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venerdì 17 luglio 2020

Libertà di stampa, pugno di ferro in Malaysia

Il rapporto e la gestione con i migranti in Malaysia, caratterizzati nei mesi scorsi da deportazioni e arresti, ha visto crescere le intimidazioni ai giornalisti che si sono occupati del caso e suscitato la preoccupazione delle organizzazioni di difesa della libertà di espressione. L’ultimo capitolo riguarda un video di inizio luglio dell’emittente del Qatar Al Jazeera in cui viene documentato l'arresto di migranti privi di documenti durante la pandemia Covid-19. Il documentario - Locked Up in Malesia Lockdown – è stato criticato dalle autorità come inaccurato, fuorviante e ingiusto e il ministero della Difesa ha invitato Al Jazeera a scusarsi sostenendo che le accuse di razzismo e discriminazione contro i migranti privi di documenti erano false. La polizia ha annunciato un'indagine sul personale dell’emittente araba per reati come potenziale sedizione, diffamazione e violazione del Communications and Multimedia Act.

La tv del Qatar ha respinto le accuse, segno di una sterzata autoritaria che sembra aver chiuso la luna di miele tra governo e giornalisti che era appena stata lodata da Reporter Sans Frontieres, la maggior organizzazione di difesa della libertà di stampa, secondo cui “dopo la sconfitta a sorpresa del partito dell'ex premier Najib Razak nel maggio 2018, una ventata d'aria fresca ha iniziato a soffiare sulla libertà di stampa... i giornalisti e i media inseriti in una lista nera sono stati in grado di riprendere l’attività (e) l'ambiente generale in cui operano i giornalisti si è notevolmente alleggerito, l'autocensura si è ridotta enormemente e le pubblicazioni del Paese presentano ora opinioni molto più equilibrate tra l'opposizione e la maggioranza”. Una luna di miele interrottasi con la pandemia. Le prima avvisaglie si sono avute dopo un’inchiesta del South China Morning Post sulla condizione dei lavoratori migranti (oltre 5 milioni in Malaysia) e in particolare dopo un articolo - a firma Tashny Sukumaran e Bhavan Jaipragas – che documentava l’arresto violento di centinaia di migranti all’interno di tre dormitori in una “zona rossa” nella capitale Kuala Lumpur il 1 maggio.

In Malaysia, secondo RsF, “l’esecutivo ha ancora un arsenale legislativo assolutamente draconiano per reprimere la libertà di stampa: il Sedition Act del 1948, il Official Secrets Act del 1972, il Press and Publications Act del 1984 e la legge sulle comunicazioni e il multimediale del 1998… che pesano come una spada di Damocle sui giornalisti”. La Malaysia non è per altro l’unico Paese dell’Asia ad aver stretto le maglie della libertà di espressione come ben dimostra il caso della giornalista filippina Maria Ressa: un appello di RsF sul sito dell’organizzazione in suo appoggio ha già quasi raggiunto 10mila firme. In Myanmar, decine di siti internet sono stati chiusi all’inizio di quest’anno con l’accusa di pornografia ma tra questi alcuni erano testate di informazione. Diversi giornalisti infine sono stati incriminati per aver intervistato gruppi guerriglieri definiti terroristi.

mercoledì 29 agosto 2018

Modello Australia

Diciassette migranti vietnamiti che per giorni hanno tentato di raggiungere le coste australiane sono stati “catturati” in una zona di mangrovie infestata da coccodrilli del Far North Queensland. Catturati è la parola giusta perché il sistema di sorveglianza australiano sta già provvedendo a spedirli a Christmas Island, un’isola a 1500 chilometri dalla costa dove, come a Nauru e Manus in Papua Nuova Guinea (la “Libia” australiana), si trovano i centri di detenzione per chi ha forzato il varco marittimo. E’ la prima volta che succede in quattro anni: una falla nel sistema di sorveglianza che, nelle parole di Peter Dutton, il ministro dell’Interno di Canberra, “per 1400 giorni” ha garantito la tolleranza zero dell’Australia verso chi vi cerca rifugio. Quella politica di No way che piace tanto al suo omologo italiano. Ma non sono solo i migranti a passarsela male nel grande Paese dell’Oceania. In questi giorni, già al centro di polemiche per il recente rimpasto di governo, una denuncia del Guardian sui decessi degli aborigeni nelle galere australiane sta surriscaldando il clima.

