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martedì 3 settembre 2019

Afghanistan: L'accordo c'è ma la guerra continua

Un’auto bomba ha colpito stanotte nel cuore della capitale al Green Village, luogo frequentato anche da stranieri (almeno 16 morti e oltre 100 feriti) mentre si continua a combattere nel Nord del Paese, dove la guerriglia ha scatenato negli ultimi due giorni un’offensiva che ha tutta l’aria di essere stata preparata con cura. Ma da Kabul arriva anche una buona notizia: l’accordo tra i Talebani e l’amministrazione statunitense sull’Afghanistan è chiuso, almeno “in linea di principio”, assicura l’inviato del presidente Trump, Zalmay Khalilzad. Che ieri nella capitale ha sottoposto il testo all’attenzione del presidente afghano Ashraf Ghani, mentre nel resto del Paese i Talebani intensificavano la battaglia per portare a casa, oltre a un accordo che gli permette di rivendicare “vittoria”, anche qualche successo militare in più...segue su atlanteguerre

Questo articolo è stato scritto a quattro mani con Giuliano Battiston per il manifesto e aggiornato stamane per atlanteguerre

giovedì 31 gennaio 2019

Accordo Usa/Talebani: la lettura della guerriglia

Sappiamo abbastanza delle posizioni americane sulle prime mosse di un accordo di pace in Afghanistan. Ma qual è  esattamente la posizione della guerriglia? Cosa pensano del negoziato i talebani?

Mercoledì scorso - scrive oggi Pak Tribune -  i talebani hanno rilasciato un'intervista video in cui parla l'attuale capo dell'ufficio politico talebano a Doha, Sher Abbas Stanekzai (che sarà sostituito nei colloqui da Mullah Baradar, considerato una "colomba"). Stanekzai  afferma, tra l'altro, che le Nazioni Unite, l'OIC (Organizzazione della conferenza islamica), le maggiori potenze e i Paesi regionali e limitrofi saranno presenti come garanti quando i talebani e gli Stati Uniti firmeranno gli accordi sul ritiro delle truppe e sull'impegno dei talebani a far si che  il suolo afgano non venga usato per danneggiare altri. "Abbiamo convinto  gli Stati Uniti - scrive il quotidiano riportando alcuni stralci dell'intervista - che le questioni relative agli Stati Uniti saranno discusse con loro e quelle relative alle questioni interne dell'Afghanistan saranno discusse con gli afgani e le tribù a tempo debito" (Leggi anche  quanto ha detto in un'intervista audio all'Ap sul fatto che i talebani non vogliono per forza nel futuro governare il Paese da soli).

Stanekzai nel fotogramma di un video
 pubblicato su Youtube da Afghan
 Social Network nel novembre 2018
"Gli Stati Uniti pensano che l'Afghanistan sia stato usato contro di loro in passato e vogliono assicurarsi che il suolo afgano non venga usato contro di loro in futuro. Vogliono che nessuno agisca contro gli Stati Uniti e se ciò viene garantito,  sono pronti a ritirare tutte le truppe straniere sia americane sia della NATO. Abbiamo detto loro che persino un solo soldato straniero non è accettabile sul suolo afgano-... abbiamo detto loro che il Jihad continuerà anche se un solo soldato rimarrà in Afghanistan. Ci hanno assicurato che ritireranno tutte le forze".

Stanekzai sostiene che gli americani hanno assicurato di non volere né la presenza permanente di truppe né basi militari, un punto sensibile sul quale sinora l'inviato americano non aveva detto nulla. Poi c'è il nodo governo afgano che i talebani considerano un esecutivo illegale e imposto con la forza. Il presidente Ashraf Ghani - dice Stanekzai - non può decidere che restino le truppe straniere né chiedere loro di andarsene perché non ha alcun potere: "E dunque - conclude il negoziatore talebano - come possiamo parlare con una persona impotente?"

Quando si dice via dall'Afghanistan, ribadisce  Sher Abbas Stanekzai, significa non un singolo soldato, nemmeno all'interno dell'ambasciata americana.... (segue su atlanteguerre.it)

martedì 21 agosto 2018

Parole. Cosa c'è sul mio passaporto?

