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sabato 26 settembre 2009

COSA DICE IL RAPPORTO McCHRYSTAL


On 26 June, 2009, the United States Secretary of Defense directed Commander, United States Central Command (CDRUSCENTCOM), to provide a multidisciplinary assessment of the situation in Afghanistan. On 02 July, 2009, Commander, NATO International Security Assistance Force (COMISAF) / U.S. Forces-Afghanistan (USFOR-A), received direction from CDRUSCENTCOM to complete the overall review....

La versione declassificata del documento McChrystal del 30 agosto diffusa in sede Nato (il documento originale è di 66 pagine) il 21 settembre scorso si può leggere su Lettera22

martedì 22 settembre 2009

COM'E' NATA LA NUOVA "LEGGE TALEBANA"

Il disegno di legge sulla corruzione etica che giace in una commissione del parlamento afgano non è cosa recente. La legge (Law on Fight against the Ethical Corruption and [Safeguarding] the Social [Security]) ha anzi una storia piuttosto lunga e la sua genesi spiega bene come funziona il parlamento afgano e quanto contino le pressioni esterne in un paese dove l'assenza di partiti politici (perlomeno nella forma che noi conosciamo rispetto alle rappresentanze parlamentari) si serve di personalità carismatiche ed influenti che...dettano legge. Il lavoro della Commissione anti narcotici sul disegno di legge – di cui Il Manifesto ha dato conto domenica scorsa - che vorrebbe vietare la musica in pubblico, reiterare l'obbligo del velo e comminare pene severissime a chiunque violi la netta separazione tra uomini e donne in Afghanistan, ha la sua genesi nei primi mesi del 2008. Grazie alla Tv. La causa scatenante è la trasmissione televisiva di una soap indiana che mette in allarme chierici e islamisti. Le soap indiane sono molto viste ma anche piene di giovani donne truccate e che lasciano immaginare, tra i sottili veli del sari, piccanti sensualità. In particolare un ballo pubblico aveva scatenato il pandemonio.


L'idea era che cose simili dovessero essere messe al bando e che, in futuro, l'Afghanistan fosse tutelato dalla corruzione dei valori islamici o meglio della loro lettura più retriva. A muoversi erano stati gli uomini vicini ad Abdul Rasul Sayyaf, islamista della prima ora, comandate mujaheddin di punta vicino, come soldi e pensiero, ai sauditi. Anche grazie a Sayyaf, membro del parlamento, arriva in commissione antinarcotici un lungo dossier preparato da diverse autorità religiose. Un altro parlamentare, Taj Muhamad, buon amico dell'ex leader della lotta antisovietica e membro della commissione, lo prende in mano e si fa promotore del dossier, redatto fuori dal parlamento, facendolo diventare un disegno di legge da discutere coi parlamentari. Ma i realtà il disegno di legge non fa molta strada. In parlamento e nella stessa commissione fatica a trovare adepti e il progetto apparentemente si ferma.

In realtà, notano alcuni osservatori, si tratta di una legge veramente islamista ossia più “moderna”, se così si può dire, degli editti di mullah Omar, influenzati dal codice d'onore dei pashtun e da una visione “rurale” della società afgana. Forse, proprio per questo, è più pericolosa ancora. La legge ha inoltre una serie di raffinatezze politiche interessanti.... (continua)

Leggi tutto su Lettera22 nella rubrica Afghanistan

lunedì 21 settembre 2009

LA LIBERA INFORMAZIONE, IL CORDOGLIO E LA GUERRA


Sono convinto che in Italia ci sia un serio problema che riguarda l'informazione: scarsa e approssimativa, superficiale e, soprattutto, fortemente condizionata. Ecco perché io sono andato lo stesso in piazza il 19. Eravamo in 4 a Piazza del Popolo e poi ho saputo che in realtà il concentramento era a Piazza Navona dove c'erano forse una ventina di persone. Un flop ma tant'è, non avevo proprio digerito che la Fnsi avesse rimandato la manifestazione. Che c'entra la libertà di stampa col cordoglio? Io, che perosnalmente odio la grancassa attorno ai quaei poveri sei soldati, posso capire i funerali di stato ma credo che rendere omaggio a quelle persone, da giornalista, lo possa fare solo scrivendo la verità.

