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lunedì 9 settembre 2024

Benvenuti all'edizione 2024-2025 della Scuola di Giornalismo della Fondazione Basso


Come ogni anno parte a breve una nuova sessione (2024-2025) della Scuola di Giornalismo della Fondazione Basso, fondata ormai diversi anni fa da Maurizio Torrealta e Linda Bimbi e ora diretta dalla collega Marina Forti. E' una scuola sui generis dove, accanto alla tecnica (scrittura, fotografia, video, podcast e tutto il correlato), facciamo attenzione ai contenuti, accompagnando le lezioni con orientamenti sulla politica internazionale, l'etica giornalistica, la geografia delle relazioni mondiali, la parte giuridica e quella amministrativa, gli approfondimenti sui continenti, l'ambiente, il modo di condurre un'inchiesta o fare un reportage. Non dimentichiamo mai che siamo la Scuola della Fondazione Basso, un'istituzione nel vero senso della parola,  a cui siamo felici di appartenere.

Il corpo docente viene da esperienze diverse (la Rai, il mondo dei free lance - come nel mio caso - diverse testate, il pianeta della radiofonia, la pubblica amministrazione). Non è una scuola per dire "come si fa" ma un corso per dire che "si potrebbe fare così". Il resto dovete metterlo voi studenti, la vostra passione, curiosità, autonomia. Ci teniamo a sviluppare queste doti che sono al base del nostro mestiere. Benvenuti dunque.

Tutte le informazioni le trovate qui

Emanuele Giordana è con Paolo Affatato il docente di tecniche di scrittura

sabato 2 dicembre 2023

Ritorno alla Radio. Quattro podcast per raccontare i confini dell'Asia


Oggi posso ben dirlo. Torno alla radio, vecchia passione, dopo oltre dieci anni da quando - nel giugno del 2013 - Marino Sinibaldi, allora direttore del terzo canale, mi diede il benservito. Feci finta di nulla ma la cosa mi bruciava e soprattutto non capivo perché. Ancora adesso non so chi avesse messo un veto sul mio nome o sul mio modo "sporco" di fare la rassegna stampa (qualcuno mi disse che sembrava che io facessi colazione mentre leggevo i quotidiani... ). Certo, ognuno ha un suo stile (e i suoi contenuti) e può piacere o non piacere. Il mio è uno stile "sporco", come un libretto di appunti scarabocchiato velocemente tra un autobus sgangherato e un taxi collettivo. E' la mia cifra.

Oltre dieci anni dopo, Next New Media mi ha dato la possibilità di tornare al microfono e con la massima libertà. Abbiamo concordato i temi e poi Sara Sartori, la curatrice, mi ha fatto il contropelo segnalandomi qualche buco, una spiegazione mancante, un salto di ritmo. Ma la produzione ha anche scelto di farmi registrare a modo mio. Non in un asettico studio insonorizzato e dal sound così pulito da diventare anonimo. Ma tra le pareti di casa, guardando dalla finestra, cercando solo di non far troppo rumore (mi chiamavano il "rumorista" di Radio3). Ne sono usciti quattro podcast che raccontano un tema a me caro: i confini, tradottosi anni fa in un libro (Sconfinate) che, grazie ad altri autori, ne raccontava alcuni con le tragedie connesse, e che ebbe una certa fortuna editoriale.

Devo dunque al team di NNM il mio ritorno all'etere, al racconto che poi, ma solo saltuariamente, ho applicato a qualche data di Wikiradio. Mi mancava la radio e mi mancò a lungo RadioTreMondo (allora curata da Cristiana Castellotti) che per me era stata una scuola fondamentale di cui ho fatto tesoro nel mio lavoro di reporter. Rieccomi dunque e se volete saperne di più potete ascoltarvi questa breve intro che spiega dove, come e quando dei 4 podcast lungo i confini di tenebre dell'Asia. Se poi volete, il 4 dicembre lunedi, alla Fondazione Basso alle 18, presentiamo la serie con Tiziana Guerrisi e Sara Sartori. Modera Daria Corrias di Radio Rai Tre. Una sorta di ritorno in famiglia.