L'importanza delle parole: sul vostro/nostro passaporto c'è scritta una nazionalità. Ma un rohingya, che il passaporto non ce l'ha? Dacca qualche giorno fa ha acconsentito alla richiesta di Naypyidaw di sostituire le parole "Forcibly Displaceed Myanmar Nationals" con "Displaced Persons From Rakhine State" sulle carte d'identità rilasciate dalle autorità bangladesi ai rifugiati  a Cox's Bazar. Sottigliezze? Mica tanto. Tradotto in altre parole vuol dire che c'è accordo per i rohingya su uno status di sfollati non di rifugiati politici costretti a fuggire dal suolo natio.

giovedì 9 agosto 2018

Rohingya e il rimpatrio impossibile

Difficile accesso al Rakhine per le agenzie umanitarie Onu
L'ambasciatore alle Nazioni Unite del Bangladesh, Masud Bin Momen, in una lettera inviata al Consiglio di sicurezza dell'Onu, ha scritto che mentre il Bangladesh continua a impegnarsi con la Birmania "in buona fede" sugli accordi per il ritorno dei Rohingya, "dispiace che le condizioni necessarie per il ritorno sostenibile non esistano  in Myanmar....né il Myanmar - aggiunge nellla missiva - ha intrapreso uno sforzo dimostrabile per affrontare le preoccupazioni dei Rohingya e della comunità internazionale". Momen ha invitato  il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite  ad adottare una risoluzione ad hoc sulla vicenda e a intraprendere "un'azione concertata e determinata per affrontare la crisi Rohingya". Che resta al palo da ormai un anno.

mercoledì 17 gennaio 2018

Rohingya, il rimpatrio impossibile


Tra meno di una settimana, come stabilito in novembre tra le autorità del Bangladesh e quelle del Myanmar, dovrebbe iniziare il rimpatrio delle centinaia di migliaia di persone della minoranza musulmana birmana dei rohingya rifugiatesi oltre frontiera nell’agosto scorso. I termini del rimpatrio fissano infatti al 23 gennaio la data di inizio di un controesodo che dovrebbe concludersi nel giro di due anni. Ma quando a fine novembre 2017, Dacca e Naypyidaw hanno siglato l’accordo per il rientro dei rohingya espulsi questa estate dai militari birmani, il bilancio delle vittime scampate all’ultimo pogrom anti musulmano era arrivato a poco più di 600mila unità. In questi giorni, quando sono stati resi pubblici i paletti dell’accordo, l’ultimo bilancio ha aggiornato la cifra a 673mila. In buona sostanza, mentre si negoziava il ritorno, altri 70mila rohingya fuggivano dal Paese delle mille pagode e della Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. In che condizioni dunque può avvenire questo controesodo che i riflettori della cronaca, per quanto scarsi, e le pressioni internazionali, per quanto scarne, hanno alla fine imposto al regime birmano dove i generali dettano ancora legge?

venerdì 24 novembre 2017

Accordo sui rohingya

La firma del protocollo in una foto del DailyStar di Dacca
Bangladesh e Myanmar firmano un protocollo per il rientro della minoranza. Ma senza una data. Il controesodo dovrebbe iniziare entro la fine di gennaio

C’è un accordo tra Bangladesh e Myanmar per il rientro dei rohingya scacciati dal Paese delle mille pagode e dell’infinita compassione. C’è un accordo che per ora è un pezzo di carta e che non ha nemmeno una data certa entro la quale dovrebbe ricomporsi l’esodo più massiccio della Storia recente da un Paese non in conflitto.

Il confine col Bangladesh sul fiume Naf
e gli incendi rilevati dal satellite nel Rakhine
L’accordo è stato firmato ieri mattina nell’ufficio della Nobel Aung San Suu Kyi, sotto pressione da mesi: da quando a fine agosto è iniziato l’esodo forzato che ha catapultato in Bangladesh oltre 600mila rohingya, la minoranza musulmana senza diritti che in Myanmar non ha nemmeno quello di chiamarsi così. I “senza nome”, ammassati in campi che sono in condizioni spaventose – come finalmente si comincia a documentare con una certa costanza – dovrebbero cominciare a rientrare -prevede il protocollo siglato dalla Nobel e dal ministro degli Esteri di Dacca Mahmood Ali – entro due mesi. Per il Bangladesh è una vittoria e ieri la premier Sheikh Hasina ha rinnovato il suo invito a Naypyidaw a far si che i rohingya tornino a casa. Ai 625 mila arrivati da agosto ne vanno infatti aggiunti forse un altro mezzo milione che, nei decenni, hanno scelto la via che passa dal fiume Naf e che porta in Bangladesh.

domenica 13 luglio 2014

Che pessima notizia: c'è l'accordo sulle elezioni afgane

Amici nemici. Nella foto dell'agenzia Pajhwok
 i due contendenti si stringono la mano
Se è tutto bene quel che finisce bene, il processo elettorale afgano per scegliere il nuovo presidente si starebbe avviando a buon fine. Una riconteggio delle schede sotto supervisione Onu vaglierà ogni singolo voto del ballottaggio del 14 giugno alla presenza dei rappresentanti dei due candidati che si impegnano a rispettarne il verdetto. Tutto bene? Si certo ma a che prezzo.

