Libertà di opinione e censura: Il social network di Mark Zuckerberg chiude le pagine di portali di
movimento e informazione indipendente italiani che sostengono la lotta curda in Siria contro la Turchia. Oscurate Radio Onda d'Urto di Brescia, Milano In Movimento, GlobalProject, e Contropiano. A rischio anche DinamoPress e Infoaut. La denuncia dei siti coinvolti.
“I contenuti oggetto dell’operazione sono strettamente legati a post in cui si evidenziava il sostegno alla causa curda e si esprimeva il legittimo dissenso a quanto sta succedendo in Siria del Nord a opera della Turchia. Una guerra che aggiunge anche la questione dell’informazione e della comunicazione nel novero dei terreni di contesa, che si sommano ai più evidenti aspetti economici, politici e militari. Evidentemente, l’espansionismo di Recep Erdoğan non è solo territoriale, ma si propaga anche nell’intelligence digitale.
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giovedì 17 ottobre 2019
martedì 26 marzo 2019
Perché resto filocinese

Negli anni Settanta un’intera generazione fu abbagliata dal maoismo. Ero tra quelli: filocinese allo spasimo con una copia del libretto rosso e un abbonamento al Pekin Information, disponibile in varie lingue. Pensavamo ai meriti della rivoluzione cinese ma preferivamo non sapere o non vedere il dramma della rivoluzione culturale. Sapevamo che in quel grande Paese era finita l’era della borghesia compradora – il tramite locale del commercio coloniale – e che finalmente tutti potevano mangiare. Ma ci illudevamo che il modello fosse definitivo ed esente dalle pecche insite nella traduzione cinese del leninismo: centralista, autoritaria, univoca.
Poi sull’Impero di mezzo calò un silenzio durato mezzo secolo fino alla scoperta che il modello aveva trasformato il socialismo in capitalismo di Stato la cui applicazione egualitaria risiedeva nello slogan “arricchirsi è giusto”. Libertà per tutti di far soldi purché all’interno delle linee visionarie partorite dal Comitato centrale. Un po’ di anni fa i cinesi hanno cominciato ad allargare la visione al di là dei confini come un Impero che si rispetti deve fare. E adesso siamo qui a fare i conti con una scelta di campo: restare con gli americani, di cui conosciamo pregi e pecche, o affidarci alla Nuova Via della Seta indicata da Pechino? O ancora trovare un equilibrio tra i due imperi oppure rifiutare in toto l’avanzata dei musi gialli restando ancorati alle antiche sicurezze e ai loro difetti senza correre il rischio di sperimentarne di nuovi?
Se devo dirla tutta, son rimasto filocinese. Ma col tempo ho ovviamente imparato l’arte del dubbio e a soppesare i pro e i contro da mettere sul piatto della bilancia. Oggi nel mondo ci sono grosso modo tre imperi: quello americano, quello russo e quello cinese. Bisogna farci i conti anche se obtorto collo. Posto che siamo molto vincolati al primo e che, purtroppo, nessuno dei tre si distingue nel tentativo di superare un modello di sviluppo incentrato sul consumo dei beni naturali del pianeta e sul consumo del surplus di beni prodotti dall’industria, da che parte dobbiamo stare? O meglio, visto che difficilmente possiamo liberarci dall’abbraccio americano – ci piaccia o no - e che non siamo molto interessati a quello post sovietico-zarista - cosa dobbiamo temere dai Grandi Timonieri?...