Ascolta l'intro qui 


Scritto e raccontato da Emanuele Giordana
Coordinamento editoriale: Tiziana Guerrisi
Producer: Sara Sartori
Post-produzione: Pietro Snider
Supervisione musicale: Lorenzo Sidoti
Progetto grafico: Beatrice Camberau
Coordinamento collana 11Decimi: Andrea Battistuzzi
Produzione Next New Media Srl. novembre 2023 ©️ tutti i diritti riservati.

venerdì 30 luglio 2021

La scuola di giornalismo della Fondazione Basso vista da un docente

Una lezione del direttore M. Torrealta
H
o appena letto le valutazioni degli studenti del corso dell'anno scolastico e devo dire che mi sono
commosso. Alcuni di loro hanno accompagnato la valutazione con una frase non di rito che mi ha confermato, se mai ce ne fosse stato bisogno, che per me frequentare la scuola, anche se in veste di docente, è una delle più belle attività che ogni anno accompagnano quella parte di inverno che, obtorto collo, mi tocca passare in Italia. Ogni anno il corso è una piccola scommessa: cosa posso aggiungere - mi chiedo - e cosa non ha pienamente soddisfatto i miei studenti? Non tutte le valutazioni infatti sono positive e c'è un "sufficiente" che mi obbliga a rifarmi la domanda. Insegnare è uno dei mestieri più difficili che esistano: non tanto e non solo per quel che si sa (e non si sa) ma perché è difficile tenere alta la tensione e quindi l'attenzione. Difficile non essere banali e difficile non ripetersi. Ogni anno è una scommessa. E' un po', insomma, come andare in diretta alla radio: avete gli appunti e conoscete il mestiere ma c'è quella magia che è il buio oltre il vetro del vostro pubblico. Adrenalina. L'unico rimedio alla tensione della diretta.

Spero comunque che questa magia si ripeta nuovamente. La scuola di giornalismo della Basso non è solo un corso completo di formazione che risponda, mi sembra alle esigenze, che il mercato del lavoro richiede oggi (saper scrivere ma anche girare, fare i podcast, montare un servizio....). E' anche una scuola che si basa su sani principi e su una storia forte iniziata dai suoi fondatori e proseguita dai tanti (come dimenticare Linda Bimbi?) che quei valori portano avanti. Anche il giornalismo ha i suoi valori e le sue regole. Ignorarle è una furbizia che non paga.

Ecco dunque il link per dare un'occhiata al bando 21-22 con l'invito a iscrivervi. Purtroppo la cifra richiesta non è piccolissima (seppur meno della media delle scuole di giornalismo) ma potete informarvi tra chi l'ha frequentata se ne vale la pena. Per me si, ma questa è un'altra storia....

martedì 9 luglio 2019

Il Bando della Scuola di giornalismo Fondazione Basso

La Fondazione Basso è lieta di comunicare l'apertura del bando della Scuola di giornalismo Lelio Basso - XV edizione - 2019-2020


Bando aperto (1 luglio - 15 ottobre)



OPEN DAY: 5, 27 sett, 11 ott, 17h00
Fondazione Basso
Via Dogana Vecchia, Roma (di fianco al Senato)

Bando e programma didattico qui

1130 ore totali: 600 ore di lezioni frontali, 200 ore di laboratorio, 30 ore seminariali e 300 ore di tirocinio formativo presso testate giornalistiche convenzionate, tra le quali:
Agenzia Dire, Archivio delle memorie migranti, Fanpage, Gruppo GEDI (HuffingtonPost, la Repubblica, La Stampa, l’Espresso), Il Fatto Quotidiano, il manifesto, Left, Oxfam, Radio Vaticana, RAI Radio Televisione Italiana, Sky TG24.