Tanto per cominciare, per trovare l'accordo le parti hanno avuto bisogno che il segretario di Stato americano Kerry intervenisse di persona. Poi, di comune accordo, hanno chiesto aiuto ad Isaf che si occuperà (con l'esercito afgano) di portare tutte le schede dalle province a Kabul. In terzo luogo c'è anche un accordo perché nasca un governo di unità nazionale benché sotto l'egida del vincitore. Non ultimo, il passaggio di poteri che doveva avvenire il 2 agosto viene rimandato (il male minore).

domenica 20 ottobre 2013

L'EMEROTECA DI AMANULLAH (letture consigliate)

Un articolo di Al Jazeera sull'accordo Kabul-Washington per il dopo 2014. Il nodo dell'immunità per i soldati e il doppio standard americano















The truth about criminal jurisdiction over US troops in Afghanistan

Aljazeera
By Chris Jenks
October 19, 2013

Commentary: Secretary of State Kerry jeopardizes US-Afghan security agreement with misstatement

During an Oct. 12 press conference in Kabul, U.S. Secretary of State John Kerry said that under the pending U.S.-Afghan security agreement, the United States would retain exclusive jurisdiction over its service members for any crimes they commit in Afghanistan.
Kerry unfortunately misstated U.S. law, policy and practice. What's worse, he did so at a critical juncture in the negotiations for an agreement to enable American troops to remain in Afghanistan after 2014. And he did this while standing next to Afghan President Hamid Karzai. Kerry's misstatements undermined Karzai's ability to explain and advocate for the jurisdiction provisions at an upcoming loya jirga, or political assembly.
Here is what Kerry said:
"We have great respect for Afghan sovereignty. And we will respect it, completely But where we have forces in any part of the world in Japan, in Korea, in Europe wherever our forces are found, they operate under the same standard. We are not singling out Afghanistan for any separate standard. We are defending exactly what the constitutional laws of the United States require."

Returning to the U.S., Kerry repeated his misstatement, claiming that there is "the question of who maintains jurisdiction over those Americans who would be (in Afghanistan after 2014). Needless to say, we are adamant it has to be the United States of America. That’s the way it is everywhere else in the world." This led The Washington Post to award Kerry "three Pinocchios," for statements containing "significant factual errors and/or obvious contradictions."
The secretary may, in fact, have doomed the very security agreement he was in Afghanistan to save. His comments are also strategically counterproductive on a larger scale: They perpetuate the myth that the U.S. does not "allow" the courts of another country to prosecute U.S. service members for their criminal actions in that country.

Variety of standards

Foreign countries prosecute and imprison U.S. service members each and every year under the terms of security agreements — which, contrary to Kerry's claim, apply very different standards than the U.S.-Afghan agreement. Since Kerry is a lawyer and former district attorney, his false contention that the U.S. Constitution requires that the U.S. and only the U.S. prosecute its service members is perplexing.
The criminal jurisdiction sections of security agreements between the U.S. and other countries vary. But for a foreign country in which a large number of American service members are stationed, such as Japan, South Korea and Germany, that country has primary jurisdiction over U.S. service members in the vast majority of cases.
The only crimes for which the U.S. retains primary jurisdiction under those agreements are offenses that arise from service members' official duties (think convoy vehicle accident or military aircraft incident) or from crimes in which the victims are exclusively American. In all other instances in which the offense violates laws of both the U.S. and the foreign country, the foreign country has primary jurisdiction to prosecute U.S. service members.

American policy is to maximize U.S. jurisdiction over its service members. For foreign countries that have a primary right of jurisdiction over U.S. service members, the United States requests that those countries waive their right so the American military may take appropriate action. And in the overwhelming number of cases, countries such as Germany, Japan and South Korea do waive their right, because they know from decades of experience that the U.S. does in fact hold its service members accountable.
In the small number of cases in which the foreign country declines to waive its jurisdiction — generally in high-profile offenses such as rape and murder — the U.S. provides its service member a foreign attorney at no charge to the service member; another representative to ensure that the foreign country respects the rights and privileges the agreement affords the service member; and a dedicated military lawyer to observe, monitor and report on the proceedings.