Quei sei soldati (e con loro diverse vittime civili afgane) sono morti perché? C'è bisogno di più informazione semmai, non di un rinvio. Ma c'è anche un'altra questione
Una volta in piazza ho saputo che tra gli autoconvocati qualcuno aveva unito i temi del 19(la libera informazione) con la pace o meglio il ritiro dall'Afghanistan. Non mi è affatto piaciuto. Ma che c'entra la libertà di stampa col ritiro? Ognuno, ben informato, decide quel che vuole e inoltre io non sono affatto per il ritiro e spiego in due parole perché: uno non va a casa d'altri, spaccando tutti i piatti ma dicendo che in realtà era andato li a preparare la cena. E non è che poi si mangia le quatto patatine che aveva portato e infine dice "bhe, visto che non c'è nulla da mangiare vi saluto e vado al ristorante" senza manco scopare in terra....E no. Troppo facile, troppo comodo. Le risposte di pancia non mi piacciono

Mischiare la guerra e il ritiro con i temi del 19 è sbagliato tanto quanto fare la grancassa melliflua del cordoglio unanime e stucchevole attorno a quei sei poveri soldati. Io a modo mio ho pensato a loro. Magari qualcuno l'ho anche conosciuto e, chissà, son stato vicino di posto con lui su un C 130. A sentire certi commenti disinformati di qualche cordoglista che ignora se l'Afghanistan ha o meno lo sbocco al mare, mi vien da pensare che davvero c'è bisogno di migliore informazione. Di informazione non teleguidata da chi alla fine sfrutta la morte di sei soldati per far grancassa. Il silenzio è la forma di maggior rispetto per i morti. E i militari lo sanno benissimo come per altro aveva detto uno di quei sei ragazzialla propria moglie: "S torno voglio solo te e Simone..."
Invece Simone l'hanno sbattuto in prima pagina con il baschetto rosso. Ma nessuno riuscirà davvero a spiegargli perché suo padre è andato a morire in quel paese lontano. Nessuno è interessato a farlo. Ecco perché tornerà in piazza il 3 ottobre

In questa foto scattate da Paola Roli le prove: in alto i 4 di piazza del Popolo (tra cui la fotografa) più il mio cane che non diserta mai le battaglie civili. Sotto, gli autoconovcati di piazza Navona

domenica 20 settembre 2009

GLI ISLAMISTI DEMOCRATICI DI KABUL


Torno più nello specifico sul decreto legge - Law on Fight against the Ethical Corruption and [Safeguarding] the Social [Security]- in discussione al parlamento afgano e su un disegno di legge che stazione da un po' e che fu proposta dagli uomini vicini a Sayyaf, un islamista afgano molto amico dei sauditi. Ci si iniziò a lavorare agli inizi del 2008 fuori dal parlamento

Vietata la musica nei luoghi pubblici. E, se il volume è troppo alto, anche nelle case private. Vietato non osservare la tradizione del velo e vietato, pena una multa, che un uomo e una donna si stringano la mano se non sono parenti. Vietato offrire un passaggio notturno a una fanciulla che non sia accompagnata da un consanguineo o dal marito. E stia ben attento chi affitta una stanza per la notte a una donna e un uomo che non sono sposati perché, in questi casi, si rischia anche il carcere: da tre mesi a un anno.

Non è purtroppo uno dei famosi editti che hanno resa famosa la più oscurantista tra le interpretazioni del dettato religioso islamico. Non è una legge dei talebani che, sino al 2001, fecero dell'Afghanistan un emirato ispirato alla purezza delle origini. E' una legge “talebana” che il parlamento attuale di Kabul sta discutendo nella Commissione che ha il compito di licenziarla per poi sottoporla alla firma al presidente della repubblica. La legge per la “Lotta alla corruzione etica e per la salvaguardia sociale” non è ancora un caso ma presto lo diventerà. C'è altro da occuparsi al momento e poi, con qualche morbido emendamento, si è appena chiuso il capitolo della famosa legge sul diritto privato degli sciiti. Ma è questione di settimane, forse di giorni. Il testo gira, creando imbarazzo e disappunto, sui tavoli della ambasciate dei paesi occidentali, gli sponsor della democrazia da laboratorio fabbricata per l'Afghanistan dopo il 2001. Con questi risultati? E' una bomba a tempo destinata a creare nuove polemiche e, una volta per tutte, a squarciare il velo (è il caso di dirlo) delle ipocrisie: nel parlamento afgano siedono deputati la cui ideologia non differisce granché da quella di mullah Omar. Sono i vecchi mujaheddin della resistenza anti sovietica, non meno islamisti degli uomini in turbante che assaltano i convogli della Nato. Hanno solo fatto una diversa scelta di campo su cui, per convenienza, a lungo si è chiuso un occhio.