INFO giornalismo@fondazionebasso.it

martedì 11 dicembre 2018

Il diritto dei rohingya

Il lavoro di raccolta di informazioni, testimonianze, prove che ha portato nel settembre del 2017 il Tribunale Permanente dei Popoli (Tpp) a emettere una sentenza di genocidio e crimini di Stato perpetrati a danno di Rohingya, Kachin e altre minoranze birmane, finirà nei faldoni della Corte penale internazionale dell’Aja (Cpi). Un’organizzazione della società civile che per mesi ha raccolto le prove dei crimini birmani intende adesso passare alla Cpi tutti i materiali che furono presentati alla sessione internazionale di Kuala Lumpur nell’autunno dell’anno scorso: materiali che potrebbero integrare il lavoro dei magistrati che, da qualche mese, stanno valutando la possibile incriminazione di chi organizzò e mise in opera una “deportazione” di massa in Bangladesh che, in soli due mesi nel 2017, ha fatto fuggire dal Myanmar oltre 700mila persone. La decisione è stata resa nota ieri a Roma durante una Conferenza organizzata dal Tpp e dalla Fondazione Basso dedicata ai Rohingya nel 70mo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo. Una carta che il Myanmar, allora Birmania, fu tra i primi Stati membri dell’Onu a firmare.

“Prima che italiani, birmani o rohingya… noi siamo umani”. Ha appena iniziato a parlare Maung Zarni che subito strappa l’applauso a una platea in gran parte di studenti di diritto che, ospiti del presidente della Camera Roberto Fico, sono venuti a Montecitorio per l’incontro voluto dalla Fondazione Basso e dal Tpp sulla tragedia dei Rohingya, la minoranza musulmana senza cittadinanza cacciata dal Myanmar in Bangladesh pogrom dopo pogrom. Maung Zarni è un birmano buddista – dunque due volte colpevole di aver preso le parti dei reietti - che al suo Paese non può più mettere piede. Fa parte della Free Rohingya Coalition, un’organizzazione che fa campagna per il popolo ormai senza patria. In Europa, con il suo compagno Nay San Lwin, stanno facendo il giro delle capitali per convincere la Ue a prendere una posizione più dura verso il Myanmar: “per levare tutti i benefici commerciali” a un Paese che – spiega Zarni - “non può essere definito una democrazia in transizione visto che la Costituzione prevede come legale un golpe militare”. Ma Zarni e Lwin non hanno nessun appuntamento istituzionale. Il governo italiano, in linea con i precedenti, ha scelto il silenzio sul dossier rohingya. Un po’ come ha fatto per la giornata della Dichiarazione dei diritti dell’uomo che proprio ieri celebrava settant’anni. Bizzarro che a ricordarla sia solo la società civile e la sensibilità isolata del presidente della Camera. Bizzarro, forse, ma non certo inutile.

Franco Ippolito, che è presidente della Fondazione Basso e dunque anche del Tpp che da Lelio Basso fu fondato, sottolinea l’importanza di strumenti non istituzionali che alla fine riescono sempre a fare pressione sulle istituzioni. Il Tpp infatti è solo un “tribunale d’opinione” e, aggiunge il giurista Nello Rossi “il suo lavoro è più importante per le audizioni – ossia per la raccolta delle testimonianze - che non per le sentenze”. E’ un tribunale che dunque continuerà a lavorare, conclude Ippolito, “proprio perché perda di senso un tribunale d’opinione”. Perché, aggiunge Gianni Tognoni che del Tpp è segretario generale “le vittime siano dei soggetti” non delle semplici comparse. Nel fare il punto sullo stato dell’arte della tutela dei diritti umani, Giuseppe Palmisano e Luigi Ferrajoli, sottolineano il divario creatosi tra le promesse scaturite dopo la seconda Guerra mondiale e la realtà dei fatti. “Promesse – dice Ferrajoli – di una stagione costituente formidabile” ma che ha sempre bisogno di strumenti di denuncia e di dibattiti uno dei quali, ricorda Palmisano, dovrebbe ritornare sul problema complesso “dell’uso della forza”.