segue su Dinamopress
PS
Una lettura equilibrata tra potenzialità e rischi dell’abbraccio l’ha scritta Andrea Pira per Sbilanciamoci
mercoledì 30 gennaio 2019
Trenta, Moavero e la guerra afgana
Il fatto che il ministro degli Esteri Moavero Milanesi abbia detto di non saperne nulla, all’indomani delle indiscrezioni sul ritiro dall’Afghanistan dei soldati italiani nell’arco di 12 mesi deciso dalla ministra Trenta, è non solo anomalo e imbarazzante ma la spia di due debolezze. La prima riguarda una scelta evidentemente non condivisa all’interno del governo se un ministro dice una cosa e l'altro, in un certo senso, la smentisce. La seconda riguarda invece una debolezza strutturale degli ultimi governi del Paese, di centro sinistra come di centrodestra e ora di indefinito colore: quella cioè di aver affidato al ministero della Difesa la gestione della guerra afgana, un trasferimento di poteri che bypassa il primo ministro e il titolare della Farnesina, le due figure istituzionalmente deputate alla gestione di un conflitto. Anche un terzo elemento è di una certa gravità: l’aver ignorato il parlamento (e persino il consiglio dei ministri), come se una decisione tanto importante – il ritorno dei nostri soldati da una guerra che dura da 17 anni - possa essere una misura che si decide con un provvedimento amministrativo da parte di un ministero. E’ la spia di un processo lungo che ha visto nel tempo diminuire la presenza della diplomazia e affermarsi la primogenitura delle armi.
I premier italiani hanno smesso di visitare l’Afghanistan lasciando l’incombenza ai ministri della
Difesa. Questi ultimi, ormai vestiti in mimetica come se fossero soldati e non rappresentanti civili di un governo, si guardano bene dall’andare a salutare per primo il presidente afgano in carica. Passano in rivista le truppe e, se va bene, incontrano il loro omologo o, più spesso, i vertici Nato in un Paese dove l’occupazione militare è stata la cifra di una “missione di pace” approvata – di disse allora - per combattere il terrorismo ma anche per sostenere lo sviluppo, la libertà delle donne, i diritti umani. Se la forma è anche sostanza, la beffa di due ministri che battibeccano nientemeno che sulla fine della partecipazione a un conflitto, non è che la logica conseguenza di questo percorso. Debole (perché demanda in realtà agli Stati Uniti la decisione se si debba o meno restare in Afghanistan) e pericoloso (perché abitua i cittadini a pensare che il tema della guerra appartenga soltanto alla sfera militare). Da questo punto di vista, anche la società civile italiana non è esente da critiche. L'associazionismo italiano ha lasciato scorrere l’acqua della guerra afgana – la più lunga della storia recente - come un flusso tutto sommato di ordinaria amministrazione. Distratta da nuovi conflitti (Siria, Kurdistan, Libia) si è dimenticata di quello più vecchia: la madre di tutte le guerre a cavallo del secolo che, nel dicembre prossimo, compirà 40 anni.
Intanto, se il condizionale è d’obbligo nelle questioni afgane, anche la bozza d’accordo che i talebani avrebbero concordato nel Qatar con l’inviato americano Zalmay Khalilzad va trattata con prudenza. Dopo quasi una settimana di colloqui diretti, Khalilzad e la rappresentanza politica talebana che ha sede a Doha, sono arrivati a un accordo di massima su alcune questioni fondamentali anche se non del tutto risolutive. La prima riguarda un calendario d’uscita delle truppe straniere dal Paese (Nato compresa, che – come ha già ha fatto Roma - si adeguerà alle scelte americane), precondizione per trattare il resto. Gli americani avrebbero anche ottenuto garanzie su un’uscita indolore senza attacchi di sorpresa mentre i talebani si sarebbero impegnati a non avere nessun legame né con Al Qaeda né con lo Stato islamico. Gli altri punti nevralgici – il dialogo col governo di Kabul e il cessate il fuoco – restano invece dei nodi, non secondari, da sciogliere. Non è nemmeno chiaro se Washington potrà conservare l’utilizzo – magari con un ridotto numero di soldati – della base aera di Bagram, hub strategico in caso di conflitto con Mosca o Teheran. Difficile che gli americani vi intendano rinunciare....