Il disegno di legge in discussione prevede la nascita di una Commissione etica guidata dal Ministero per l'Haj (il pellegrinaggio alla Mecca), nei cui uffici dovrebbe nascerebbe un segretariato operativo col compito di individuare e far punire. Preludio forse a una polizia del vizio su modello iraniano. Ed è molto chiara negli obiettivi: intende combattere la “corruzione” ma non quella del portafoglio. Quella “etica e sociale” ossia “atti contro la Sharia islamica...che minano lo sviluppo sociale”. E' contro le “trasmissioni devianti...contrarie ai valori islamici” e riguarda l'“osservanza religiosa del velo (Sharia)”, il codice attraverso cui vestirsi e la protezione di tutti i luoghi pubblici (dai parchi agli autobus, dalle scuole ai bazar – praticamente ogni spazio comune) in cui si cammina, si entra o si staziona.

Le punizioni sono variabili: è punito con tre mesi o un anno chi vende e compra alcolici o video casette in cui si vedano anche solo “corpi mezzi nudi” e l'albergatore che non si assicuri se i suoi ospiti sono marito e moglie. Sei mesi o un anno vengono comminati a chi organizza danze femminili, pena prevista anche per la ballerina professionista che danzi davanti a un pubblico di maschi. Un anno e una multa a chi prepara corsi di palestra per uomini e donne. Tre mesi o un anno a chi permette a una femmina o a un bambino di ballare, mentre una multa tocca a chi dà un passaggio di notte a una donna non accompagnata da parenti o a chi si “travesta” con abiti dell'altro sesso. Ma persino una donna o un uomo che si stringano la mano senza essere parenti andranno incontro a un'ammenda. Che diventa più alta per chi organizza feste miste. C'è inoltre un monito allarmante alle Ong: non potranno far viaggiare il personale femminile senza il legale compagno e non potranno, nei loro locali, ospitare donne che non siano regolarmente impiegate. Come organizzare dunque riunioni con le donne senza mariti o fratelli al seguito? Viene anche punito il gioco d'azzardo, il fumo in pubblico e la lotta tra animali (quest'ultima una piaga assai diffusa - dai galli, alle quaglie - anche a Kabul). Ma viene anche vietata la musica all'aperto e, se ad alto volume, persino in casa. Come ai tempi di mullah Omar. Manca solo la pena capitale e l'impiccagione dei televisori.

giovedì 17 settembre 2009

KARZAI, IL VOTO E LA LEGGE "TALEBANA"



Martedi, l'ammiraglio Mullen, capo di stato maggiore dell'esercito americano, aveva detto davanti al Congresso, che il vero rischio per l'Afghanistan più che mullah Omar è un governo delegittimato. Non conosceva ancora i dati, “provvisori” ma ormai chiaramente definitivi, resi noti ieri che danno Karzai al 54,6%, la percentuale più alta raggiunta dal presidente uscente e ormai lontanissima dal rivale Abdullah Abdullah rimasto sotto al 28%. Ma Mullen forse già sapeva che l'Unione europea avrebbe dichiarato che qualcosa come un milione e mezzo di voti, un quarto delle schede infilate nelle urne, sarebbero “fraudolente”. Condizionale d'obbligo ma sufficiente a fare di Karzai un presidente assai debole. Mullen conosce probabilmente anche i termini di una nuova legge in discussione al parlamento – e di cui si discute animatamente nelle cancellerie – che Lettera22 ha potuto visionare: e che punisce con un anno di galera chi affitta un locale a una coppia non sposata e con una multa la donna che stringe la mano a uno sconosciuto. Una legge sulla morale di sapore “talebano”. Che, unita a un presidente eletto grazie anche a un milione di schede fraudolente, dipinge un quadro davvero a tinte fosche.

Il team elettorale di Karzai non ha esitato a definire “parziali, irresponsabili e in contraddizione con la Costituzione” le valutazioni emerse ieri dalla Election Monitoring Commission europea ma il presidente sa bene che nella comunità internazionale il malessere è palese. “Cosa farebbe lei – ci dice un diplomatico occidentale accreditato a Kabul – se nel suo paese venisse a sapere che una percentuale del voto è fraudolenta?”...