Il giornale britannico ha documentato con un’accurata inchiesta la violenza costante verso i nativi. Violenza connotata, oltre che dalla negazione del diritto, anche dalla stessa venatura razzista che si proietta poi nelle politiche di protezione dai migranti. Una violenza che si è consumata ai danni di 147 aborigeni - alcuni dei quali bambini - uccisi negli ultimi dieci anni dal sistema carcerario. L’inchiesta – il cui risultato è stato bollato dall’opposizione come "vergogna nazionale" – ha fatto chiedere ai gruppi indigenisti di consentire un immediato monitoraggio indipendente di tutti i centri di detenzione, specie se vi sono prigionieri nativi: benché solo il 2,8% della popolazione australiana si identifichi come indigena, gli aborigeni costituiscono il 27% di quella carceraria, il 22% dei decessi in carcere e il 19% delle morti durante “custodia” in centri di polizia. Le notizie riferite dal Guardian arrivano poi in un momento in cui è in corso un'inchiesta nell'Australia del Sud per la morte di Wayne Morrison, un uomo che è morto in ospedale tre giorni dopo un alterco con le guardie penitenziarie di una prigione di Adelaide. Un filmato reso pubblico lunedi (che si può vedere sul sito del giornale britannico e su Youtube) mostra l'incidente che vede oltre una dozzina di funzionari di polizia affollare il corridoio dove alcuni colleghi stanno avendo ragione di Morrison. Nessuno interviene se non per dar man forte alle guardie.

Migrante o galeotto, peggio ancora se aborigeno, la vita è dura nella civile Australia, presa come
modello dai fautori della tolleranza zero. Oltre 400 aborigeni sono morti dalle conclusioni di una Commissione reale che, quasi trent’anni fa, aveva delineato le modalità che avrebbero dovuto prevenire il decesso di chi si trova in carcere con l’aggravante di essere un nativo. Ma le condizioni non sembrano affatto migliorate: gli aborigeni vengono trattati peggio sia sul piano sanitario sia sotto il profilo giudiziario. Sono i problemi di salute mentale a essere all’origine di quasi la metà dei decessi sotto custodia, mentre alcune famiglie hanno aspettato fino a tre anni per i risultati di inchieste relative al caso dei loro parenti.

La senatrice dei Verdi Rachel Siewert ha definito l’inchiesta del Guardian “un'iniziativa incredibilmente importante che fa luce su un problema devastante". Pat Dodson, un senatore laburista e aborigeno, ha commentato l’inchiesta con parole che sentiamo ogni giorno anche in Italia: “Come nazione stiamo andando indietro”. La polemica per altro infuria su tutti i fronti dopo il rimpasto di governo di qualche giorno fa, che agli australiani non è affatto piaciuto e che ha visto il nuovo primo ministro Scott Morrison succedere a Malcolm Turnbull dopo una votazione del gruppo parlamentare del Partito liberale in quella che la stampa locale ha definito una “civil war”: una guerra interna partita dalla fazione più conservatrice contro quella“moderata” di Turnbull. L’ultimo sondaggio pubblicato dall'Australian premia i laburisti che - nelle preferenze tra i due partiti - prevalgono con il 56% sul 44%. E il leader laburista Bill Shorten prevale nettamente su Morrison come premier futuro col 39% contro il 33 del rivale.

Morrison, famoso per le battaglie contro la legalizzazione del matrimonio tra persone dello stesso
sesso e che era arrivato a proporre che fosse consentito ai genitori di allontanare i bambini dalle classi se si discuteva di unioni "non tradizionali", è uno dei grandi fautori del pugno di ferro: quando nel 2010, quarantotto richiedenti asilo morirono nelle acque della Christmas Island, Morrison criticò la decisione del governo laburista di pagare il viaggio a Sydney ai parenti delle vittime per i funerali, sostenendo che lo stesso privilegio non era esteso ai cittadini australiani (prima gli australiani!). Nel 2013 poi ha lanciato l'operazione Sovereign Borders, la nuova strategia del governo per impedire l'ingresso di imbarcazioni non autorizzate nelle acque australiane.