Afghanistan's standard

Under the current U.S.-Afghan arrangement, Afghanistan waives jurisdiction over U.S. service members regardless of the crime. Thus, when U.S. Army Sgt. Robert Bales sneaked out of a forward operating base in the middle of the night on March 11, 2012, and slaughtered 16 Afghan civilians, mostly women and children, Afghanistan did not have criminal jurisdiction. Had Bales committed his offense in Japan, South Korea or a NATO country, that country could and would have prosecuted him.
The jurisdictional scheme in the pending U.S.-Afghan security agreement would lead to the same outcome as in the Bales case. If, in 2015, a U.S. service member stationed in Afghanistan commits wanton criminal misconduct against Afghan civilians, Afghanistan would still not have primary jurisdiction over the offender.

Kerry was right to push back on the claim that the agreement results in immunity. It does not. That the U.S. Army court-martialed Bales, convicted him of murder and sentenced him to life in prison without the possibility of parole is anything but immunity.
But the proposed criminal jurisdiction arrangement is fundamentally different from the arrangement the U.S. has with other countries, including those the secretary mentioned. Kerry undermines American credibility by falsely claiming the U.S. is not singling out Afghanistan for a separate criminal jurisdiction standard. In fact, there are legitimate reasons for that separate standard. For instance, the current Afghan criminal justice system lacks the procedural safeguards guaranteed by the U.S. Constitution to ensure a fair trial.
Making that point is diplomatically delicate, if not awkward — especially when President Karzai is standing next to you. But if Afghanistan is to be treated as a partner, now and moving forward, the U.S. cannot afford such careless statements by its top foreign-affairs official.

lunedì 11 giugno 2012

ACCORDO DI PATERNARIATO TRA KABUL E ROMA, QUELL'OSCURO OGGETTO DEL DESIDERIO

Si chiama "Ratifica ed esecuzione dell’Accordo sul partenariato e la cooperazione di
lungo periodo tra la Repubblica italiana e la Repubblica islamica dell’Afghanistan, fatto a Roma il 26 gennaio 2012
" che, sarà un caso, porta la data del mio compleanno (59 anni dopo!). E' il procedimento che converte in legge dello Stato un accordo bilaterale firmato da Stati, nello specifico tra Roma e Kabul. Il parere tecnico (soprattutto sulla copertura) si può leggere qui, mentre il testo dell'accordo di può (finalmente) leggere qui. Il parlamento non lo può modificare, ma è un'occasione per discutere, per non dimenticare quel Paese, per chiedere chiarimenti e suggerire indirizzi.

Dico "finalmente" perché è appunto dal 26 gennaio o giù di li che cerco di leggere questo benedetto documento. Per mesi ho cercato di averlo tra le mani chiedendo un favore a destra e a manca finché, fortunatamente, e segnalatomi da un amico che lavora alla Camera, l'oggetto del desiderio è apparso sul sito istituzionale di un ramo del parlamento. Ci volevano quasi sei mesi per renderlo di pubblico dominio?

Visto da Kabul, dove mi trovo a gustare le prime angurie e la stagione dei manghi (qui sconosciuti fino a qualche anno fa e che vengono dal Pakistan), non mi sembra un cattivo accordo. C'è la solita enfasi sulla sicurezza e sulla lotta al terrorismo, ma c'è anche un'apertura alla società civile locale e una promessa, anche se non quantificata, di investire nel settore civile, anche culturale, e in quello dei media, effettivamente un cavallo su cui merita puntare.