LETTERA22

mercoledì 16 settembre 2009

PERCHE' VADO IN PIAZZA SABATO 19

Lettera22 aderisce alla manifestazione indetta dalla FNSI per la libertà di stampa, sabato 19 alle ore 16, a piazza del Popolo a Roma. Questo commento è un modo per spiegare perché un'associazione di freelance, non inquadrate nelle redazioni dei grandi giornali, aderisce a una manifestazione di questo tipo


Ognuno di noi “letterini”, nella nostra tradizione, aderisce a questa manifestazione forse con uno spirito diverso. Col suo personale. Ognuno ci vede qualcosa che va difeso o salvaguardato. E nonostante i giusti distinguo – quanta responsabilità abbiamo come giornalisti proprio per il fatto che qui siamo arrivati? - a me sembra giusto andare in piazza sabato. Ma non solo per una motivazione ideale. C'è un motivo stringente, vorrei dire pragmatico che mi obbliga a farlo. E che vi vorrei spiegare, cari lettori.

Quando il presidente del Consiglio del mio paese minaccia un giornale o consiglia di non farvi affluire pubblicità, di non leggerlo, di non comprarlo, non è esattamente come se io sconsiglio a qualcuno di vedere un film. E' una forma di intimidazione più o meno diretta che, se colpisce oggi Repubblica, finirà domani o dopo per colpire anche me, giornalista di una piccola navicella nel mercato editoriale italiano. E se i giornali per cui lavoriamo – intimiditi – chiudessero i rubinetti, rarefacessero le comande o, peggio ancora, le modulassero per farle andar bene a questo o quel politico...?

Ecco allora, vedete bene, che il problema è di tutti: di Repubblica o della terza rete Rai, del Manifesto minacciato dalla legge sull'editoria o di qualsiasi altro giornale o direttore che prima di scrivere o far scrivere ci pensa due volte. Interessa a noi, che dipendiamo economicamente dal mercato editoriale, ma interessa anche voi lettori. Voi lettori di Lettera22. Se un grande giornale è in difficoltà o viene messo in difficoltà (i tagli alla pubblicità possono essere mortali) anche Lettera22 verrà spazzata via di conserva. Lei e la sua pomposa dicitura “associazione indipendente di giornalisti”. Ma anche voi non avrete più la nostra informazione che, certo, ha tanti difetti ma che cerca sempre di seguire la “linea ferroviaria”, l'unica che un giornalista che si occupa delle cose estere debba seguire.

E poiché, né noi né voi, vogliamo che i binari finiscano in un tunnel cieco...ecco perché vado sabato a manifestare. Da giornalista e da lettore. Estendo il pragmatico invito anche a voi, quale che sia la vostra professione e anche se avete la fortuna e il piacere di non fare nulla. Un tempo, libero, che si occupa volentieri leggendo il giornale, ascoltando la radio, guardando la tv.

lunedì 14 settembre 2009

TRATTINO BASSO

Con un certo orgoglio ho visto oggi i miei allievi della Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso andare a fare l'esame di fine corso. La scuola della Basso ha una particolarità: è gratuita (almeno sino ad ora) e pretende solo un esame di ammissione che attesti, oltre alla cultura generale, anche la passione per questo (bel) mestiere. Non è che usciti dalla Basso siate giornalisti fatti e finiti, che questo è un lavoro che matura come il vino in botte, ma non sarete da meno dei molti altri che pagano fior di soldi in questo mercato che si è creato attorno alla professione. Una volta non si andava a scuola: facevi il “praticante” in un giornale e poi studiavi per l'esame (assai più duro rispetto a quello della Basso) con il terrore che, nella Commissione, ci fosse un magistrato puntiglioso e ti beccasse scoperto sulle “cause esimenti” in caso di omicidio (come per altro capitò proprio a me....).


Adesso si è sviluppato un mercato che richiede diplomi, stage gratuiti, soldi e sacrifici (delle famiglie) con sbocchi professionali assai incerti. Non che prima fosse per forza meglio: per fare il giornalista occorreva passione e curiosità ma anche un buon aggancio, una spintarella che di solito proveniva da papà o mammà giornalisti. Vedi come tanti cognomi si ripetono nella storia del nostro mestiere (e se vogliamo essere onesti, mio padre e mio nonno erano giornalisti). Comunque, se avei passione, ce la potevi fare anche senza spinte. Ma adesso? A volte nemmeno quelle bastano.

Il futuro è incerto e dense nubi avvolgono la professione totalmente come ben sa chi ha deciso – io son tra quelli – di andare a manifestare sabato 19 (settembre) per la libertà di stampa in Italia, un bene che si va rarefacendo tra pressioni, lobby, licenziamenti, ricatti, minacciose leggi dell'editoria

Ai miei ragazzi, non potendo augurare altro, posso solo dedicare un pensiero: conservate la passione e la curiosità di un mestiere che – per ripetere un trito stereotipo – è sempre meglio che lavorare. Aggiungo io: e chi vi pagherebbe in qualsiasi altro posto per leggere il giornale? Infine non dimenticate la massima che si deve, credo, a Flaiano (tanto per cambiare): primo trasmettere, secondo vedere, terzo scrivere. La bella scrittura, nel giornalismo, vien dopo l'aver visto coi propri occhi, attività al giorno d'oggi sempre più rara. Ma se non potete trasmettere (oggi è più facile ma può mancare la corrente), che ve ne fate dei vostri occhi e del vostro bel pezzo da manuale?

