La fiammata del ritorno di Covid-19 in Cina, all’inizio dell’estate, ha creato timori in tutto il mondo e in particolare in Asia orientale, dove si teme che nuovi focolai di infezione riportino indietro le lancette dell’orologio. Non ovunque: il Giappone per esempio ha tolto lo stato di emergenza e Paesi come Taiwan o la Corea del Sud sono abbastanza tranquilli sulla capacità di governare possibili nuovi picchi, forse anche grazie al loro relativo isolamento geografico. Nel Sudest asiatico, la vasta regione al confine meridionale della Cina, le cose sono un po’ diverse. I Paesi hanno reagito sin dall’inizio della crisi con modalità differenti e la paura non è certo passata, specie in Indonesia e Malaysia, che presentano ancora i tassi più alti di infezione. Ma il timore di una ripresa è contagioso anche per chi ha meno infetti e riguarda in particolare quelli che potremmo chiamare i “Paesi della cintura”: Paesi che non hanno molti casi di contagio ma che proprio per questo continuano a tenere alta la guardia.
Sono in particolare i quattro Stati che confinano con la grande Cina Popolare – dunque i più vicini geograficamente al primo focolaio di Wuhan,e quindi, a rigor di logica, i più esposti. Come un po’ ovunque nel Sudest, vi abitano comunità cinesi della diaspora e, soprattutto, sono crocevia di un intenso via vai commerciale e di una grossa circolazione di persone da e verso la Cina, e si trovano sulla rotta di lavoratori stagionali impegnati nei grandi lavori della Nuova Via della Seta.
Eppure, Cambogia, Laos, Vietnam e Myanmar sono tra gli Stati meno colpiti al mondo. E’ una sorta di mistero perché si tratta di Paesi poveri, con evidenti casi di sottosviluppo, malnutrizione, povertà e, soprattutto, con una struttura sanitaria di base – fatta forse esclusione per il Vietnam – fragile e, in diverse aree, inesistente. Come è possibile dunque che siano tra i pochi Stati al mondo a essere sostanzialmente immuni dal virus? Con l’esclusione del Myanmar, che ha avuto sei decessi, sono tutti Paesi dove il virus non ha ufficialmente fatto vittime e dove la somma dei casi di infezione non arriva a mille. Davvero poco su un totale di circa 180 milioni di abitanti. Qual è il segreto del “mistero della cintura”?
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giovedì 23 luglio 2020
venerdì 31 gennaio 2020
I gamberi del Vietnam
Kieng Giang Vietnam – La provincia di Kieng Giang, che bordeggia il mare fino al confine cambogiano è – come un po’ tutto il Delta del Mekong – un allevamento di pesci a cielo aperto cui fan da contraltare le risaie. Se a Milano o a Roma chiedete al ristorante spaghetti ai frutti di mare o un risotto ai gamberetti, è molto facile che vengano da qui, dai vivai che - sul fiume, nel mare, persino nelle case - allevano pesci a gamberi di varia specie. E se non è ancora così – perché il vostro ristoratore serve gamberetti indiani surgelati (il maggior esportatore mondiale) – è solo questione di tempo. Il Vietnam, che è al terzo posto nell’export mondiale del gambero surgelato, da quest’anno darà l’assalto al mercato europeo, il più grande consumatore di questo crostaceo. Potrà infatti sfruttare una tariffa preferenziale grazie all'accordo di libero scambio Ue-Vietnam (Evfta), firmato il 30 giugno 2019. Truong Dinh Hoe, segretario generale dell'Associazione degli esportatori e produttori di pesce del Vietnam, si dice sicuro del grande balzo in avanti del gambero vietnamita. Ma non c’è solo il pesce.
L’area del Delta del Mekong, la cosiddetta “ciotola di riso” del Paese, produce parte del cereale che vale quasi l’1% dell’export di una nazione che ha la bilancia commerciale in attivo: 220 miliardi di dollari contro 204.
Lungo le strade dei miseri paesini della provincia, stuoie ricolme di pepe fan bella mostra accanto al pesce essiccato da cui si ricava il Nuoc Mam, la gradevolissima colatura per cui è famosa la vicina isola di Phu Quoc. I gourmet considerano il pepe locale tra i migliori del mondo. Un chilo al bazar può arrivare a 4 euro al chilo (più o meno il prezzo del mercato internazionale dominato dal pepe indiano). E che dire poi del caffè, in grado di rivaleggiare con le tostature nazionali. Ma se ci limitassimo agli alimenti saremmo davvero fuori strada.
Membro dell’Asean dal 1995 e del Wto dal 2007, il Vietnam è tra i sostenitori della Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), che integrerà in una cornice unica i Paesi del Sudest asiatico con Cina, Corea, Giappone, Australia, Nuova Zelanda e India (che però rema contro), costituendo un network pari alla metà della popolazione globale e a 1/3 del Pil mondiale. La sua struttura industriale è costituita al 96% da piccola e media industria in forte ascesa. Specializzata. Le principali esportazioni del Vietnam sono infatti apparecchiature di teleradiodiffusione, telefoni e circuiti integrati che, assieme, totalizzano oltre 60 miliardi, quasi un terzo del’export Seguono tessile e calzature di cuoio.
Il comparto delle importazioni va di pari passo: circuiti integrati e telefoni per oltre 25 miliardi, petrolio raffinato, parti elettriche. Secondo il governo di Hanoi, il trend guidato dai circuiti integrati vale il 7,6% dell’import totale seguito dai cellulari (5%). I suoi mercati esteri principali sono quelli di due nemici storici: Stati Uniti, che comprano per 46 miliardi, e Rpc che compra per 40. Seguono Giappone, Corea del Sud e Germania, il Paese europeo forse meglio piazzato in Asia. Il Vietnam invece compra quasi tutto “in casa”: da Cina, Corea, Giappone e dalle due città Stato di Singapore e Hong Kong.
Se dunque al grande balzo in avanti non partecipano solo i gamberi e se l’economia di questo Paese, vessato da decenni di guerre, sta dimostrando una vivacità formidabile, una voce importante del mercato vietnamita è anche il turismo: nel 2019 il Vietnam ha “importato” circa 18 milioni di arrivi internazionali. Erano poco più di due nel 2000. Se c’è una cosa che il Vietnam non ha imparato dai gamberi, verrebbe da dire, è andare all’indietro.
Questo articolo è uscito sull'ultimo inserto "Asia" de il manifesto curato da S. Pieranni
L’area del Delta del Mekong, la cosiddetta “ciotola di riso” del Paese, produce parte del cereale che vale quasi l’1% dell’export di una nazione che ha la bilancia commerciale in attivo: 220 miliardi di dollari contro 204.
Lungo le strade dei miseri paesini della provincia, stuoie ricolme di pepe fan bella mostra accanto al pesce essiccato da cui si ricava il Nuoc Mam, la gradevolissima colatura per cui è famosa la vicina isola di Phu Quoc. I gourmet considerano il pepe locale tra i migliori del mondo. Un chilo al bazar può arrivare a 4 euro al chilo (più o meno il prezzo del mercato internazionale dominato dal pepe indiano). E che dire poi del caffè, in grado di rivaleggiare con le tostature nazionali. Ma se ci limitassimo agli alimenti saremmo davvero fuori strada.