L'ho mostrato ai miei amici afgani dicendo loro che, come tutti gli accordi internazionali, può essere una buona base oppure un pezzo di carta da dimenticare pieno solo di buone intenzioni. Dipende na noi, e da loro naturalmente (ma un po' meno). Se son rose, insomma, fioriranno.
Come accade in questi giorni nei roseti sopravvissuti alla guerra e al modernismo nella capitale.

sabato 14 aprile 2012

RAID NOTTURNI IL TESTO DELL'ACCORDO

Ne avevamo parlato il 9 aprile (I PUNTI OSCURI DELL'ULTIMO ACCORDO TRA WASHINGTON E KABUL ) quando Abdul Rahim Wardak, il ministro della Difesa afgano, e il generale John Allen, che comanda i soldati americani in Afghanistan, avevano firmato un accordo (memorandum of understanding) che passa la sovranità sui raid notturni all'esercito afgano. Ecco il testo in inglese

Text of the MoU (Source: UN)

The Government of the Islamic Republic of Afghanistan (hereinafter “Afghanistan”) and the Government of the United States of America (hereinafter “United States”), hereinafter known collectively as “Participants” and represented respectively by the Minister of Defense of the Islamic Republic of Afghanistan and the Commander, U.S. Forces-Afghanistan;

Recognizing the principles and provisions of the Constitution of the Islamic Republic of Afghanistan;

Recognizing the progress already made in their partnership aimed at combating international terrorism and extremism and stabilizing Afghanistan;

Building on the progress of the ongoing Transition of lead responsibility in the security sector to the Afghan National Security Forces (ANSF) in accordance with the principles of the Lisbon Declaration;

Highlighting the United States’ full respect for Afghanistan’s sovereignty;

Recalling the recommendations of the November 2011 Traditional Loya Jirga, with particular focus on the recommendation that "night operations conducted by the American forces must be Afghanized as soon as possible";

Taking note of the progress that has already been made on the Afghanization of special operations;

Have reached the following understandings:

Section One

Definitions

1. For the purpose of this Memorandum of Understanding (MoU), special operations are operations approved by the Afghan Operational Coordination Group (OCG) and conducted by Afghan Forces with support from U.S. Forces in accordance with Afghan laws.

2. The Khasa Amalyati Qeta/Qeta-e-Khas-e-Amalyati, or Afghan Special Operations Unit, hereinafter referred to as the KAQ/QKA, is comprised of Afghan National Army, Afghan National Police, and National Directorate of Security personnel. The KAQ/QKA leads special operations with support from U.S. Forces to provide security and stability in Afghanistan.

3. The OCG is an Afghan entity manned by Afghan personnel from security and law enforcement agencies. Among its responsibilities, the OCG reviews and approves special operations missions, participates in intelligence fusion, monitors mission execution, makes notifications to Provincial Governors, and makes reports to senior Afghan command authorities. Regional OCGs are being established and are expected to have responsibilities similar to the headquarters OCG.

4. In the context of special operations temporary holding means the holding of a person by Afghan authorities for such time as is consistent with Afghan laws, including Additional Protocol II of 1977 to the Geneva Conventions of 1949 (AP II), to determine if the person meets the criteria for prosecution or detention consistent with international humanitarian law.

Section Two

Terms of Afghanization of Special Operations

5. The Participants affirm their intent to ensure that special operations are conducted within the framework of the Constitution of Afghanistan, including in particular articles 4, 5, 7, 38 and 57 of the Constitution. To that end, the Participants affirm their intent as follows:

a. special operations that are expected to result in detention or the search of a residential house or private compound are to be authorized in accordance with Afghan laws;

b. residential houses are to be searched only if necessary, and as part of the conduct of special operations, only Afghan Forces should search residential houses and private compounds;

c. the KAQ/QKA can enter private compounds, residential houses, and other areas for the purposes of search and arrest, in accordance with Afghan laws, with support from U.S. Forces only as required or requested; and

d. Afghan Forces are to protect any women, children, or culturally sensitive places.

6. Afghanistan affirms that it is to put into place the necessary arrangements and capacities to ensure that special operations are conducted within the framework of the Constitution of Afghanistan, in order to permit the Participants to fulfill their intent under paragraph 5 above. This is to include, but not be limited to:

a. establishing judicial, prosecution, and investigative mechanisms capable of issuing timely and operationally secure judicial authorizations to conduct special operations missions against persons who are reasonably suspected of meeting the criteria for prosecution or detention under Afghan laws, including AP II; and

b. assigning vetted and cleared personnel within the OCG to facilitate the application and issuance of the above described authorizations.

7. In support of the full Afghanization of special operations, and in order to develop an enduring and capable special operations force for Afghanistan, the United States affirms that it is to continue to assist in:

a. increasing the size of KAQ/QKA squads and developing the capacity of the squads to continue to take the lead in special operations missions;

b. developing platoon-sized KAQ/QKA strike forces with key Afghan enablers in order to reduce the number of U.S. strike forces;

c. providing technical assistance as requested by Afghan authorities during temporary holding; and

d. developing the full range of Afghan capabilities required to conduct special operations.