La grande stanza dove aleggiano gli arazzi che richiamano la formidabile stagione costituente che partorì la Costituzione italiana è attraversata dal brivido che solo certe parole possono evocare: genocidio, deportazione, trasferimento forzato, stupro, omicidio di massa. Ci vuole che la giurista Flavia Lattanzi, una signora coi capelli bianchi e lo spirito di una trentenne, prenda la parola dal pubblico: “Se la Corte penale internazionale ha deciso, dopo molte resistenze, di avviare l’indagine, si deve alla caparbietà e al lavoro anche di qualche giovane giurista che è riuscito a spuntarla. Lo dico a voi – dice questa canuta giovinetta alla platea - perché ognuno di noi e di voi può fare, nel suo piccolo, qualcosa”. E lascia acceso un piccolo testimone luminoso con la certezza che qualcuno lo raccoglierà.


domenica 3 aprile 2016

Una fondazione per le donne afgane. Nel nome di Soraya e nello spirito di Amanullah

Riporto l'intervista a Soraya Malek -  e il resoconto dell'incontro - dopo che alcuni giorni fa la nipote di re Amanullah ha intrattenuto una lunga conversazione con gli studenti della Scuola di Giornalismo Basso di Roma. La principessa ha parlato del suo prossimo impegno afgano a favore delle donne, in linea con l'eredità spirituale e politica dei suoi avi. A seguire un breve reportage dalla casa romana che ospitò il monarca e la sua famiglia  durante l'esilio.

Quando andrò a Kabul fonderò la Soraya d’Afghanistan Foundation proprio in onore di mia nonna. Per aiutare le donne dell’Afghanistan”. La principessa Soraya Malek annuncia agli studenti della scuola di giornalismo della Fondazione Basso, a Roma, l’intenzione di dare vita, anche nella capitale afgana, all’associazione nata in Italia con la collaborazione del Centro Studi Cappella Orsini. Obiettivo dell’iniziativa è la valorizzazione dei saperi tradizionali del Paese e la realizzazione di progetti finalizzati a rendere le donne afgane economicamente produttive, anche attraverso forme di comunicazione legate alle nuove tecnologie. È dal nonno, il re Amanullah Khan, che Soraya eredita il suo impegno al servizio del popolo afgano. Un impegno rivolto in particolare alle donne, costrette a vivere una condizione di forte limitazione dei diritti e delle libertà fondamentali.
In un’intervista sulla condizione femminile in Afghanistan, sua madre, la principessa India d’Afghanistan, afferma che il vero disastro per le donne afgane avviene a partire dall’invasione sovietica. Lei è d’accordo e, se sì, perché individua nell’invasione sovietica un momento di rottura rispetto al percorso di emancipazione delle donne in Afghanistan?
Con l’invasione sovietica sono saltati tutti i valori. È stata una cosa terribile. Per un anno non
sono riuscita a dormire la notte al pensiero dei sovietici che entravano con i carri armati in Afghanistan e che avvelenavano le acque. Con il senno del poi mi sono resa conto che si è trattato di una guerra a distanza tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Certamente i sovietici hanno fatto cose orribili però, osservando ciò che è successo in seguito, mi rendo conto che alcuni mali sono successivi a quell’evento di portata storica. Non dico che erano meglio i sovietici, o che era meglio Saddam Hussein, o Assad. Io ero per Saddam Hussein, anche se ovviamente non sono d’accordo su come Saddam ha affrontato la questione curda. Sotto il suo governo però le donne erano senza velo, potevano circolare liberamente nelle città. Tutte le donne, curde, arabe, persiane d’Iraq, sciite, sunnite. Non c’erano distinzioni. Adesso le donne di Iraq stanno come sappiamo. Lo stesso vale per le donne afgane. Comunque tutto è iniziato con l’invasione sovietica. Perché i sovietici hanno invaso l’Afghanistan? Niente succede per caso. Nel 1978 la Conferenza di Panama il G6 decise di non appoggiare più lo shah di Persia e di portare Khomeini in Iran. Gli occidentali volevano che lo shah dichiarasse guerra all’Iraq, ma lo shah si rifiutò perché non voleva mettere in discussione gli accordi di Algeri del 1975. Ma perché gli occidentali hanno favorito l’ascesa di Khomeini? Per destabilizzare le repubbliche socialiste sovietiche musulmane in Kazakistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan. A quel punto l’Unione Sovietica ha deciso di invadere l’Afghanistan per paura che la propria area di influenza si contaminasse con l’integralismo, poi con il fondamentalismo. È tutto in mano all’Occidente e ai fondamentalisti che si fanno manovrare.