Membro dell’Asean dal 1995 e del Wto dal 2007, il Vietnam è tra i sostenitori della Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), che integrerà in una cornice unica i Paesi del Sudest asiatico con Cina, Corea, Giappone, Australia, Nuova Zelanda e India (che però rema contro), costituendo un network pari alla metà della popolazione globale e a 1/3 del Pil mondiale. La sua struttura industriale è costituita al 96% da piccola e media industria in forte ascesa. Specializzata. Le principali esportazioni del Vietnam sono infatti apparecchiature di teleradiodiffusione, telefoni e circuiti integrati che, assieme, totalizzano oltre 60 miliardi, quasi un terzo del’export Seguono tessile e calzature di cuoio.
Il comparto delle importazioni va di pari passo: circuiti integrati e telefoni per oltre 25 miliardi, petrolio raffinato, parti elettriche. Secondo il governo di Hanoi, il trend guidato dai circuiti integrati vale il 7,6% dell’import totale seguito dai cellulari (5%). I suoi mercati esteri principali sono quelli di due nemici storici: Stati Uniti, che comprano per 46 miliardi, e Rpc che compra per 40. Seguono Giappone, Corea del Sud e Germania, il Paese europeo forse meglio piazzato in Asia. Il Vietnam invece compra quasi tutto “in casa”: da Cina, Corea, Giappone e dalle due città Stato di Singapore e Hong Kong.
Se dunque al grande balzo in avanti non partecipano solo i gamberi e se l’economia di questo Paese, vessato da decenni di guerre, sta dimostrando una vivacità formidabile, una voce importante del mercato vietnamita è anche il turismo: nel 2019 il Vietnam ha “importato” circa 18 milioni di arrivi internazionali. Erano poco più di due nel 2000. Se c’è una cosa che il Vietnam non ha imparato dai gamberi, verrebbe da dire, è andare all’indietro.
Questo articolo è uscito sull'ultimo inserto "Asia" de il manifesto curato da S. Pieranni
sabato 25 gennaio 2020
Epidemia cinese
Città Ho Chi Minh – C’è una guerra sotterranea e senza esclusione di colpi che si combatte in Asia e soprattutto nel Sudest asiatico. Non è quella contro il corona virus originatosi tra i banchi del mercato del pesce di Wuhan, ma quella che oppone filocinesi ad anticinesi. Ben più dura di un’emergenza sanitaria, l’espansione cinese nel “giardino di casa” è – per i suoi detrattori – un’epidemia pericolosa, si chiami trappola del debito o dipendenza neo coloniale. Il virus che ha ormai varcato i confini della Cina per arrivare a diffondersi, solo in Asia, dalla Corea del Sud al Giappone e dalla Thailandia al Nepal - senza dimenticare città come Hong Kong, Macao e Singapore - è adesso una nuova freccia nell’arco dei nemici dell’Impero di Mezzo e dei loro alleati, ovviamente americani: il nemico numero uno della Rpc e il Paese che in Asia ha perso sempre più terreno.
Non che la preoccupazione non ci sia, tutt’altro. Ma certo non si può parlare di isteria. Né da parte della gente né da parte delle autorità anche perché, tutto si potrà dire dei cinesi ma non che – questa volta – non abbiano agito con vigore e determinazione. La preoccupazione non è forse tanto per oggi o domani ma semmai per chi, già malato, ha varcato le frontiere assai prima della grande festa per l’Anno del Topo, un buon momento per andare a far visita ai parenti della diaspora, la potente ”rete di bambù” diffusa in tutta l’Asia. Ad Hanoi dissimulano anche se tutti sanno che il Tet, il nuovo anno dei vietnamiti le cui celebrazioni sono appena iniziate e coincidono con le grandi feste in Cina, è un’ottima coincidenza per quei cinesi – e sono tanti – che hanno origini e legami in Vietnam. Tanti fra loro se ne andarono dopo la Riunificazione, accolti a malincuore da una madrepatria che accumulava l’ennesimo rancore verso il Vietnam, Paese reo di lesa maestà nei confronti di Pechino, cui preferiva Mosca, anche se ora abbraccia la sua élite e la sua ideologia che consente anche ai comunisti vietnamiti di andare a letto con la coscienza tranquilla perché arricchirsi è giusto.
Per le strade di Città Ho Chi Minh - da cui in tanti son partiti per le campagne e dove quasi tutti i negozi sono chiusi - la mascherina che copre la bocca ai ragazzi pimpanti sui loro scattanti motorini (oltre 8 vietnamiti su 10 ne possiedono uno) non sono l’effetto del virus ma quasi un vezzo alla moda, specie tra le fanciulle e le donne anziane. Per ora questa città chiassosa, dove sorge un grattacielo al giorno, si diverte e spara fuochi d’artificio. Il governo però, senza darlo a vedere, è preoccupato. Il vicepremier Vu Duc Dam ha convocato ieri una riunione di emergenza del ministero della Sanità e ha reso noto che ci sono due cinesi risultati positivi proprio a Città HCM e che altri casi sospetti sono sotto stretto controllo. Il ministero ha aperto un centro operativo di emergenza e negli aeroporti si misura la febbre.
Singapore ha annunciato il suo primo caso giovedì. Sono tre per ora, tutti originari di Wuhan. Ma nella Città del leone si prevede che non si tratti di casi isolati. In Thailandia siamo già arrivati a cinque mentre un paio di malati ciascuno sono stati individuati a Hong Kong e Macao, riferisce il South China Morning Post. Poi c’è il Giappone, la Corea del Sud (da Nord non trapela nulla), Taiwan e persino il Nepal. In India cinque sotto osservazione.
Il bollettino di conclamati e sospetti si aggiorna di ora in ora. E il ricordo della Sars è ancora molto vicino. Era il febbraio 2003 quando Johnny Chen, in volo dalla Cina per Singapore, venne sbarcato ad Hanoi coi sintomi della Sars. Morirà proprio nell’ospedale francese della capitale vietnamita.
venerdì 7 giugno 2019
La scia "rossa" dietro il viaggio di Conte
Se come sostiene una recente pubblicazione di Arel – il centro studi fondato da Nino Andreatta – il Vietnam è “un laboratorio di successo” dove testare quel che resta della vivacità imprenditoriale italiana, il viaggio di Conte potrebbe essere una delle poche scelte sensate di un’amministrazione ormai nota solo per i litigi, la disumanità e i voltafaccia. I dati lo confermano: le nostre esportazioni in Vietnam hanno registrato nel 2018, stima la Farnesina, un aumento dell’11,16%, per un totale di 1,3 miliardi di euro il che fa del Belpaese il secondo esportatore europeo dopo la Germania. Le oltre 100 aziende italiane hanno investito lì quasi 350 milioni di euro con una novantina di progetti specie nel settore manifatturiero ma anche in quello dei macchinari, delle infrastrutture e (udite udite) delle energie rinnovabili. Il Vietnam ha diversi vantaggi: una legislazione per l’estero con scarsi lacciuoli, sconti per chi investe e una manodopera a basso costo che ha tra l’altro la grande qualità di non protestare. E’ un piccolo paradiso dove scalpitano giapponesi e tedeschi ma soprattutto i vecchi storici nemici: Stati Uniti e Cina. I vietnamiti (come cinesi e americani) sono pragmatici e la memorie delle guerre (con gli uni e con gli altri) è roba che si può dimenticare in un Paese per forza giovane dove l’eredità della “Guerra americana”, come la chiamano qui, si vede non solo nel lascito di diossina dell’agente Orange ma anche in una popolazione giovane (un terzo dei suoi 90 milioni è sotto i trent’anni) che con la nascita delle riforme del libero mercato iniziate nel 1986 (Doi Moi) ha tradotto in vietnamita il capitalismo autoritario inaugurato da Deng con lo sdoganamento della possibilità – gloriosa – di arricchirsi.