8. U.S. Forces are expected to continue to support such operations and the relevant Afghan participating institutions with the full range of support necessary for those operations and institutions to be successful. This may include but is not limited to providing intelligence and intelligence analysis to the KAQ/QKA in order to give them full operational capability, as well as helicopter and fixed-wing lift, fires support, MEDEVAC, and security.

Section Three

Final Provisions

9. Any Afghan nationals detained by U.S. Forces outside special operations are to be released or transferred to Afghan authorities to be prosecuted or held in accordance with Afghan laws, including AP II.

10. The Participants, upon signing this MoU, are to establish a Bilateral Committee on Special Operations. Co-chaired by the Minister of Defense and the Commander, U.S. Forces — Afghanistan, or their designees, the Committee is to be responsible for the following tasks, among others:

a. overseeing the full Afghanization of special operations;

b. resolving any issues that arise from the coordination and conduct of special operations as described in this MoU; and

c. coordinating cooperation between the Participants in the development of Afghanistan’s capacities as described in this MoU.

11. The understandings of the Participants reflected in this MoU are without prejudice to existing arrangements and understandings on issues outside the scope of this MoU.

12. All cooperation under this MoU is to be consistent with the Participants’ respective rights, obligations, and commitments under international law, and subject to applicable laws and regulations of the Participants.

13. This MoU is intended to commence upon signature.

14. Any disputes with respect to cooperation under this MoU are to be resolved, in the first instance, in the Bilateral Committee on Special Operations established in paragraph 10 above, and may be settled through diplomatic consultations if not so resolved.

15. This MoU was signed on the 8th of April 2012 in the city of Kabul. The English, Pashto, and Dari versions carry equal weight.

For the Islamic Republic of Afghanistan; For the United States of America

General Abdul Rahim Wardak; General John R. Allen

Minister of Defense; Commander, U.S. Forces — Afghanistan

lunedì 9 aprile 2012

I PUNTI OSCURI DELL'ULTIMO ACCORDO TRA WASHINGTON E KABUL

Domenica scorsa Abdul Rahim Wardak, il ministro della Difesa afgano, e il generale John Allen, che comanda i soldati americani in Afghanistan, hanno firmato un accordo (memorandum of understanding) che passa la sovranità sui raid notturni all'esercito afgano. L'accordo, entrato in vigore da subito (vedi l'articolo di ToloNews), è l'ultimo tassello della maratona che, entro il 20 maggio, dovrà mostrare al vertice Nato di Chicago che Washington e Kabul hanno ormai un accordo definitivo che fissa le regole tra i due protagonisti del gioco afgano. Resta in sospeso solo la questione delle basi Usa in Afghanistan perché, dopo il passaggio di autorità sui raid notturni e, già in marzo, l'accordo sul trasferimento dei detenuti sotto l'autorità giudiziaria afgana, quasi tutto il resto sembra risolto. Quasi.

Il memorandum dà agli afgani il ruolo guida nei raid notturni, argomento sensibile da sempre, che devono essere fatti su mandato del procuratore 72 ore prima, salvo casi eccezionali in cui il mandato viene firmato ex post. Gli americani daranno solo sostegno militare, logistico o di altro tipo solo su richiesta afgani che possono anche consentire loro di entrare nelle case di privati cittadini, previa però autorizzazione locale. Ma il New York Times spiega che l'accordo non include le operazioni speciali che potrebbero essere messe in campo dalla Cia o da afgani che lavorano sotto sua indicazione. Insomma resta un punto oscuro. Ovviamente “speciale”. Anzi due.

A quanto si capisce
non si fa menzione dei raid aerei (notturni o diurni) che sono l'altro argomento sensibile. E' un punto controverso che continua a mietere vittime innocenti in aumento, l'anno scorso, rispetto al 2010.
Come che sia si sta tentando il possibile per arrivare a una pressoché totale autonomia della forze di sicurezza afgane, per ora circa 300mila uomini che entro l'anno aumenteranno di altre 50mila unità. Il vertice Nato di Chicago dovrà fare il punto sul ritiro occidentale entro il 2014 e sulle forme prolungate di sostegno militare, sia finanziario sia sotto l'aspetto della formazione, ai soldati di Kabul. E, come si vede, sotto il profilo delle “operazioni speciali” off the record che, immaginiamo, non saranno sulla carta ufficiale che uscirà dal summit.