Un abbraccio ragazzi (anzi colleghi) miei. Io amo questo lavoro e penso anche che, oltre che praticarlo, va anche difeso. Da coloro che, ricorrendo o meno alla sospensione della corrente elettrica, vorrebbero che i giornali non uscissero, i blog tacessero, le telecamere fossero girate altrove. E' la stampa bellezza, e pur con tutti i suoi difetti, resta sempre sovrastata dai pregi

giovedì 10 settembre 2009

SE LA CORTE INDAGA

La Corte penale internazionale dell'Aja fa sapere che sta raccogliendo informazioni su possibili crimini di guerra commessi da soldati occidentali, talebani o qaedisti

La bufera sul processo elettorale in Afghanistan non accenna a quietarsi. E mentre infuria la polemica sulla liberazione del giornalista americano del New York Times che ha però lasciato sul terreno un cronista afgano, la Corte penale internazionale avanza l'ipotesi di un'indagine per crimini di guerra che potrebbe interessare sia la Nato sia la guerriglia talebana.
Incalzata dalle polemiche la Commissione mista per i reclami (Ecc), presieduta dal canadese Grant Kippen, ha annullato tutte le schede di 83 seggi (circa 5mila) in tre diverse province (51 a Kandahar, 27 a Ghazni e 5 a Paktika) denunciando “chiare e convincenti prove di frode” sia nei procedimenti di voto sia nello scrutinio per l'elezione del capo dello stato tenutasi lo scorso 20 agosto. Fra le irregolarità: schede mai aperte, voti per un candidato inseriti nell'involucro di un altro, conteggi errati, materiale scomparso e segni che possono identificare i votanti.
Il colpo di reni della Ecc cerca dunque di mettere un po' d'ordine in un processo elettorale dove irregolarità di ogni tipo, complicate dalle difficoltà logistiche e dalla situazione di conflitto, mettono molto in forse la dimensione effettiva della riconferma di Karzai che, con lo spoglio al 91,6% dei seggi, è al 54,1%, dunque fuori rischio ballottaggio, davanti ad Abdullah Abdullah rimasto al 28,3%. La Commissione elettorale, sabato prossimo potrebbe dichiarare i risultati definitivi, salvo forse alcuni riconteggi e tenendo in conto le schede annullate (i voti sono stati pari a 6,5 milioni e attestano ormai la reale affluenza a circa il 33-34% degli aventi diritto). Anche la Ue ne approfitta per fare la voce grossa: “Il processo elettorale – dice Bruxelles in una nota - non sarà completo finché i risultati non saranno stati certificati”. Ma, tra esortazioni e inviti, tutti sono ormai convinti che una certezza vera c'è. E cioè che non si farà il ballottaggio evitando così un nuovo inferno, non solo dagli altissimi costi umani e monetari, ma dalla difficilissima certificazione di trasparenza. Prendere tempo però servirà solo fino a un certo punto. In un'intervista alla Bbc, Abdullah Abdullah ha accusato la Commissione elettorale indipendente di essere “schierata” con Karzai che avrebbe così “rubato” le elezioni. A dati definitivi annunciati, ricucire sarà difficile e complesso così come dissipare il temporale che ha investito il processo elettorale denudando la fragilità delle istituzioni nazionali.

A Kabul continua intanto la polemica sulla morte di Sultan Munadi, il reporter afgano ucciso nel raid della Nato che ha liberato l'inviato del Nyt Stephen Farrell. La principale associazione di giornalisti afgani, Press Club, ha duramente critica la Nato per l'esito del blitz accusando l'Alleanza di aver abbandonato il suo corpo, utilizzando così un doppio standard nella protezione degli ostaggi. Un atto che per i giornalisti afgani è disumano e ingiustificabile.

E su questa ennesima bufera se ne profila un'altra: la possibilità che dell'Afghanistan si occupi anche la Corte penale internazionale dell'Aja. La Cpi sta raccogliendo informazioni su possibili crimini di guerra commessi da soldati occidentali, talebani o qaedisti. Il procuratore della Cpi, Luis Moreno Ocampo, ha spiegato che “la Corte sta analizzando numerose accuse, mosse da diverse fonti, di massacri e torture. Se risultassero fondate, potremmo iniziare un'investigazione ufficiale”. Il magistrato ha voluto chiarire che tutti i crimini di guerra commessi in Afghanistan (paese che riconosce la Cpi) , sia ad opera di cittadini afgani sia di stranieri, rientrano nelle competenze della Corte.