L’Italia ha sempre capito con un po’ di ritardo che il secolo dell’Asia era già iniziato da un pezzo, che la lontananza geografica si sarebbe sempre più
ridotta e che quegli animaletti gialli e straccioni sarebbero diventate tigri pimpanti. Abbiamo un’ambasciata ad Hanoi e a Bangkok. Non a Phnom Penh e Vientiane. Ma il povero Conte, con la controversa firma degli accordi con Pechino e ora col suo viaggio vietnamita, ha invece centrato uno dei pochi obiettivi di un governo che sarà ricordato soprattutto per i numerosi buchi nell’acqua. Sfrutta con saggezza le poche scelte intelligenti di politica asiatica tra cui il riconoscimento del Vietnam del Nord nel 1973 (col solo voto contrario – guarda guarda – del Movimento sociale italiano), dopo gli accordi di Parigi ma due anni prima della vera e propria fine della guerra. Un gesto apprezzato (spinto da comunisti e socialisti) perché fino ad allora parlavamo solo col governo golpista di Saigon.
Quell’apertura – che si riflette ancora oggi sui rapporti tra i due Paesi – aveva anche altri precedenti: le imponenti manifestazioni a sostegno del Vietnam (i cui striscioni campeggiano nel museo della guerra di Città Ho Chi Minh) e quel che fecero i camalli genovesi che – lo ricordava il manifesto qualche giorno fa – bloccarono l’attracco delle navi americane e, ancora, ne inviarono una – l’ "Australe" - carica di viveri e medicinali al porto vietnamita di Hai Phong. Certe cose non si dimenticano.
Oggi su il manifesto
L’Italia ha sempre capito con un po’ di ritardo che il secolo dell’Asia era già iniziato da un pezzo, che la lontananza geografica si sarebbe sempre più
ridotta e che quegli animaletti gialli e straccioni sarebbero diventate tigri pimpanti. Abbiamo un’ambasciata ad Hanoi e a Bangkok. Non a Phnom Penh e Vientiane. Ma il povero Conte, con la controversa firma degli accordi con Pechino e ora col suo viaggio vietnamita, ha invece centrato uno dei pochi obiettivi di un governo che sarà ricordato soprattutto per i numerosi buchi nell’acqua. Sfrutta con saggezza le poche scelte intelligenti di politica asiatica tra cui il riconoscimento del Vietnam del Nord nel 1973 (col solo voto contrario – guarda guarda – del Movimento sociale italiano), dopo gli accordi di Parigi ma due anni prima della vera e propria fine della guerra. Un gesto apprezzato (spinto da comunisti e socialisti) perché fino ad allora parlavamo solo col governo golpista di Saigon.
Quell’apertura – che si riflette ancora oggi sui rapporti tra i due Paesi – aveva anche altri precedenti: le imponenti manifestazioni a sostegno del Vietnam (i cui striscioni campeggiano nel museo della guerra di Città Ho Chi Minh) e quel che fecero i camalli genovesi che – lo ricordava il manifesto qualche giorno fa – bloccarono l’attracco delle navi americane e, ancora, ne inviarono una – l’ "Australe" - carica di viveri e medicinali al porto vietnamita di Hai Phong. Certe cose non si dimenticano.
Oggi su il manifesto
martedì 19 febbraio 2019
La memoria della guerra nel Vietnam. La Thailandia - 1
La Thailandia fu la retrovia logistica degli Stati uniti durante il lungo conflitto nel Sudest asiatico. Ci stazionarono fino a 50mila uomini. Che usarono quel Paese per le guerre aperte e quelle segrete. E per spassarsela nelle ore di libera uscita. Un reportage uscito domenica 17 su il manifesto.
Chantaburi (Thailandia) – Chantaburi è a settanta chilometri dal confine cambogiano dove si sono appena celebrati i 40 anni dalla caduta dei Khmer rossi. Ma è il 1989 forse assai di più del 1979 o del 1975, quando cadde Saigon segnando di fatto la fine della Guerra del Vietnam, la data che ha senso per la Thailandia. In quell’anno – venti anni fa - cadeva infatti il muro di Berlino che doveva segnare la fine dell’Urss e per molti la “fine del comunismo”. E se c’era stato un alleato prezioso nella guerra che gli americani avevano combattuto nel Sudest asiatico per evitare l’“effetto domino” che poteva contagiare l’intera Asia sudorientale, questo era stato la Thailandia. Quei tempi son lontani e resta soltanto il Thai Vietnam War Veterans Memorial, a 5 chilometri da Kanchanaburi e a 140 da Bangkok, a ricordare quell’epoca. Ma la Thailandia fu essenziale nella guerra ai vietnamiti perché fu la retrovia logistica dell’esercito e soprattutto dell’aviazione a stellestrisce. La Casa reale e l’esercito tailandese costituirono le spalle larghe della guerra anche se seppero tenersene al di fuori. Ma solo fino a un certo punto. Mostrano ancora l’orgoglio di esser stati il baluardo contro il domino rosso e se affiancarono gli americano nelle retrovie, lo fecero anche nel teatro di battaglia in Vietnam.
Orgoglio nazionale
La storiografia americana se n’è occupata molto. Tra i tanti, Richard Ruth, docente all’AccademiaN avale americana (Usna). Classe 1928, è morto l’anno scorso, lo stesso anno in cui usciva il suo capitolo “War and Society in Southeast Asian History” in una collettanea che aveva fatto precedere dal saggio “In Buddha’s Company: Thai Soldiers in the Vietnam War” (2010) e da un articolo scritto per il New York Times (Why Thailand Takes Pride in the Vietnam War). Sul quotidiano della Grande Mela, Ruth ricordava che cinquant’anni prima – nel 1967 – il primo soldato tailandese volontario era stato mandato a Bien Hoa in Sud Vietnam per combattere a fianco degli alleati americani. Quell’uomo faceva parte dei “Cobra della regina” del Royal Thai Volunteer Regiment, un’unità di volontari inquadrati nell’esercito che, in questo Paese dalla longeva monarchia, contava circa 2mila uomini. Con lui non c’erano solo volontari ma un totale di 40mila uomini che, a diverso titolo, furono coinvolti nella guerra. Una guerra, sostiene Ruth sulla base di interviste a veterani, che ha lasciato nei thai una sorta di orgoglio patrio. Un bel ricordo, dice Ruth, che sembra fare della Thailandia l’unico Paese che di quel conflitto conserva una memoria in positivo. Del resto, lo sforzo bellico tailandese era profumatamente pagato dagli americani che versarono oltre un miliardo di dollari in aiuti economici e militari a Bangkok e un altro mezzo miliardo in aiuto allo sviluppo.