lunedì 12 marzo 2012

LA STRAGE DI KANDAHAR

Dopo le scuse di rito, rapide ma probabilmente inefficaci, del capo del Pentagono Leon Panetta e dello stesso Barack Obama, l'ennesimo episodio che ha coinvolto un soldato americano e ha lasciato sul terreno 17 afgani, tra cui donne e bambini, in un villaggio della provincia di Kandahar, evoca scenari sempre peggiori: ritorsioni e proteste alimentate da una diffusa disillusione sulla capacità delle truppe di occupazione di garantire l'incolumità degli afgani e un'erosione del consenso verso l'Occidente che, dopo la vicenda del Corano dato alle fiamme o il video in cui i marine urinavano su talebani morti, è ormai al lumicino. Gli aspetti sono tanti anche se collegati tra loro

La dinamica della strage non è ancora chiara: secondo la stampa americana si è trattato dell'atto di follia individuale di un sergente dell'esercito, alla sua prima missione in Afghanistan ma già stato per tre volte in Iraq, che sembra l'incarnazione perfetta del cosiddetto Post Traumatic Stress Disorder: una forma maniaco depressiva che può tramutarsi in violenza gratuita e che è tipica dei reduci. Alcuni testimoni hanno però menzionato più soldati all'opera: un commando che avrebbe agito con un'azione coordinata e dunque premeditata ,ma non è chiaro se gli abitanti del villaggio non abbiano visto invece gli uomini della Nato correre sul luogo della strage, come potrebbe spiegare anche la presenza di un elicottero. Come che sia, la dinamica resta oscura e controversa e dovrebbe essere chiarita da un'inchiesta rapida prima che resti troppo spazio a dubbi e interpretazioni

I precedenti aggravano la situazione: solo poche settimane fa la vicenda dei Corani dati alle fiamme aveva dato la stura a una protesta pubblica – e diffusa in tutto il Paese - senza precedenti, che dà ai talebani la possibilità di sfruttare gli umori di una piazza inferocita e già scioccata dal video che, solo qualche mese prima, aveva mostrato dei soldati americani intenti a urinare sul corpo di alcuni guerriglieri morti per non parlare della vicenda della cosiddetta "Banda degli assassini" del 2010 ("The Kill Team"). Quel che risulta sin troppo evidente è comunque che gli americani (che addestrano le truppe locali!) non riescono a tenere sotto controllo i circa 90mila soldati di stanza in Afghanistan. Un fatto gravissimo per un esercito moderno e considerato il più potente e avanzato del mondo

Sul versante politico afgano l'ennesimo episodio ha questa volta portato la rabbia , sinora patrimonio della piazza, sin dentro il parlamento che oggi è stato chiuso dagli stessi parlamentari in segno di protesta. Nonostante qualcuno abbia giù chiesto al presidente di dimettersi, la vicenda potrebbe però rafforzare Karzai la cui reazione è stata immediata e che, dopo aver ottenuto da Washington qualche giorno fa il trasferimento
dei detenuti afgani nella Base di Bagram sotto la giurisdizione della giustizia afgana, ora punta a far smettere i raid notturni, colpevoli di uccidere civili innocenti (http://emgiordana.blogspot.com/2012/02/crescono-le-vittime-civili-in.html). Una sua vecchia richiesta finora ignorata

Sul versante politico americano la vicenda mette in difficoltà Obama ma solo fino a un certo punto. Quando capitò l'episodio del Corano, i repubblicani in corsa per la Casa Bianca lo criticarono perché si era scusato con gli afgani, ma dopo la strage folle di domenica si ritrovano ora ad armi spuntate. Kabul ha comunque assicurato che l'episodio di domenica mattina non modificherà il negoziato in corso con Washington per un accordo quadro sulla permanenza americana in Afghanistan dopo il 2014. Accordo che dovrebbe essere siglato entro maggio dalle due capitali, prima cioè del vertice Nato che farà il punto della situazione a Chicago, la città di Obama. L'accordo è vitale per il presidente perché dimostrerebbe la sua capacità di gestire la promessa exit strategy senza far uscire gli Usa completamente dal teatro afgano.