LIBERTA' DI STAMPA A CARO PREZZO

L'inviato del Nyt rapito in Afghanistan qualche giorno fa è uscito indenne dal raid con cui è stato liberato. Ma altre quattro persone, tra cui tre afgani, sono morte. Tra questi il collega trentraquattrenne Sultan Munadi

E' durato poco il sequestro del giornalista del New York Times Stephen Farrell, il secondo inviato del Nyt rapito in Afghanistan nel giro di un anno. Ma se Farrell è uscito indenne dal raid con cui è stato liberato, altre quattro persone, tra cui tre afgani, sono morte. L'operativo, cui hanno partecipato diversi soldati della Nato ha infatti lasciato sul terreno il collega del reporter, Sultan Munadi (nella foto) che gli faceva da interprete, due civili e un militare britannico. Farrell e Munadi erano stati rapiti sabato a Kunduz, la località in cui diversi giorni fa un raid aereo della Nato ha ucciso diverse decine di civili che stavano approvvigionandosi di gasolio da due cisterne rubate alla Nato dai talebani. I due stavano lavorando a un'inchiesta sulla strage quando sono stati rapiti da un gruppo di guerriglieri in turbante.

Farrell (che era già stato rapito nel 2004 in Irak quando stava lavorando per il Times di Londra) ha raccontato di aver sentito arrivare gli elicotteri e visto poi scappare i suoi carcerieri. Ma, nella sarabanda di voci e proiettili (era notte), non sa dire chi abbia ucciso il suo interprete. Dice di essere corso fuori dal luogo in cui era nascosto con Munadi gridando “ostaggio britannico” ma ha poi visto il cadavere del 34enne collega afgano per terra. Morto. Lascia due figli.

Sultan Munadi aveva a sua volta gridato “giornalisti” ma i proiettili non hanno colto la differenza. Una differenza che invece salta agli occhi degli afgani: il responsabile dell'Associazione indipendente dei giornalisti dell'Afghanistan, Rahimullah Samandar, ha detto infatti alla Bbc che le modalità del raid dimostrano come i soldati della coalizione internazionale non tengano in alcun conto la vita dei reporter afgani. E ricorda come non sia la prima volta che questo accade. Il riferimento è senz'altro alla vicenda che vide coinvolto il nostro Daniele Mastrogiacomo due anni fa. Il cronista di Repubblica venne liberato ma i talebani, che già avevano ucciso il suo autista al momento del rapimento, decapitarono il suo traduttore, Ajmal Naqshbandi che, nel momento della liberazione di Mastrogiacomo, venne trattenuto dai guerriglieri. I sequestratori avrebbero ricordato l'episodio proprio a Munadi per terrorizzarlo. L'incidente creò una forte indignazione tra i giornalisti afgani. Un caso che si ripete oggi. Il ministero dell'Informazione di Kabul ha promosso un'inchiesta sulla vicenda.

Quanto ai civili uccisi sarebbero due, secondo il governatore locale, ma anche in questo caso non è chiaro come siano morti. Un residente del distretto di Char Dara, Mohammad Nabi, ha spiegato che il raid è avvenuto in casa sua e ha raccontato alla Reuters che i rapitori avevano scelto la sua abitazione per nascondersi durante la notte: dopo l'arrivo degli elicotteri Nabi ha sentito sparare contro le pareti di casa e subito dopo i soldati ne hanno spalancato la porta sparando, “uccidendo mia cognata e portandosi via il reporter”, un racconto che non sembra coincidere esattamente con quello di Farrel.

Munadi aveva studiato in Germania ma aveva deciso di fare ritorno in Afghanistan. Voleva rivedere il suo paese e aveva scritto un articolo pubblicato sul Nyt in cui diceva che avrebbe preferito raccogliere spazzatura per le strade di Kabul piuttosto che fare, ad esempio, il cameriere in Germania. Se tutti se ne vanno, aveva scritto, è come lasciare il paese in mano ai talebani. Il raid è stato affidato a soldati britannici forse per via della nazionalità di Farrel (britannico-irlandese). Il primo ministro Gordon Brown in persona avrebbe dato luce verde.

martedì 8 settembre 2009

LIBERO MA IN FUGA

Pervez Kambaksh, il giornalista condannato a morte e poi a vent'anni di prigione per aver scaricato dal web materiale sulla condizione femminile, è stato perdonato da Karzai e fatto uscire dall'Afghanistan. Ne ha dato notizia l'Independent, il quotidiano progressista britannico che aveva raccolto per la sua liberazione 100mila firme.