Cambieranno le cose se i laburisti dovessero vincere? La domanda riguarda non solo chi è aborigeno o chi cerca di sbarcare in Australia ma anche, come abbiamo visto, chi è in galera: 40mila nelle prigioni nazionali, gli oltre 200 migranti detenuti a Christmas Island e i 1600 profughi in “custodia” a Nauru e Manus.

Questo articolo è uscito oggi sul quotidiano il manifesto

martedì 14 febbraio 2017

La guerra infinita. Espulsi dal Pakistan e sotto le bombe degli alleati


Espulsi dal Pakistan in 6oomila in un Paese - il loro, che in molti non vedono da quarant’anni o non hanno mai visto - dove l’ennesimo raid aereo della coalizione alleata al governo di Kabul ha ucciso almeno 18 persone. Civili. In maggioranza donne e bambini.
Tra le due notizie, che hanno un tragico nesso, è difficile stabilire qual è la più grave: da una parte il Pakistan continua il suo programma di rimpatrio forzato di un milione di afgani, dall’altro, in Afghanistan, si continua a morire mentre il comandante della Nato e delle truppe Usa nel Paese, il generale statunitense John Nicholson, invoca più truppe - Nato e americane – e accusa Russia e Iran di appoggiare i talebani. Il risultato è quello di un innalzamento dei toni in questa guerra silente che nel 2016 ha mietuto più vittime da quando la missione Onu a Kabul (Unama) ha iniziato nel 2009 a tenerne il bilancio.

Ed è proprio un rapporto preliminare di Unama ad esprimere «grave preoccupazione» per i raid aerei che, tra il 9 e il 10 febbraio, avrebbero ucciso almeno 18 persone nel distretto di Sangin (Helmand); Resolute Support, la missione Nato in Afghanistan, avrebbe aperto un’inchiesta. Altre sette civili sarebbero invece stati uccisi dai talebani l’11 febbraio durante un attacco a militari afgani a Lashkargah, capitale della provincia. Sangin è una delle aree più guerreggiate e nel solo 2016 l’Helmand ha visto morire 891 civili, una delle percentuali più elevate della guerra. In un Paese dove l’anno scorso le vittime civili sono state oltre 11mila: 3512 morti (tra cui 923 bambini) e 7.920 feriti (di cui 2.589 bambini) con un aumento del 24% rispetto al periodo precedente.

giovedì 20 ottobre 2016

Cronache di Afgania: il ngoziato forse, ma più migranti e disturbi mentali. I talebani e Daesh (aggiornato)

Nonostante l'Afghanistan sia uscito dai riflettori del mainstream qualcosa continua ad accadere nel Paese della guerra infinita con un aumento continuo di vittime civili : i talebani hanno smentito che vi siano stati colloqui di pace col governo ma la notizia, data l'altro ieri dal Guardian, è stata poi confermata da Kabul anche se in forma ufficiosa. Le notizie nella notizia (due incontri a settembre e ottobre a Doha, dove ha sede l'"ambasciata" dell'emirato del movimento guidato da Haibatullah Akhundzada - nella foto a destra tratta da ToloNews) sono anche altre.

A quanto si sa a questi incontri avrebbe partecipato per il governo afgano il National Security Advisor del presidente Ghani,  Mohammad Hanif Atmar e Mohammad Masum Stanekzai, a capo del National Directorate of Security (NDS, i servizi afgani). Per i talebani vi sarebbe stato tra gli altri mullah Abdul Manan Akhund, fratello di mullah Omar e in futuro vi potrebbe partecipare anche Mohammad Yaqoob, il figlio del vecchio leader sostituito da mullah Mansur fatto fuori da un drone americano mesi fa in Pakistan: una mossa che fece fallire un inizio di negoziato sponsorizzato da Islamabad. Infine ci sarebbe stato un diplomatico americano, cosa indirettamente confermata dall'ambasciata a Kabul.*

lunedì 17 ottobre 2016

Afghanistan, rimpatrio forzato: qualcuno ci pensa

Atto Camera

Interrogazione a risposta scritta 4-14498
presentato da
MARCON Giulio
Venerdì 14 ottobre 2016, seduta n. 692