sabato 29 marzo 2014

Piccola pubblicità

Lelio Basso
Mi permetto di segnalare in questo piccolo spazio pubblico, il nuovo bando della Scuola di giornalismo della Fondazione Basso. Cosa distingue questa scuola (che ha ora una certificazione europea) dalle altre sparse sul territorio nazionale (oltre al prezzo sensibilmente competitivo)? Credo la declinazione verso la politica estera, Cenerentola del giornalismo italiano ancora indeciso se Cali sia una città della Colombia o una dea con tre paia di braccia e una collana di teschi.  Dei docenti non dico (anche perché sono tra questi) ma sulla scelta delle materie e dell'orientamento credo valga la pena di spendere una parola. Di questi tempi forse è bene attrezzarsi a guardare il mondo, andando anche oltre l'Europa estensione dell'ombelico di casa che si è finalmente guadagnata un po' di spazio. Se dovete scegliere fateci un pensierino.

Cliccando qui trovate tutte le informazioni

martedì 23 aprile 2013

L'INDIA DI TENEBRA DI MARINA FORTI


Giornalista di vaglia cresciuta a il manifesto (lasciato non senza dolore qualche mese fa) Marina Forti torna nei luoghi che l'hanno sempre affascinata e che più volte ha raccontato sulle pagine del quotidiano per lunghi anni in via Tomacelli. Parte di quei reportage, alcuni dei quali nel cuore profondo del Paese, Marina decide, dopo aver raccontato ne La signora di Narmada i guasti e le lotte ambientali nel subcontinente, di riversarli nel racconto lato di altri guasti e lotte: la guerra infinita che oppone l'India rurale e in parte ideologizzata dei naxaliti a un assalto senza remore alle risorse, ignorando chi vive negli ambiti territori da depredare. Questa passione per i poco raccontati guerrieri del Sud si fa - in Il cuore di tenebra dell'India (Bruno Mondadori, pp 165, euro 16) - passione letteraria che accompagna il lettore in un viaggio che da Conrad media, oltre al titolo, la passione per la narrazione. Narrazione meno fredda di molti reportage di Marina, nei quali lo spazio angusto di una pagina di giornale (la “dittatura” delle battute che ogni giornalista conosce) costringe a mettere in fila le notizie e assai meno i paesaggi, gli sguardi e l'umanità della gente, le mille sfaccettature di un Paese che è in realtà un pianeta con mille volti. Con un salto di qualità nella scrittura Marina torna dunque in India e il libro sembra essere una tappa intermedia a nuovi racconti sul “Paese emergente” di cui conosciamo, quando va bene, solo l'aspetto “shining” (per usare un'espressione cara alla propaganda nazionalista indiana) o quello esotico-orientalista degli ashram. Entrambi assai lontani dalla sua penna.

Domani 24 APRILE alle 17 la presentazione del libro alla Fondazione Basso (dietro al Senato in Via della Dogana vecchia 5) con Junko Terao, giornalista di Internazionale e di Lettera22, e Massimo Loche, giornalista e scrittore

mercoledì 17 aprile 2013

FICHI ROSSI A MAZAR

Venerdì 19 aprile, alle ore 17.00 in via della Dogana Vecchia 5 a Roma, la Sezione internazionale della Fondazione Basso, nell’ambito del ciclo “Cittadini del mondo: incontri di approfondimento sulle contraddizioni della società contemporanea globale”, presenta il libro I fichi rossi di Mazar-e Sharif di Mohammad Hossein Mohammadi (Ponte33).



I fichi rossi di Mazar-e Sharif è una raccolta di racconti che sintetizza la cronaca di un conflitto interminabile. Un libro che rappresenta l’occasione per parlare dei conflitti afghani di ieri e di oggi, del ruolo della società civile nella ricostruzione del paese, delle aspettative della popolazione per il dopo-2014.