Vittoria sull'oscurantismo? Sui tribunali religiosi che valutano la libertà di stampa sulla congruità della (loro) interpretazione del Corano? Non esattamente. Il giornalista sarebbe stato “perdonato” segretamente dal presidente, che ha diritto di grazia, e fatto segretamente uscire dal carcere qualche giorno fa. Altrettanto segretamente ha lasciato il paese. Salvando capra e cavoli. E non è nemmeno una storia conclusa: Pervez ha famiglia e numerosi fratelli. Che hanno dovuto lasciare la propria casa per sfuggire a minacce e ritorsioni. Potrà rivederli? Certo, se qualcuno li aiuterà a fuggire all'estero. Segretamente.
Era il gennaio del 2008. Maledettamente freddo a Kabul e ancora di più a Balq dove viveva Pervez (Parwiz), professione reporter. Condannato a morte per blasfemia da un tribunale di Mazar-i Sharif per aver scaricato dalla rete documentazione in persiano sulla condizione femminile, gli viene comminata la pena capitale. Si mobilita subito la stampa internazionale ma si danno da fare soprattutto migliaia di afgani cui questa storia non va giù. Immediatamente emergono due aspetti: il primo è che il processo può essere spostato a Kabul e, dunque, la possibilità che una nuova corte lo giudichi fa ben sperare. Anche perché il caso imbarazza il presidente e lo stesso ministro di Giustizia.

Il secondo è che Kambaksh non era uno stinco di santo. Scriveva sulla stampa locale (ma anche su quella internazionale) ciò che pensava: e ciò che pensava non era solo che si dovesse/potesse parlare della condizione femminile, quanto che andassero denunciate le storture del suo paese. Aveva nemici Pervez: i soliti noti. Signorotti della guerra locali con le mani in pasta nei traffici che un conflitto offre a chi ha già un po' di potere. L'operazione della sua condanna diventa dunque molto più laica di quanto non sembri.
Proprio qualche mese prima della sua vicenda siamo a Pul-i-Khumri, una città commerciale della provincia di Baghlan, poco distante di Balq dove siamo appena passati qualche giorno prima. Incontriamo i giornalisti del posto di piccole emittenti e quotidiani locali, che lavorano in mircostudi dove, con consolle d'antan, mandano in onda programmi radio. Hanno paura, ci mettono in guardia. Il pericolo non sono solo i talebani. Il pericolo, per la stampa indipendente sono le pressioni dei signorotti locali, a volte alleati con la guerriglia ma molto più spesso col governo. Una mafia. Si discute in quei mesi della nuova legge sulla stampa. C'è aria di bavaglio. E dove non arriva il bavaglio, per molti c'è la pistola, le botte, minacce, intimidazioni. Questo è il clima. Pungente come quel dannato inverno...

Nel febbraio 2008 per Pervez si apre uno spiraglio. Una nota del senato afgano sfiducia le dichiarazioni del suo presidente, Sibghatullah Mojaddedi, che qualche giorno prima aveva dato il suo sostegno alla condanna a morte del giovane di Balq. Ma le speranze,anche se dure a morire, si infrangono sulle torture che Pervez deve sopportare per ammettere un reato che non ha commesso: aver interrotto le lezioni all'università per discutere della questione di genere. Ma Kambaksh è anche un osso duro e al processo d'appello, a Kabul nel maggio di un anno, fa lo racconta. La pena capitale viene commutata in vent'anni di carcere. Il resto è storia di oggi.

Lieto fine? Si certo, almeno per Pervez. Ma, anche se meno noto di Rushdie o Saviano, la sua vita è intanto quella di un uomo che rischia di essere ucciso. Poi c'è la sua famiglia che lo stesso rischio sta correndo. Suo fratello, ad esempio, un ragazzo che è venuto a testimoniare con grande coraggio la vicenda di Pervez anche nel nostro paese. Fine amaro dunque, in un paese dove convivono forze opposte, dove il caso Kambaksh non è certo l'unico e dove il parlamento ha passato una legge di amnistia che lava i peccati dei signori della guerra. Ancora attivi.