I tailandesi affittarono sette basi che arrivarono a ospitare fino a 50mila soldati americani con una media di 26mila. Il prezzo della guerra non fu elevato: si stima a 351 soldati uccisi in azione in Vietnam e a oltre 1350 feriti. Ci fu anche una parentesi laotiana perché le forze su cui gli americani contavano nel Paese alla frontiera Nord del regno thai (soprattutto le tribù Hmong) ricevevano la loro formazione militare in Thailandia. La base di Udorn (Udorn Royal Thai Air Force Base) a Udon Thani (a sinistra), a un pugno di chilometri dal confine, era la base operativa principale sia per le operazioni logistiche o di spionaggio in Vietnam, Laos e Cambogia, sia per le operazioni di “guerra segreta” della Cia (secondo la Bbc una piccola area della base – detta Detention Site Green - fu poi usata nel 2002 dagli uomini di Langley per interrogare e torturare Abu Zubaydah - ora a Guantanamo - ritenuto un luogotenente di bin Laden. Bangkok ha sempre negato).
Eredità sessuale
I ricordi di oggi, nella memoria del viaggiatore, si confondono con quelli di ieri. Alla vigilia della caduta di Saigon attraversammo la Thailandia di ritorno dal Laos e ci capitò di dormire proprio davanti a una caserma americana nei pressi di Udon. Di fronte alla caserma c’era un bordello affacciato sul lato opposto della strada. Al suono della libera uscita, decine di marine rasati uscivano dai compound militari e… attraversavano la strada per la loro oretta di R&R "rest and relaxation", come si dice in gergo.
All’acronimo R&R e a tutto ciò che esso significa, si deve anche la nascita di Patpong, ancor oggi una delle mete prescelte di Bangkok per il sesso a pagamento. Per esser precisi, Patpong esisteva già prima dell’arrivo dei giovani marine rasati in cerca di relax: erano (e sono) un paio di vicoli, due soi commerciali nel quartiere finanziario della capitale proprietà della famiglia sino-thai Patpongpanich. Ora la zona si è un po' più estesa nei vicoli attorno con richiami per tutte le tasche e le esigenze sessuali. Diventato con gli anni però anche un luogo di attrazione tradizionale per il turista (ora anche per famigliole in cerca di esotismo estremo, spiega la Lonely Planet) a partire dagli anni Settanta, Pat Pong fu il luogo prescelto per la R&R dei soldatini di passaggio nella capitale, diretti o di ritorno dal Vietnam o dalle basi tailandesi. I “bar” - più raffinati delle sale con esposizione di ragazze locali esibite con un numero sulla camicetta per essere indicate dal cliente dopo la scelta – cominciarono a moltiplicarsi man mano che cresceva la richiesta. E così gli alberghi a ore e non. Uno di questi, il Malaysia Hotel – che negli anni Settanta valeva un dollaro a notte – era un 4 stelle decaduto, con piscina e ogni sorta di relax. Ragazze a piano terra, buddha stick al terzo piano ed eroina al quarto. Nella hall si confondevano le reclute e i primi viaggiatori che, dopo l’India, avevano scelto di proseguire il loro viaggio all’Eden nel Sudest. Le retate non erano infrequenti. Adesso è uno dei tanti rispettabili hotel della capitale.
Patpong e la vita notturna di Bangkok, con la sua prostituzione illegale per legge ma largamente tollerata, hanno scatenato molti dibattiti tra chi trova immorale un mercato del sesso che deborda anche nella pedopornofilia e chi sostiene che la prostituzione c’è sempre stata e che la maggior parte dei clienti sono thai. Tutto può essere ma l’eredità è certa. Un’eredità che viene dalla guerra di cui i bordelli sono sempre stato un aggregato per tenere alto il morale dei “ragazzi”. Lontani dalla capitale, a noi non resta che partire da Chantaburi, famosa per il suo mercato di pietre preziose, e proseguire verso la Cambogia. Al di là del confine c’è Pailin, sede dell’ultimo governo khmer rosso e crocevia del traffico di preziosi. Memoria o non memoria, qualcosa lega sempre in modo inestricabile i Paesi che si ritrovarono nell’abbraccio avvelenato della Guerra del Vietnam.
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Le strane relazioni Washington Bangkok
Alla fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti fecero i conti con chi aveva appoggiato i vincitori e chi invece, più o meno obtorto collo, si era schierato col Giappone che aveva fatto del Sudest asiatico la sua area di “co-prosperità” al grido di “L’Asia agli asiatici”. Cioè all’imperatore.
Durante l’invasione giapponese succede che il Giappone chiede ai nuovi alleati di dichiarare guerra agli Stati Uniti. E’ il gennaio del 1942 e Bangkok risponde signorsi anche perché allora al governo c’è un militare – Phibun, al secolo Plaek Phibunsongkhram - che ammira Mussolini e dunque se la intende con Hiroito. Ma Seni Pramoj, l’ambasciatore tailandese a Washington – uomo della Resistenza e in seguito premier – decide col suo staff di non consegnare la dichiarazione di guerra e anzi di collaborare col “nemico”. E così, alla fine del conflitto – e quando ormai per gli Usa sta per iniziarne uno nuovo – la Thailandia sfugge a sanzioni e anatemi. La strada è in discesa per una nuova alleanza.
Chantaburi (Thailandia) – Chantaburi è a settanta chilometri dal confine cambogiano dove si sono appena celebrati i 40 anni dalla caduta dei Khmer rossi. Ma è il 1989 forse assai di più del 1979 o del 1975, quando cadde Saigon segnando di fatto la fine della Guerra del Vietnam, la data che ha senso per la Thailandia. In quell’anno – venti anni fa - cadeva infatti il muro di Berlino che doveva segnare la fine dell’Urss e per molti la “fine del comunismo”. E se c’era stato un alleato prezioso nella guerra che gli americani avevano combattuto nel Sudest asiatico per evitare l’“effetto domino” che poteva contagiare l’intera Asia sudorientale, questo era stato la Thailandia. Quei tempi son lontani e resta soltanto il Thai Vietnam War Veterans Memorial, a 5 chilometri da Kanchanaburi e a 140 da Bangkok, a ricordare quell’epoca. Ma la Thailandia fu essenziale nella guerra ai vietnamiti perché fu la retrovia logistica dell’esercito e soprattutto dell’aviazione a stellestrisce. La Casa reale e l’esercito tailandese costituirono le spalle larghe della guerra anche se seppero tenersene al di fuori. Ma solo fino a un certo punto. Mostrano ancora l’orgoglio di esser stati il baluardo contro il domino rosso e se affiancarono gli americano nelle retrovie, lo fecero anche nel teatro di battaglia in Vietnam.
Orgoglio nazionale


Eredità sessuale
I ricordi di oggi, nella memoria del viaggiatore, si confondono con quelli di ieri. Alla vigilia della caduta di Saigon attraversammo la Thailandia di ritorno dal Laos e ci capitò di dormire proprio davanti a una caserma americana nei pressi di Udon. Di fronte alla caserma c’era un bordello affacciato sul lato opposto della strada. Al suono della libera uscita, decine di marine rasati uscivano dai compound militari e… attraversavano la strada per la loro oretta di R&R "rest and relaxation", come si dice in gergo.