  MARCON. — Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale . — Per sapere – premesso che:
recentemente l'Unione europea ha intrapreso una strada che potrebbe segnare un grave precedente e un punto di non ritorno nelle politiche migratorie: rimpatri forzati in cambio di aiuti economici. Il riferimento è al recente nuovo accordo tra Unione europea ed Afghanistan, il « Joint way forward on migration issues between Afghanistan and EU» firmato a Kabul, al Palazzo presidenziale il 2 ottobre e il suo nesso con la Conferenza internazionale sull'Afghanistan che si è chiusa il 6 ottobre, con la promessa di nuovi sussidi economici al Paese (altri 15,2 miliardi di euro);

giovedì 6 ottobre 2016

Tutti a casa. Accordo Ue Kabul per espellere i migranti

Soldi in cambio di uomini?
La Conferenza di Bruxelles sull’Afghanistan promette aiuti ma li vincola al ritorno degli afgani indesiderati. E nella capitale si prevede un nuovo scalo solo per loro

Dalla Conferenza di Bruxelles sull’Afghanistan, dopo le buone notizie arriva la doccia fredda. E se la borsa è piena per circa 4 miliardi di dollari l’anno sino al 2020 che consentiranno al malridotto governo di Ashraf Ghani di tirare il fiato, gli aiuti sono stati condizionati all’accettazione di un piano segreto che riguarda i migranti afgani costato sei mesi di trattative. Si chiama Joint Way Forward e se n’era parlato già mesi fa quando un memo segreto della Ue aveva delineato una strategia per il rimpatrio di almeno 80mila afgani. Della cosa però non si era più saputo nulla e, addirittura, si era detto che la questione migranti non sarebbe stata vincolata agli aiuti elargiti dal vertice di Bruxelles. Ma la vicenda invece è saltata fuori proprio a Bruxelles che è stata la cornice dell’accettazione del piano da parte di Kabul: un piano che prevede che chiunque si veda rifiutato il diritto di asilo, una volta verificato che non vi siano altre possibilità di accettazione in un Paese membro, venga rispedito a casa. Lo voglia o no. In altre parole una deportazione concordata. A che ritmo? Per i prossimi sei mesi almeno 50 persone per aereo su voli diretti a Kabul o ad altro aeroporto afgano anche se il numero dei voli non viene quantificato. Si capisce però che non saranno pochi, tanto che le parti si sono accordate per un eventuale nuovo terminal dedicato agli espulsi nell’aeroporto della capitale dell’Afghanistan che accetta di riceverli e integrarli, ossia farli semplicemente rientrare nel Paese.

La vignetta spiega bene come la vedono
gli afgani: soldi in cambio del tutti a casa
Sino ad ora solo 5mila migranti afgani hanno fatto ritorno volontario a casa su 178mila che, nel 2015, hanno fatto richiesta d’asilo nella Ue: quattro volte di più che nel 2014 e arrivando a costituire il secondo gruppo di migranti dopo i siriani. Kabul deve fare buon viso a cattivo gioco con oltre un milione di sfollati interni e la minaccia di Islamabad di rimandare a casa entro marzo un milione di afgani, un terzo dei quali è già stato espulso dal Pakistan.

Benché i funzionari di Bruxelles neghino che sia sia utilizzata la leva degli aiuti per far deglutire a Kabul l’amaro calice, è davvero difficile pensare che non sia stato così: Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, è stato chiaro quando ha spiegato che la Ue sosterrà Kabul con denaro e programmi per nuovi posti di lavoro in Afghanistan e già da giorni per altro i tedeschi erano stati ancora più chiari: o l’Afghanistan si riprende i migranti o si chiude la borsa.

domenica 25 settembre 2016

Hei, c'è un cane che ha morso un uomo

Ci sono notizie di serie A e notizie ritenute di serie B che non leggeremo mai anche se riguardano milioni di lavoratori indiani nello sciopero quantitativamente più grande del mondo. Milioni di bambini in fuga. Milioni di afgani sfollati. Milioni di risarcimenti che non arrivano. Oscurati dall’arrivo sul mercato del nuovo iPhone o dalla somiglianza con una star