Il processo di pace, avviato con fatica e sotto traccia da ormai un anno, potrebbe invece subire un rallentamento. I talebani sfrutteranno l'episodio per alzare il prezzo e per indicare in Karzai l'uomo sotto il cui governo agli stranieri è permessa ogni violazione anche contro donne e bambini. Una recente ricerca fatta per conto della Ong italiana Intersos dimostra che la diffidenza verso le truppe occupanti non fa che aumentare. Inutile dire che episodi come quello di domenica gettano solo benzina sul fuoco.

venerdì 27 gennaio 2012

VISITA DI STATO

Dalla visita di Stato del presidente afgano Hamid Karzai a Roma di novità ne è emersa solo una: l'invito a Mario Monti ad andare in Afghanistan. Un po' più che una richiesta di rito, come sempre si fa per ricambiare la cortesia dell'ospitalità.

Se infatti il professore di Palazzo Chigi dovesse imbarcarsi per l'Hindukush, sarebbe la prima volta di un premier italiano dal 2007, quando Romano Prodi si recò a Kabul. Un po' poco per un Paese che schiera in Afghanistan 4200 soldati per i quali l'Italia spende circa de milioni di euro al giorno. Silvio Berlusconi di Afghanistan non ne ha mai voluto sapere: lasciava volentieri la palla al ministro Ignazio La Russa, noto per le sfilate in mimetica che facevano venire l'orticaria a chi la mimetica deve portarla tutti i giorni in prima linea, sul fronte di Bala Murghab o nella valle del Gulistan. E se la tradizione ha un senso, si potrebbe argomentare che per ora è soprattutto l'attuale titolare della Difesa, Giampaolo Di Paola, che fa e disfa la politica italiana in Afghanistan: è lui che decide quando come e quanti soldati torneranno a casa e se i caccia di base in Afghanistan debbano o meno rispettare i caveat imposti alle nostre truppe dal parlamento. Un attivismo più composto di quello di La Russa ma che non sembra allineare l'Italia su una scelta sempre più condivisa da Washington a Berlino: più politica e più impegno civile e sempre meno opzione militare.

Anche il testo che Monti e Karzai hanno firmato ieri a Roma, dice chi l'ha letto, non contiene grandi novità. Meramente protocollare e assai simile a quello concordato tra Kabul, Parigi e Londra – prossime tappe di Karzai – anche se l'Italia ha avuto la chance di essere la prima meta nel calendario degli appuntamenti di Karzai. Una scelta, dicono i diplomatici, non causale, ma dettata da una vecchia passione per il nostro Paese visitato in più occasioni , come Karzai stesso ha ricordato a Gianfranco Fini, quando veniva a trovare re Zhaer in esilio all'Olgiata, alle porte della capitale. Il luogo dove si organizzarono le premesse della Conferenza di Bonn del 2001 che incoronò Karzai e diede l'avvio alla nascita dell'Afghanistan post talebano. Per il resto abbiamo saputo quel che già sapevamo e cioè che il nostro impegno andrà oltre il 2014 data del ritiro delle truppe che non sappiamo invece come avverrà.

Della nebulosa Afghanistan (il parlamento se ne ricorda solo quando va rifinanziata la missione militare o quando muore un soldato), ci sono comunque almeno due ombre che forse sarebbe stata l'occasione buona di fugare: una politica, l'altra economica. Quella politica riguarda il dimissionamento di tre commissari (che erano effettivamente in scadenza) della Aihrc (La Commissione afgana indipendente per i diritti umani), tra cui Nader Naderi e Fahim Hakim, due autorevoli membri che si sono distinti per autonomia e capacità critica nei confronti del governo. Karzai, con quello che a molti è sembrato un colpo di mano, li ha sostituiti con suoi fedelissimi. Non un bell'inizio nella prima fase del dopo Bonn2, il vertice appena conclusosi in Germania in dicembre. Può darsi che glielo sia stato segnalato, o almeno c'è da augurarsi che sia stato fatto.

La seconda riguarda gli affari: Roma ha prestato a Kabul 137 milioni di euro per sistemare il polo aeroportuale di Herat, una notizia (è di fine dicembre) passata del tutto inosservata e annunciata attraverso un breve lancio di agenzia dopo un viaggio tra le nevi dell'Hindukush di Paolo Romani, già titolare del dicastero guidato attualmente da Corrado Passera (il ministero dello Sviluppo economico) che, senza fanfare, lo ha nominato – notizia che creò un certo scompiglio - suo inviato personale per l'Afghanistan.

In tempi di sacrosanta trasparenza anche questo punto sarebbe forse stato da chiarire al contribuente, chiamato in causa da Karzai come il vero mulo che traina la missione italiana. E che avrebbe il diritto a non portare il paraocchi.