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Bangkok |
Patpong e la vita notturna di Bangkok, con la sua prostituzione illegale per legge ma largamente tollerata, hanno scatenato molti dibattiti tra chi trova immorale un mercato del sesso che deborda anche nella pedopornofilia e chi sostiene che la prostituzione c’è sempre stata e che la maggior parte dei clienti sono thai. Tutto può essere ma l’eredità è certa. Un’eredità che viene dalla guerra di cui i bordelli sono sempre stato un aggregato per tenere alto il morale dei “ragazzi”. Lontani dalla capitale, a noi non resta che partire da Chantaburi, famosa per il suo mercato di pietre preziose, e proseguire verso la Cambogia. Al di là del confine c’è Pailin, sede dell’ultimo governo khmer rosso e crocevia del traffico di preziosi. Memoria o non memoria, qualcosa lega sempre in modo inestricabile i Paesi che si ritrovarono nell’abbraccio avvelenato della Guerra del Vietnam.
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Seni Pramoj |
Le strane relazioni Washington Bangkok
Alla fine della Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti fecero i conti con chi aveva appoggiato i vincitori e chi invece, più o meno obtorto collo, si era schierato col Giappone che aveva fatto del Sudest asiatico la sua area di “co-prosperità” al grido di “L’Asia agli asiatici”. Cioè all’imperatore.
Durante l’invasione giapponese succede che il Giappone chiede ai nuovi alleati di dichiarare guerra agli Stati Uniti. E’ il gennaio del 1942 e Bangkok risponde signorsi anche perché allora al governo c’è un militare – Phibun, al secolo Plaek Phibunsongkhram - che ammira Mussolini e dunque se la intende con Hiroito. Ma Seni Pramoj, l’ambasciatore tailandese a Washington – uomo della Resistenza e in seguito premier – decide col suo staff di non consegnare la dichiarazione di guerra e anzi di collaborare col “nemico”. E così, alla fine del conflitto – e quando ormai per gli Usa sta per iniziarne uno nuovo – la Thailandia sfugge a sanzioni e anatemi. La strada è in discesa per una nuova alleanza.
venerdì 9 novembre 2018
Il razzismo della rete telefonica

cornetta. Oggi, con smartphone e altre diavolerie, il telefono è invece la "loro" voce o meglio quella dei call center che smistano richieste, contratti, rimostranze. A parte la difficoltà di fare un reclamo (ma su questo ci soffermeremo un'altra volta) accade che risponda una voce registrata che ti dice che potresti ottenere una "...risposta dall'Albania" ma che se desideri parlare con qualcuno dell'Unione europea non hai che da dirlo. Op là, e la telefonata passa da Tirana a una città italiana.
Questa cosa mi da un terribile fastidio e la trovo una forma nemmeno tanto occulta di razzismo nonché una patente violazione del principio della globalizzazione, quello cui si ispirano le reti di telefonia che hanno call center risponditori anche in India. Si potrebbe controbattere che se devo segnalare un guasto in Italia è meglio un italiano ma se uno sapesse, come mi ha appena detto un tecnico, che gli operatori dei call center (cui va tutta la mia solidarietà) possono al massimo segnalare, che senso ha un italiano? Non solo, ma se mi risponde un olandese? Cosa ne sa della rete che passa da Crema? Consiglierei alle aziende di telefonia nazionale di abolire questo pessimo annuncio. Se hanno assunto qualcuno in Albania se ne devono poi vergognare? Mi pare una delle peggiori declinazioni di "prima gli italiani".
Aggiungo qualcos'altro. In quella che era la settima potenza industriale Internet funziona con la manovella. Nel Paese delle tre i caro a Berlusconi, la rete è piena di buchi, smagliature, interruzioni. Mi hanno appena attaccato alla fibra e il mio web va peggio di prima. Tempo per il passaggio tecnico? Quattro giorni e un numero infinito di segnalazioni con risposta via sms, di quelle a cui non puoi rispondere. "E' tutto quel che puoi avere a Ca' delle Mosche", mi ha detto sempre lo stesso tecnico alludendo alla cascina dove abito alla periferia di Crema, una cittadina da 40mila abitanti dove internet funziona a pedali. Come rimpiango il Vietnam! Una volta siamo andati a bere un caffè in una locanda sul fiume dove non c'era l'acqua corrente e il locale erano due tavoli e tre panche. Ma in un angolo c'era un cartello con la password del wifi. Funzionava come a Crema neanche se lo sognano.
domenica 1 aprile 2018
Somiglianze repubblicane

Che il genere umano abbia la memoria corta è risaputo. Eppure non molti anni fa, un presidente repubblicano si comportò esattamente come Donald Trump. Come Trump licenziò chi gli dava fastidio e, come Trump, pensò che mostrare i muscoli in guerra l’avrebbe fatta concludere prima. Benché la Storia non si ripeta mai, le somiglianze tra quanto accadde all’epoca di Richard Nixon e della guerra nel Vietnam, potrebbe insegnare molto rispetto a quanto accade e può accadere nell’era Trump. Sia per le guerre (dall’Afghanistan alla Siria) in cui è impegnata la sua amministrazione, sia per le situazioni di crisi in corso (Siria, Iran, Corea), sia per il futuro stesso della presidenza.
giovedì 8 marzo 2018
Viaggio all’Eden. Il Vietnam tra cronaca e memoria (2)
La barca scivola leggera nel dedalo di canali che si dipartono dal Co Chien, uno degli ampi bracci del Mekong. Il delta del grande fiume, uno dei più vasti del pianeta, è un enorme giardino coltivato in ogni minimo lembo di terra. Terra che il fiume strappa e che il lavoro di gru e chiatte restituisce alle rive, rinsaldando gli argini e regalando limo fertile, o che viene portata, sotto forma di ghiaia e sabbia, verso i cantieri. Lungo la superficie umida delle terre che bagna, tra le più densamente popolate del mondo, ogni casa ha il suo frutteto di agrumi, jackfruit, papaya, banane e piccoli orti di insalata e spinaci d’acqua. Vasi di fiori e bonsai ovunque, anche sulla prua delle chiatte che attraversano il delta di un fiume lungo quasi 5mila chilometri, che nasce in Tibet e, attraversando la Cina, bagna metà del Sudest asiatico.