Dice un vecchio adagio che se un cane morde un uomo non è una notizia ma solo un fatto logico e abitudinario. Se invece un uomo morde un cane allora c’è quell'elemento di “notiziabilità” che le fa meritare un titolo. Anche in prima pagina. Ma non è vero. Se, come dicono i manuali di giornalismo, una notizia è tale se è una novità, se è importante per il grande pubblico, curiosa, stimolante e numericamente consistente, allora c’è qualcosa che non va nell’informazione mainstream. Forse è sempre stato così, perché dietro alla pubblicazione di una “notizia”, c’è sempre una scelta umana, ma oggi può bastare la nascita dell'ultimo telefonino per oscurare 150 milioni di indiani in sciopero o la somiglianza con Angiolina Jolie per far apparire la giovane curda Asia Ramazan Antar la clone di una star e non una combattente che ha sacrificato la vita per difendere la sua gente. Moralismo? No, solo senso della realtà e… della notizia. Facciamo qualche esempio. Esempi che hanno – non sempre – scatenato di recente sane e furiose reazioni in Rete, nel mondo virtuale dove girano valanghe di bufale ma anche un’attenzione critica che prima non aveva canali per esprimersi....  (segue)

venerdì 25 marzo 2016

Migranti: un piano Ue per fermare gli afgani

E' un'Europa poco unita, molto spaventata e molto preoccupata quella che, agli inizi di marzo – due settimane prima del famigerato accordo sui migranti illegali firmato con Ankara – si trova attorno a un tavolo a Bruxelles per cercare di porre rimedio a un'invasione dall'Afghanistan, il primo Paese al mondo produttore di profughi, con oltre cinque milioni di persone fuori dai suoi confini e un milione di soli sfollati interni. E' un'invasione che nel 2015 ha messo a bilancio numeri senza precedenti dal Paese dell'Hindukush. Che ha visto cercare la via dell'Europa a oltre 213mila clandestini afgani e ha contato 176.900 richieste di asilo politico. Numeri ritenuti troppo alti. Tanto che per 80mila fra loro la Ue paventa il ritorno a casa. Che lo vogliano o no.

E' questo il quadro che emerge da un documento confidenziale discusso a Bruxelles il 3 marzo scorso e reso pubblico da Statewatch, organizzazione di monitoraggio delle libertà civili in Europa. Il Paese della guerra infinita, che conta 2,5 milioni di rifugiati in Iran e 2,9 in Pakistan e che in casa deve gestire un milione di senza casa, ora presenta il conto anche a noi.

sabato 13 giugno 2015

Australia sotto accusa: tangente anti migranti nel Pacifico

Il premier australiano Tony Abbott  (nella foto a dx), a capo del Partito liberale e uomo dai saldi principi conservatori, non
rappresenta un'eccezione sulle chiusure verso i migranti che hanno caratterizzato la politica dell'accoglienza negli ultimi anni. Ma questa volta ha superato se stesso e persino il suo compagno di partito David Leyonhjelm che nel 2013 aveva proposto una “tassa” da 50mila dollari a chi sbarcava in Australia in cerca di rifugio. La notizia è che, secondo la polizia indonesiana, a pagare questa volta siano state invece le autorità australiane che – intercettata una nave di migranti - avrebbero riempito le tasche dei traghettatori per riportare al largo il loro carico umano in cerca di altre sponde. Anziché perseguire i trafficanti – in una parola – li hanno ricompensati per girare la prua e risolvere la questione in mare a aperto. E non una bazzecola, ma qualcosa come 30mila dollari.

Nonostante la patata bollentissima che campeggia sui giornali locali e su quelli indonesiani e, adesso, anche sui media internazionali, il premier australiano si è rifiutato di smentire la notizia che costituirebbe uno dei più gravi precedenti della storia recente della tratta dei migranti. Incalzato dai giornalisti, Abbott ha fatto orecchie da mercante dando la sensazione che il fattaccio non sia solo una speculazione ma un brutto pasticcio che non è forse la prima volta che accade. Alludendo nelle prime interviste a caldo a «strategie creative» per fermare i barconi di cui si è detto «orgoglioso» - e che comunque a suo dire non spetta al premier commentare - Abbott ha aggiunto che: «Quello che facciamo è fermare le barche con le buone o con le cattive, perché questo è quello che dobbiamo fare e questo è quello che abbiamo fatto con successo». In seguito ha mondato dalle dichiarazioni la locuzione «con le buone o con le cattive» ma si è rifiutato di entrare nel dettaglio delle operazioni in mare.