Con l’autore e l’editore intervengono:
Giuliano Battiston, giornalista e ricercatore freelance
Marina Forti, giornalista e docente della Scuola di giornalismo della Fondazione Basso
e il sottoscritto, portavoce della rete Afgana e docente della Scuola di giornalismo della Fondazione

domenica 29 marzo 2009

IL MESTIERE DI SCRIVERE

Con una certa riluttanza ho accettato di fare alcune ore di insegnamento alla Scuola di giornalismo della Fondazione Basso, a Roma. Non ho potuto dire di no a Linda Bimbi, che regge le sorti della Fondazione, e tanto meno a Maurizio Torrealta, uno dei giornalisti italiani che stimo di più e che la scuola dirige. Ma...

La riluttanza era dovuta al fatto che l'insegnamento è forse il lavoro più difficile e complesso che si possa fare. Non richiede solo nozioni e competenza,
ma la capacità di trasmetterle, oltre a una buona dose di iniziativa per evitare che i vostri allievi comincino a sbadigliare segnalandovi che non ne possono più delle vostre chiacchiere. Infine, insegnare che cosa? Per fare il nostro mestiere basta sapere l'italiano ed essere abbastanza onesti intellettualmente da voler raccontare la verità, o almeno quella che vediamo e percepiamo. Certo, un buon giornalista è un'altra cosa. E' innanzi tutto, come si dice, la sua agenda di numeri di telefono. Ma il mestiere si impara in fretta. Una scuola può darvi una buona formazione giuridica, storica, in parte letteraria. Ma poi il mestiere si fa col notes e l'esercizio quotidiano. Che affina anche lo stile: il proprio stile. Quello per cui di un bravo giornalista amate anche quell'amabile scorrere delle parole, un piacere mentre leggete e vi informate.

Sono stato fortunato
e ho avuto una classe di “ragazzi” (li chiamo così ma sono adulti fatti e finiti) che mi hanno sopportato per l'intero ciclo e, alla fine, dopo qualche ora di teoria (in cui mi sono fatto supplire da Lucio Racano, un giornalista di agenzia che conosce la lingua meglio di me e che ha insegnato loro le quattro regole d'oro che bisogna conoscere) siamo andati sul pratico, l'unica arte che io davvero conosca. Col tempo ho scoperto che è solo scrivendo che si impara a scrivere. Rileggete il pezzo e vi accorgete che non va, non scivola e mancano alcune cose essenziali. E se lo rileggete il giorno dopo, sarà ancora più insoddisfacente. Ho imparato a rileggere le mie cose finite almeno due volte e, se ho tempo, almeno tre, mettendoci in mezzo un panino o una chiacchiera o una birretta, per interrompere il flusso dei pensieri e vedere i refusi.

Ma in questi tempi galeotti e oscuri, nei quali una nube sembra oscurare un'orizzonte incerto, ho cercato di tramettere ai miei ragazzi (che vedete nella foto) l'idea che è necessario essere flessibili e saper scrivere per chiunque. E non solo perché le notizie sono sempre le stesse. Perché il nostro mestiere sta cambiando: al reporter si sta sostituendo il webter (web reporter) e al televisivo si va sostituendo il tuttofare che filma, scrive, monta. Nella nuova catena di montaggio editoriale (la cui trasformazione si è capita con l'espulsione dal mercato dei poligrafici) il giornalista è il nuovo operaio di una macchina complessa che lavora sempre più in regime di semi schiavitù (una cosa di cui il sindacato non sembra essersi accorto). Dunque bisogna adattarsi. Ma con la schiena dritta. Anche questo ho cercato di dire.

Non rinunciate mai alla vostra passione, alla curiosità delle cose del mondo, e soprattutto alle vostre idee. Anche se dovrete scrivere (non ve lo auguro) per un giornale che vi fa pietà. Impossibile? No, possibilissimo. E anche il blog darà una mano. Palestra di pensiero libero. Oggi forse più letta dei giornali