Densità speciali
Pierre Gourou, uno dei padri della geografia umana, aveva spiegato la densità di queste terre proprio con un’agricoltura meticolosa e intensiva che richiede molta manodopera. E il Vietnam, dal Song Hong – il Fiume rosso - al Mekong, è una sequenza di risaie, case e lavoro. E’ necessaria tanta gente per un sistema di coltivazione che riesce a nutrirne altrettanta in questa “civiltà del vegetale”, come Gourou l’aveva chiamata, dove tutto è ancora di legno, bambù, foglie di palma. La plastica ovviamente fa la sua parte e il fiume ne vede tanta. Ma non ha ancora ragione di pescetti e rane giganti, anguille e carpe “elefante”, gamberi e gamberetti di fiume, delicati come la cucina – rapida e raffinata – di quest’angolo di mondo. Cani ovunque in un Paese dove è comune lasciare la porta aperta e raramente ti fregano sul prezzo. Il fiume è così abitato che dev’essere stato questo il motivo per cui Coppola scelse di ambientare parte della caccia solitaria al colonnello Kurz di Apocalypse Now nella repubblica dominicana: sul Mekong c’è un’abitazione ogni 50 metri. E’ fertile ma anche molto inquinato: c’è un elevato tasso di arsenico, dovuto agli impianti industriali lungo il suo corso e sconta una perdita di fertilità per la presenza di dighe e idrovore a monte di Cambogia e Vietnam. Secondo uno studio di Francia e Unione Europea, il delta rischia di vedere una diminuzione dei preziosi sedimenti in ragione dell’80% rispetto al secolo passato. Una guerra contro il tempo e contro i danni causati dall’uomo che ne fanno uno tra i dieci grandi fiumi più inquinati del pianeta.
Densità speciali
Pierre Gourou, uno dei padri della geografia umana, aveva spiegato la densità di queste terre proprio con un’agricoltura meticolosa e intensiva che richiede molta manodopera. E il Vietnam, dal Song Hong – il Fiume rosso - al Mekong, è una sequenza di risaie, case e lavoro. E’ necessaria tanta gente per un sistema di coltivazione che riesce a nutrirne altrettanta in questa “civiltà del vegetale”, come Gourou l’aveva chiamata, dove tutto è ancora di legno, bambù, foglie di palma. La plastica ovviamente fa la sua parte e il fiume ne vede tanta. Ma non ha ancora ragione di pescetti e rane giganti, anguille e carpe “elefante”, gamberi e gamberetti di fiume, delicati come la cucina – rapida e raffinata – di quest’angolo di mondo. Cani ovunque in un Paese dove è comune lasciare la porta aperta e raramente ti fregano sul prezzo. Il fiume è così abitato che dev’essere stato questo il motivo per cui Coppola scelse di ambientare parte della caccia solitaria al colonnello Kurz di Apocalypse Now nella repubblica dominicana: sul Mekong c’è un’abitazione ogni 50 metri. E’ fertile ma anche molto inquinato: c’è un elevato tasso di arsenico, dovuto agli impianti industriali lungo il suo corso e sconta una perdita di fertilità per la presenza di dighe e idrovore a monte di Cambogia e Vietnam. Secondo uno studio di Francia e Unione Europea, il delta rischia di vedere una diminuzione dei preziosi sedimenti in ragione dell’80% rispetto al secolo passato. Una guerra contro il tempo e contro i danni causati dall’uomo che ne fanno uno tra i dieci grandi fiumi più inquinati del pianeta.
giovedì 22 febbraio 2018
La memoria del 17mo parallelo
Il treno notturno parte dalla stazione di Ninh Bin quando le luci del giorno sono ormai state inglobate dalle tenebre. Motrice e vagoni provengono da Hanoi, la capitale, per scendere verso Sud attraversando un fitto paesaggio di case e risaie, classica scenografia vietnamita. Si scende a Dong Ha che non è esattamente una meta turistica ma è spesso una tappa ineludibile per molti reduci della guerra del Vietnam o per qualcuno che la curiosità spinge sul confine più famoso della Guerra fredda lungo il 17mo parallelo. Una linea tracciata sulla carta che per anni ha marcato la linea di separazione tra Nord e Sud Vietnam. Bisogna dunque scendere a Dong Ha, una fermata prima di Hue – l’antica capitale dei Nguyen, ultima dinastia imperiale – per imboccare con un taxi la Statale 1 che, dopo una decina di chilometri, arriva al luogo simbolo del confronto tra Est e Ovest e, ancora prima, della vittoria sui francesi dei vietnamiti del Nord. E’ la DMZ, o zona demilitarizzata, segnata dal fiume Ben Hai che corre dal confine laotiano al mare. Questo confine che oggi non esiste più se non nella memoria storica, spezzava una terra di nessuno larga circa otto chilometri che è solo un ricordo. Adesso è soltanto un’area tranquilla e verde, circondata da piantagioni e da villaggetti di contadini...
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giovedì 15 febbraio 2018
Viaggio all’Eden. Vietnam tra cronaca e memoria (1)
“Giap Giap Ho Chi Minh – Giap Giap Ho Chi Minh”… Passeggiando davanti al mausoleo del liberatore del Vietnam – liberatore due volte anche se “zio Ho”, morto nel 1969, non vedrà mai la fine nel 1975 della “guerra americana” , come la chiamano qui - è difficile non fare un salto con la memoria all’epoca in cui le piazze italiane e non solo si riempivano di manifestanti contro la guerra in Vietnam. Negli Stati Uniti si bruciava la “cartolina” con cui i giovani venivano richiamati per andare a combattere “charlie”, il nome in codice dei Vietcong, guerrieri per la libertà che infestavano il Vietnam del Sud. Da Milano a Berlino, da Napoli a Parigi, studenti e operai univano agli slogan locali quelli dedicati all’Indocina. A quell’epoca andare in Vietnam per portare la propria solidarietà era impossibile e tutt’al più ci si poteva avvicinare al Laos, attraversando il militarizzatissimo confine tailandese dove c’erano le retrovie degli yankee. Il Laos era come sospeso in quella guerra non dichiarata che però colpiva con bombardamenti mirati – in Laos e Cambogia – il “cammino Ho chi minh”, la strada nella foresta con cui i nordisti rifornivano la guerriglia del Sud. Il Vietnam era un mito, simbolo di tutti i conflitti e della grande menzogna della “pacifica” Guerra fredda, che faceva migliaia di morti nelle risaie vietnamite o sulle montagne cambo-laotiane. Oggi, ad Hanoi, il mausoleo in puro stile socialrealista – scuro e austero – è un luogo tranquillo tra giardini curatissimi di minuti bonsai, guardie speciali vestite di bianco candido, e una fila interminabile di persone che vengono a porgere l’ultimo saluto al liberatore, che sotto l’imbalsamatura sembra dormire il sonno del giusto.
Nel nostro immaginario il Vietnam erano le paludi di Apocalypse Now o i sordidi quartieri di una Saigon che stava per soccombere e dove si aggirava Robert De Niro, cacciatore di cervi che la sporca guerra – iniziata da Kennedy e proseguita da Johnson per poi finire con Nixon (ovviamente “Nixon boia” come si gridava allora) – aveva spedito in Vietnam. A combattere prima e a cercare l’amico scomparso poi. E per la verità quei film, i primi che denunciavano con coraggio quel che quella guerra era appena stato – ci sembravano troppo tiepidi con le responsabilità americane e troppo severe coi Vietcong di Ho chi minh e Giap. I vietnamiti poi, la storia l’han riscritta a modo loro e adesso le foto e i quadretti con Giap e Ho si vedono solo nelle bancarelle. Il generale Giap, l’uomo che aveva messo a posto sia francesi sia americani, è caduto in disgrazia quando ha criticato il partito. Ed è morto senza onori per non disturbare il manovratore.