... (continua su DinamoPress)
Nelle immagini: Elisabetta Trenta, Enzo Moavero, Donald Trump
I premier italiani hanno smesso di visitare l’Afghanistan lasciando l’incombenza ai ministri della
Difesa. Questi ultimi, ormai vestiti in mimetica come se fossero soldati e non rappresentanti civili di un governo, si guardano bene dall’andare a salutare per primo il presidente afgano in carica. Passano in rivista le truppe e, se va bene, incontrano il loro omologo o, più spesso, i vertici Nato in un Paese dove l’occupazione militare è stata la cifra di una “missione di pace” approvata – di disse allora - per combattere il terrorismo ma anche per sostenere lo sviluppo, la libertà delle donne, i diritti umani. Se la forma è anche sostanza, la beffa di due ministri che battibeccano nientemeno che sulla fine della partecipazione a un conflitto, non è che la logica conseguenza di questo percorso. Debole (perché demanda in realtà agli Stati Uniti la decisione se si debba o meno restare in Afghanistan) e pericoloso (perché abitua i cittadini a pensare che il tema della guerra appartenga soltanto alla sfera militare). Da questo punto di vista, anche la società civile italiana non è esente da critiche. L'associazionismo italiano ha lasciato scorrere l’acqua della guerra afgana – la più lunga della storia recente - come un flusso tutto sommato di ordinaria amministrazione. Distratta da nuovi conflitti (Siria, Kurdistan, Libia) si è dimenticata di quello più vecchia: la madre di tutte le guerre a cavallo del secolo che, nel dicembre prossimo, compirà 40 anni.

... (continua su DinamoPress)
Nelle immagini: Elisabetta Trenta, Enzo Moavero, Donald Trump
martedì 14 novembre 2017
Piccola pubblicità: perchè sostengo DINAMOpress
DINAMOpress è un progetto editoriale di informazione indipendente nato l'11 novembre 2012 dalla
cooperazione tra diversi spazi sociali di Roma, giornalisti professionisti, ricercatori universitari, video maker e attivisti. "Racconta e approfondisce - spiegano i suoi promotori - le questioni principali che riguardano il presente: politica locale e internazionale, precarietà e sfruttamento, femminismi, emergenze razziste e fasciste, forme di vita giovanili, produzioni culturali cinematografiche e musicali, migrazioni internazionali, problematiche ecologiche, cortei e mobilitazioni, beni comuni..."
Quello che viene presentato in questi giorni è il progetto di finanziamento alla luce del sole di un'iniziativa editoriale che ha lo scopo di allargare l'informazione su ciò che avviene. Può piacervi e anche non piacervi ma credo che vada sostenuta. Date un'occhiata al sito e poi se credete andate alla pagina dov'è spiegato il progetto e dove è possibile fare una donazione. Se posso aggiungere un pensiero, riguarda il fatto che oggi siamo bombardati da informazioni ma molto spesso di bassa qualità. Lasciamo stare le fake news, le bufale evidenti e le coglionate (al mondo c'è posto per tutti) ma quel che è da temere è la disinformazione: ben cucinata, professionalmente perfetta e apparentemente asettica. DinamoPress asettica non è. Professionale si. E' una lampadina (o una dinamo se preferite) accesa nel buio dell'informazione mainstream. Anche 5 euro possono fare la differenza.
cooperazione tra diversi spazi sociali di Roma, giornalisti professionisti, ricercatori universitari, video maker e attivisti. "Racconta e approfondisce - spiegano i suoi promotori - le questioni principali che riguardano il presente: politica locale e internazionale, precarietà e sfruttamento, femminismi, emergenze razziste e fasciste, forme di vita giovanili, produzioni culturali cinematografiche e musicali, migrazioni internazionali, problematiche ecologiche, cortei e mobilitazioni, beni comuni..."
Quello che viene presentato in questi giorni è il progetto di finanziamento alla luce del sole di un'iniziativa editoriale che ha lo scopo di allargare l'informazione su ciò che avviene. Può piacervi e anche non piacervi ma credo che vada sostenuta. Date un'occhiata al sito e poi se credete andate alla pagina dov'è spiegato il progetto e dove è possibile fare una donazione. Se posso aggiungere un pensiero, riguarda il fatto che oggi siamo bombardati da informazioni ma molto spesso di bassa qualità. Lasciamo stare le fake news, le bufale evidenti e le coglionate (al mondo c'è posto per tutti) ma quel che è da temere è la disinformazione: ben cucinata, professionalmente perfetta e apparentemente asettica. DinamoPress asettica non è. Professionale si. E' una lampadina (o una dinamo se preferite) accesa nel buio dell'informazione mainstream. Anche 5 euro possono fare la differenza.
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