano dagli sguardi della gente, è chiuso verso l'opinione pubblica. E' un mercato dove si negozia in segreto e che agli afgani intervistati non sembra dare frutti: ne emerge una figura del popolo afgano che lo disegna come molto cosciente sia della propria identità nazionale sia della scarsa trasparenza dei protagonisti attuali che di coscienza nazionale (intesa come interesse pubblico) non sembrano proprio averne. Così alla maggioranza degli intervistati i processi di reintegrazione e riconciliazione sembrano importanti e fondamentali ma anche inefficaci perché strumentalizzati politicamente dalle varie parti in gioco: il governo per farsi bello dei successi, i talebani approfittandone per fare cassa.
La sfiducia sembra generalizzata su più fronti. Dalla ricerca emerge un evidente timore delle agende di Iran e Pakistan e dunque la fiducia negli americani si brucia nel momento in cui si constata la loro scarsa pressione su Islamabad. Anche i talebani finiscono schiacciati dal peso del Paese dei puri. La ricerca, durata 4 mesi e condotta in 7 province, sembra raccontarci un Paese molto diverso da quello che conosciamo. Certamente Battiston tiene conto e riferisce di colloqui con un'intellighenzia ormai diffusa quanto ineludibile che forse non rappresenta tutto il paese nella sua complessità. Ma che sicuramente ne rappresenta la faccia più attenta e più impegnata civilmente (la società civile organizzata) tanto da restituirci, attraverso le tante testimonianze, un Paese che affronta il suo futuro con lucidità e con le idee chiare.
La pace ad esempio. Ci vuole - dicono gli afgani - un doppio approccio: un processo di pace condotto dall'alto e uno condotto dal basso, una “social peace” che renda effettiva la “poltical peace” delle istituzioni. Ma c'è anche la coscienza che troppi problemi irrisolti, specie se riguardano crimini passati e impunità, lasceranno una pessima eredità sul futuro di un Paese dove la vera pace non si potrà ottenere senza coniugarla alla giustizia. E qui torna la sfiducia. Si riuscirà a conciliare pace e giustizia? La maggioranza giudica questa opzione “irrealistica”.
* “La società civile afghana: pace, giustizia e aspettative per il post-2014” è il titolo della ricerca di Battiston alla conferenza internazionale “Società civile afgana in transizione: ruolo, prospettive, sfide, opportunità”cui hanno partecipato tra gli altri Mirwais Wardak (Afghanistan: PRTO, Peace Training and Research Organization) Elizabeth Winter (Regno Unito: LSE, London School of Economics), Fhiam Akim (AIhrc)
lunedì 27 maggio 2013
SE ANCHE IL MULLAH E' ILLUMINATO
Oggi alla Camera, ospiti della vicepresidente Marina Sereni, PeaceWaves (una antica Ong di Savona che si occupa di Afghanistan) e due docenti dell'università salesiana Rebaudengo di Torino hanno presentato i risultati di una ricerca che si intitola “La cultura come sfida per la ricostruzione: le opinioni e le proposte della società civile afghana sul potere delle donne e lo sviluppo educativo dei bambini e dei giovani nel loro Paese”. Alla ricerca hanno partecipato le università di Herat e la Strathclyde di Glasgow oltre alla già citata Ong e all'ateneo torinese. I risultati confermano quanto sappiamo: le donne hanno cognizione dei loro diritti e di quanto poco essi si trasformino da legge in pratica. La tradizione resta un ostacolo al loro sviluppo. Credono nell'istruzione. L'istruzione, come ormai si sa, è in effetti l'unico campo dove davvero la guerra ha portato un progresso reale: l'analfabetismo è sceso, bambini e bambine vanno a scuola (queste ultime un po' meno), tantissimi giovani entrano all'università. E' l'unico dato che emerge come costante in tutti i sondaggi sulla percezione che gli afgani hanno rispetto ai passi avanti (pochi) degli ultimi dieci anni.

Ma quel che mi ha colpito della sintesi presentata è un altro dato. Basata su un questionario, la ricerca ha sondato gli umori di donne, giovani e meno giovani ma anche dei mullah. In molti casi le risposte di questi ultimi sono sorprendenti. Ad esempio alla domanda se i ragazzi che vanno alla moschea (che spesso cura una sorta di educazione primaria) hanno bisogno di maggior istruzione, il 65% si dice fortemente favorevole (il 70% se si considerano anche i solo "favorevoli") mentre il 29% è “fortemente contrario”. Il 29% (31 se si considerano anche i solo “contrari”) non è poco: vuol dire un mullah su tre. Ma sette su dieci che si dicono a favore di una maggior istruzione è un dato interessante. Quanto poi se alle parole seguano i fatti o se per miglior istruzione si intenda l'università Al-Azhar questo è un alto discorso.
Alla domanda se l'istruzione è importante per entrambi i generi, le donne rispondono con un evidente "fortemente si" al 77% e i mullah solo con un 41% . Ma il 41% di quelli che sono “fortemente d'accordo” sommato a un 25% di chi è semplicemente "d'accordo", fa una platea del 66%: quasi sette su dieci dei mullah intervistati (sei province), il che è davvero un dato importante (solo il 34% dei religiosi si dice contrario). Persino il giudizio sulle Ong e sulla spinta all'emancipazione femminile della comunità internazionale è abbastanza rassicurante nelle risposte dei mullah. Personaggi molto spesso poco tenuti in conto come se questo esercito di religiosi-insegnanti di villaggio non contasse. O se fosse composto, come vuole la vulgata, solo da estremisti oscurantisti e ignoranti.
mercoledì 8 febbraio 2012
COSA PENSANO DI NOI GLI AFGANI



E la pace possibile? Pur sottolineando l’inefficacia della soluzione militare, gli afgani “sostengono la via della riconciliazione (e) della soluzione politico-diplomatica, e ritengono che escludere a priori ogni ipotesi negoziale significhi condannare il paese a un conflitto permanente”. Ma le idee a riguardo restano abbastanza vaghe e confuse anche fra gli afgani, spiega Battiston. Come forse lo sono, aggiungiamo noi, anche nelle nostre teste.
Anche su Il Fatto Online
martedì 31 gennaio 2012
COSA PENSANO GLI AFGANI DELLE TRUPPE INTERNAZIONALI?

«Le truppe straniere agli occhi degli afghani. Opinioni, percezioni e rumors a Herat, Farah e Badghis» è una ricerca promossa dall’organizzazione umanitaria Intersos, attiva in Afghanistan, e realizzata da Giuliano Battiston, giornalista e ricercatore, già autore di ricerche e reportage dall’Afghanistan. Tenendo presente la letteratura accademica in materia, essa si basa su una serie di interviste realizzate nel 2011 nelle tre province citate, che si trovano nell’area del comando regionale occidentale Isaf-Nato, sotto responsabilità italiana...Leggi tutto su Lettera22
(la foto è di Romano Martinis)
Iscriviti a:
Post (Atom)