Il manovratore, il partito unico che con la politica del doi moi - che dal 1986 prefigura una socialist-oriented market economy - in realtà ha messo da parte il socialismo nell'economia del Paese, con gli americani ha fatto pace. Facendo pragmaticamente due conti e soprattutto decidendo di non finire completamente nella rete tesa dai vicini cinesi. Il modello economico – arricchirsi non è più un reato ma una virtù – può anche andar bene. Ma che i cinesi stiano a casa loro. A meno che non siano turisti o investitori.
Nel nostro immaginario il Vietnam erano le paludi di Apocalypse Now o i sordidi quartieri di una Saigon che stava per soccombere e dove si aggirava Robert De Niro, cacciatore di cervi che la sporca guerra – iniziata da Kennedy e proseguita da Johnson per poi finire con Nixon (ovviamente “Nixon boia” come si gridava allora) – aveva spedito in Vietnam. A combattere prima e a cercare l’amico scomparso poi. E per la verità quei film, i primi che denunciavano con coraggio quel che quella guerra era appena stato – ci sembravano troppo tiepidi con le responsabilità americane e troppo severe coi Vietcong di Ho chi minh e Giap. I vietnamiti poi, la storia l’han riscritta a modo loro e adesso le foto e i quadretti con Giap e Ho si vedono solo nelle bancarelle. Il generale Giap, l’uomo che aveva messo a posto sia francesi sia americani, è caduto in disgrazia quando ha criticato il partito. Ed è morto senza onori per non disturbare il manovratore.
Il manovratore, il partito unico che con la politica del doi moi - che dal 1986 prefigura una socialist-oriented market economy - in realtà ha messo da parte il socialismo nell'economia del Paese, con gli americani ha fatto pace. Facendo pragmaticamente due conti e soprattutto decidendo di non finire completamente nella rete tesa dai vicini cinesi. Il modello economico – arricchirsi non è più un reato ma una virtù – può anche andar bene. Ma che i cinesi stiano a casa loro. A meno che non siano turisti o investitori.
lunedì 15 settembre 2014
La guerra fotografata da chi la vinse sul terreno. Ma non sui (nostri) giornali

*Segnalo qui un bell'articolo in merito di Mario Portanova
venerdì 17 maggio 2013
DA DACCA A PHNOM PENH, IL FILO CHE LEGA LE MORTI NELLE FABBIRCHE DEL TESSILE
Non è il Rana Plaza di Dacca la fabbrica cambogiana di scarpe dove il crollo di un mezzanino ha ucciso ieri almeno due persone (bilancio provvisorio) tra cui Sim Srey Touch di soli 15 anni, e ferito gravemente diversi lavoratori a Kampong Speu, a ovest di Phnom Penh. Le operazioni di soccorso, nella fabbrica che ospita 2mila operai, si sono svolte in fretta ma l'episodio “minore”, che non avrebbe normalmente occupato la cronaca internazionale, rimbalza sui giornali e in rete. Troppo fresca la memoria dell'implosione del palazzo del Bangladesh che ha ucciso più di 1100 persone. Fresca la polemica sulle condizioni di lavoro e sulle fabbriche in cui, nei Paesi più poveri, si lavora per i più ricchi. Qui si tratterebbe di una firma giapponese: la fabbrica appartiene a un marchio di Taiwan, Wing Star Shoes, trai cui clienti c'è la nipponica Asics, scarpe sportive, il cui acronimo starebbe paradossalmente per...Anima sana in corpore sano, latino traslato con licenza. In Bangladesh i marchi coinvolti sono invece tantissimi, da Benetton a H&M o Tesco, per citare alcuni tra quelli che, in questi giorni (ultima proprio Benetton) hanno firmato l'accordo che garantisce ispezioni nelle fabbriche perché non si ripeta una strage come a Dacca o un omicidio colposo plurimo come a Kampong Speu (disinvolta ignoranza della possibile catastrofe: un lavoratore ha testimoniato di pezzi di mattone e ferro che cadevano dal soffitto poi rovinato sotto il peso delle masserizie) .

Tra i due eventi c'è un nesso fin troppo evidente e che proprio ieri, sul New York Times, giornale di un grande Paese del tessile che delocalizza molto lavoro, era al centro di un'inchiesta che approfondiva la reazione di chi ha investito, negli ultimi trent'anni, nelle fabbriche e nel lavoro a poco prezzo dei Paesi più o meno sviluppati. E che ora, in fuga dal Bangladesh, cerca altre strade. La Cambogia ad esempio. In questo Paese, vessato dalla guerra e retrovia storico del Vietnam che lo occupò a fine anni Settanta, i salari non sono a livello del Bangladesh ma comunque al di sotto dei 100 euro/mese per i 650mila operai del settore. Le leggi, come in Bangladesh, ci sono. Pochi le rispettano.
Al Nyt Bennett Model, a capo di una “fashion factory” di New York, spiega che accostare un prodotto al nome Bangladesh è oggi “politicamente scorretto”. Per questo molti guardano altrove. E non da oggi. Model iniziò a lavorare coi cinesi nel 1975, un lustro prima che si avviasse il boom del settore in Bangladesh dove il tessile occupa oltre due terzi dell'export. Vietnam e Cambogia sono i Paesi più gettonati perché tutto sommato l'Asia resta il luogo preferito, sia per la capacità della manodopera, sia per la lunga tradizione tessile (che la rivoluzione industriale mise in crisi con i telai meccanici) sia per la reperibilità di materia prima. Anche India e Pakistan figurano nella lista per la loro capacità, tra l'altro, di garantire sistemi industriali di confezione, impacchettamento, spedizione.
L'Indonesia sembra però il preferito di questa nuova “colonizzazione”. Con l'eredità della dittatura ormai alla spalle, produce ottimo cotone (kapok) e ha già una lunga esperienza nella produzione concentratasi a Giava e Bali. Politicamente corretta e con bassi salari, per chi fugge dalla Cina (troppo cara), o da tentativi in America latina e Africa (lente nella produzione), l'Indonesia è la terra promessa: il centro di formazione di Semarang ad esempio forma 12mila persone l'anno. Poco in un Paese dove stanno per aprire 4 nuove fabbriche con 30mila nuovi posti di lavoro.

Tra i due eventi c'è un nesso fin troppo evidente e che proprio ieri, sul New York Times, giornale di un grande Paese del tessile che delocalizza molto lavoro, era al centro di un'inchiesta che approfondiva la reazione di chi ha investito, negli ultimi trent'anni, nelle fabbriche e nel lavoro a poco prezzo dei Paesi più o meno sviluppati. E che ora, in fuga dal Bangladesh, cerca altre strade. La Cambogia ad esempio. In questo Paese, vessato dalla guerra e retrovia storico del Vietnam che lo occupò a fine anni Settanta, i salari non sono a livello del Bangladesh ma comunque al di sotto dei 100 euro/mese per i 650mila operai del settore. Le leggi, come in Bangladesh, ci sono. Pochi le rispettano.
Al Nyt Bennett Model, a capo di una “fashion factory” di New York, spiega che accostare un prodotto al nome Bangladesh è oggi “politicamente scorretto”. Per questo molti guardano altrove. E non da oggi. Model iniziò a lavorare coi cinesi nel 1975, un lustro prima che si avviasse il boom del settore in Bangladesh dove il tessile occupa oltre due terzi dell'export. Vietnam e Cambogia sono i Paesi più gettonati perché tutto sommato l'Asia resta il luogo preferito, sia per la capacità della manodopera, sia per la lunga tradizione tessile (che la rivoluzione industriale mise in crisi con i telai meccanici) sia per la reperibilità di materia prima. Anche India e Pakistan figurano nella lista per la loro capacità, tra l'altro, di garantire sistemi industriali di confezione, impacchettamento, spedizione.