sabato 30 maggio 2015

Migranti e polemiche nel Sudest asiatico

  • Aung San Suu Kyi
    Travolta dalle polemiche
Una riunione dove sono invitati 17 Paesi ma che i ministri degli Esteri snobbano. Un summit sulla crisi dei migranti ma nel quale la parola rohingya è tabù. Un vertice dove tutto viene rimandato, il Myanmar fa la voce grossa e il dramma dei profughi  asiatici resta un’emergenza senza risposta. E, sullo sfondo, l’immagine piena di crepe di Aung San Suu Kyi: un’icona internazionale dei diritti che sembra andare ogni giorno di più irrimediabilmente in pezzi dopo che persino il Dalai Lama, pur con la consueta gentilezza, l’ha censurata. E’ la sintesi di una giornata nella quale il vertice convocato a Bangkok sulla crisi ha visto il Myanmar al centro dei riflettori ma senza che alla fine si concludesse granché: i birmani avevano del resto minacciato di far addirittura saltare il  summit se la parola rohingya fosse anche solo apparsa sugli inviti. Un buon inizio.

mercoledì 27 maggio 2015

Fosse comuni nei lager per migranti


Non c'è forse un chilometro dalla cittadina di Wang Kelian e il confine tra la provincia tailandese di Satun – e poco più in là di Songkhla - e lo Stato malaysiano del Perlis. Tutt'intorno è foresta, appena intaccata dalle prime coltivazioni dei malesi. E' in questa zona all'estremo Nord della Malaysia che domenica scorsa la polizia ha trovato le prime tombe e indizi di fosse comuni. Poi lunedi ha rimosso un corpo in avanzato stato di decomposizione trovato insepolto nella baracca di uno dei “campi” di raccolta di migranti intercettati dagli inquirenti che già ne hanno contati 28 lungo 50 chilometri di confine. Ieri pomeriggio infine, alla presenza di giornalisti in uno dei siti nascosto in un burrone a un chilometro dalla strada e che “ospitava” forse 400 persone, è iniziata la dissepoltura.

martedì 2 marzo 2010

POVOCAZIONE A TEATRO

Nel giorno dello sciopero dei migranti la provocazione dell'Hidden Theatre di Pontedera al Palladium di Roma


E' così difficile fare gli spettatori quando gli autori e gli attori chiedono al pubblico di intervenire in scena. Succede a teatro, al circo, nelle fiere paesane. Se tocca a voi vi sembra di subire una piccola violenza ma alla fine ci state – vi tocca starci - sperando di evitare la brutta figura. Ma “Ricordi lontani/Oggi” in scena ieri sera al Palladium di Roma per la regia di Annet Henneman (nell'immagine) è qualcosa di più e di peggio dell'ipnotizzatore che vi abbaglia o del prestigiatore che vi fa uscire un uovo dal collo della camicia. In questo spettacolo non siete invitati a partecipare: siete violentemente sbattuti in scena, siete la scena stessa.

Vi sbatacchiano urlando, trattandovi male, insinuandovi lo stesso dannato fastidio che avevate provato quando a scuola vi obbligavano a rifare la corda, quando in caserma vi ordinavano di andare in camerata, quando in collegio o in “colonia” (chi se le ricorda ancora?) dovevate fare la fila per la doccia e guai a chi sgarra. Ma non avevate ancora provato a essere clandestini. A essere fotografati contro un muro, a sentirvi richiedere una carta che non capite cosa sia, apostrofati con rudezza in una lingua che non è la vostra mentre perdete il contatto con vostra moglie o vostro figlio. Questi teatranti che giocano con la parte più intima di voi – la vergogna – vi fanno sentire dei burattini collettivi e la finzione funziona. Lo scopo è mettervi nei panni del lavavetri che avete appena evitato all'angolo o del magrebino cui avete concesso oggi pomeriggio una goccia di buon cuore da 20 centesimi. Essere l'uomo, la donna, che ha dovuto avere pazienza, restare in silenzio, non sapere se è sì o no, se si è stati più fortunati del compagno vicino.

Non c'è bisogno di essere picchiati a sangue, torturati o addirittura uccisi. L'umiliazione è una tortura a volte peggiore, più profonda perché, solo apparentemente, più civile. Così la piece centra l'obiettivo. E l'obiettivo siete voi che, strattonati fuori dal teatro mentre una cattivissima kapò vi urla di uscire, avete anche dimenticato la scarpina di cachemire sulla poltrona del Palladium.