L'Indonesia sembra però il preferito di questa nuova “colonizzazione”. Con l'eredità della dittatura ormai alla spalle, produce ottimo cotone (kapok) e ha già una lunga esperienza nella produzione concentratasi a Giava e Bali. Politicamente corretta e con bassi salari, per chi fugge dalla Cina (troppo cara), o da tentativi in America latina e Africa (lente nella produzione), l'Indonesia è la terra promessa: il centro di formazione di Semarang ad esempio forma 12mila persone l'anno. Poco in un Paese dove stanno per aprire 4 nuove fabbriche con 30mila nuovi posti di lavoro.
venerdì 29 aprile 2011
I FANTASMI DI MADAME NHU
I mille spettri del suo passato, compresi quelli dei monaci buddisti che si diedero fuoco per protestare contro l'occupazione americana del Sud Vietnam, l'hanno forse inseguita anche nella sua casa di Roma. Perché è a Roma, all'età di 87 anni, che Madame Ngô Đình Nhu, meglio nota come Madam Nhu, è morta. Ma chi era questa signora piacente e con pochi peli sulla lingua nata nel 1924 ad Hanoi quando il Vietnam era ancora Indocina francese? Chi era questa donna che a fianco degli americani aveva combattuto fieramente i comunisti vietnamiti? Chi era questa Mata Hari asiatica che, pur filo americanissima, aveva poi detto di loro: “chi ha come alleati gli americani non ha bisogno di nemici”?

Madame Nhu o Dragon Lady che la vogliate chiamare era nata bene. Natali aristocratici nel Vietnam francese e una parentela con l'imperatore Bao Dai. Giovinezza spensierata e un nome che significa “meravigliosa primavera”. Ma poi arriverà l'autunno della fine dell'Indocina francese, la nascita di un Vietnam del Sud conteso dai nordisti di Ho Chi Minh e sostenuto dagli americani che punteranno tutto sul presidente Ngo Dinh Diem, un ex mandarino il cui fratello minore, Ngo Dinh Nhu, diviene capo della polizia segreta. Ma Ngo Dinh Nhu è anche il marito di Madame Nhu e cosi la coppia prende casa a palazzo. E' la seconda metà degli anni Cinquanta
Di Madam Nhu si dice di tutto e di più: che è una moralista esagerata perché si è convertita dal buddismo al cattolicesimo: che chiude i bordelli e predica la lotta all'aborto ma che porta scollature vertiginose; che trama nell'ombra, che gestisce le reti segrete di palazzo. Ma soprattutto che parla fuori dai denti: anche troppo. Negli anni Sessanta il Vietnam è attraversato dalle proteste dei monaci buddisti che, loro pure, sono contrari alla guerra coi fratelli del Nord. Alcuni di questi religiosi si danno fuoco. Si immolano tra le fiamme della benzina. Episodi ricordati allora come il suicido dei bonzi. Ma a Madame Nhu questa cosa non piace e la commenta cosi
Insomma questi monaci – dice in televisione - sono stati ridotti dai lor mistici capi a dei...barbecue. E non solo. Per uccidersi in nome della nazione non hanno nemmeno usato benzina nazionale ma quella importata dall'estero. E' Davvero troppo
La protesta dei monaci e le sorti sempre peggiori della guerra inducono gli americani a cambiare cavallo. Il presidente viene scaricato e ucciso da un aiutante del generale Dương Văn Minh il 2 novembre 1963, durante un colpo di stato. E Duong Van Minh diventa dunque presidente al posto di chi, una volta morto, non potrà più proteggere la sua “Lady Dragon”, la donna del fratello che, visto che il presidente era scapolo, veniva vista in Vietnam come la vera first Lady. Una first Lady per cui è arrivata l'ora del tramonto.
Ma è un tramonto fiero, da drago vietnamita. Rifiuta l'esilio in America e sceglie la Francia e l'Italia dove si trasferisce anche perché in Vietnam, dove i suoi beni saranno sequestrati, non potrà più tornare. Guarda dall'Europa la fine di un mondo che sentiva non appartenerle più e che si conclude con le immagini degli ultimi americani che abbandonano nel 1975 l'ambasciata americana di Saigon: alla fine dei traditori anche per lei

Madame Nhu o Dragon Lady che la vogliate chiamare era nata bene. Natali aristocratici nel Vietnam francese e una parentela con l'imperatore Bao Dai. Giovinezza spensierata e un nome che significa “meravigliosa primavera”. Ma poi arriverà l'autunno della fine dell'Indocina francese, la nascita di un Vietnam del Sud conteso dai nordisti di Ho Chi Minh e sostenuto dagli americani che punteranno tutto sul presidente Ngo Dinh Diem, un ex mandarino il cui fratello minore, Ngo Dinh Nhu, diviene capo della polizia segreta. Ma Ngo Dinh Nhu è anche il marito di Madame Nhu e cosi la coppia prende casa a palazzo. E' la seconda metà degli anni Cinquanta
Di Madam Nhu si dice di tutto e di più: che è una moralista esagerata perché si è convertita dal buddismo al cattolicesimo: che chiude i bordelli e predica la lotta all'aborto ma che porta scollature vertiginose; che trama nell'ombra, che gestisce le reti segrete di palazzo. Ma soprattutto che parla fuori dai denti: anche troppo. Negli anni Sessanta il Vietnam è attraversato dalle proteste dei monaci buddisti che, loro pure, sono contrari alla guerra coi fratelli del Nord. Alcuni di questi religiosi si danno fuoco. Si immolano tra le fiamme della benzina. Episodi ricordati allora come il suicido dei bonzi. Ma a Madame Nhu questa cosa non piace e la commenta cosi
Insomma questi monaci – dice in televisione - sono stati ridotti dai lor mistici capi a dei...barbecue. E non solo. Per uccidersi in nome della nazione non hanno nemmeno usato benzina nazionale ma quella importata dall'estero. E' Davvero troppo
La protesta dei monaci e le sorti sempre peggiori della guerra inducono gli americani a cambiare cavallo. Il presidente viene scaricato e ucciso da un aiutante del generale Dương Văn Minh il 2 novembre 1963, durante un colpo di stato. E Duong Van Minh diventa dunque presidente al posto di chi, una volta morto, non potrà più proteggere la sua “Lady Dragon”, la donna del fratello che, visto che il presidente era scapolo, veniva vista in Vietnam come la vera first Lady. Una first Lady per cui è arrivata l'ora del tramonto.
Ma è un tramonto fiero, da drago vietnamita. Rifiuta l'esilio in America e sceglie la Francia e l'Italia dove si trasferisce anche perché in Vietnam, dove i suoi beni saranno sequestrati, non potrà più tornare. Guarda dall'Europa la fine di un mondo che sentiva non appartenerle più e che si conclude con le immagini degli ultimi americani che abbandonano nel 1975 l'ambasciata americana di Saigon: alla fine dei traditori anche per lei
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