anche su il riformista

lunedì 7 settembre 2009

NUMERI


L'agenzia afgana Pajhwok riporta oggi che il raid aereo del 4 settembre nel distretto di Charadra (Kunduz) sarebbero tra 60 e 70 stando a quanto sostiene Afghanistan Rights Monitor (ARM) ma, secondo quanto ripostato nei giorni scorsi sempre da Pajhwok, potrebbero essere 150 i civili uccisi nel bombardamento. Dal canto suo, Abdul Wahid Omarkhel, governatore del distretto settentrionale di Chardarah citato dall'agenzia Aki, oggi ha rivelato che sarebbero 130 le vittime del raid Nato nella provincia di Kunduz, secondo le informazioni in suo possesso Testimoni hanno raccontato all'agenzia Pajhwok che sul luogo dell'attacco, a Haji Aman, non si trovavano talebani, dileguatisi dopo aver dato via libera alla folla per prelevare la benzina dalle autobotti dell'Isaf che avevano precedentemente rubato. Per Javier Solana, capo delle diplomazia Ue, è un “episodio terribile”. Il segretario generale della Nato Andres Rasmussen promette “piena luce”. Il ministro britannico David Miliband sollecita un'inchiesta rapida che l'Isaf dice già in corso. Ma né le parole di Solana né quelle di Rasmussen o di Miliband consolano o rassicurano. La ricostruzione è come sempre difficile e a poco servono le veline ufficiali, al solito fuorvianti e scarne. Il presidente Karzai è lapidario: “Colpire i civili, in qualsiasi modo, è inaccettabile”.
Domani il cancelliere Angela Merkel riferirà in parlamento. Al momento la Germania difende la sua richiesta di interento dall'aria

sabato 5 settembre 2009

LETTE SUI GIORNALI

Tratto da Asia Maior Dossier Afghanistan


Martedi 2 settembre un kamikaze si è fatto saltare in aria all'interno di una moschea durante un incontro in cui si parlava, tra l'altro, proprio del tema della sicurezza. Vi prendevano parte numerosi amministratori locali e il numero due deiservizi segreti afghani, Abdullah Laghmani. Proprio quest'ultimo, considerato molto vicino al presidente uscente Hamid Karzai, era forse l'obiettivo assieme al presidente del consiglio provinciale di Laghman, Imad Bin Abdel Hamid Zai. L'attacco è stato rivendicato dai talebani

La notizia è solo uno dei tanti elementi di turbativa del difficile processo elettorale afgano e il fatto che sia avvenuto in una moschea è forse un ulteriore elemento di riflessione sulla trasformazione della guerriglia afgana: non è un caso se il rapporto dell'Onusulla produzione d'oppio diffuso all'inizio di settembre (in calo anche nelle aree conflittuali ma con un'evidente nascita di narco cartelli) spiega che il commercio e il controllo del mercato delle droghe sta cambiando connotazione: sembra servirsi sempre di più di bande poco ideologizzate e che, pur essendo contigue ai talebani, stanno trasformandosi in una classica mafia del narcotraffico che inevitabilmente ha poi riflessi sul movimento guerrigliero che usa l'oppio per finanziarsi.

Prosegue intanto il sofferto spoglio con annesse polemiche. In proposito, il New York Times ha tirato al presidente uscente una bordata senza precedenti: a poco più di una settimana dalle elezioni presidenziali in Afghanistan, alcuni leader della tribù Bariz – scrive il quotidiano - hanno denunciato brogli elettorali, per un totale 23.900 voti, commessi dall'entourage di Karzai nel distretto meridionale di Shrorabak. Sigillando i 45 seggi del distretto e contraffacendo le schede. I Bariz se ne sono accorti perché avevano fatto un patto con Abdullah che lo spoglio ha dimostrato vano. Ma anche Abdullah non è esente da critiche: la tv afgana Ariana lo ha da poco documentato

Altre notizie arrivano intanto dagli Stati Uniti dove è appena stato presentato il rapporto strategicosull'Afghanistan dal generale McChrystal, comandante in capo sia delle forze Usa sia di quelle Nato nel paese, in seguito spalleggiato da un discorso di appoggio di Robert Gates.
Nel rapporto il generale non ha chiesto più truppe anche se tutti dicono che la richiesta prima o poi sarà avanzata benché il presidente sia contrario. E il Los Angeles Times ha scritto di un piano per salvare capra e cavoli: Washington è pronta ad inviare altre forze di combattimento in Afghanistan e sino a 14mila uomini. Ma solo «trigger-pullers», ossia combattenti effettivi. Con una sorta di gioco delle tre carte, richiamerebbe in patria unità di supporto logistiche in modo che, dice il giornale della città degli angeli, si aumenterebbe la capacità bellica del contingente lasciando invariato il numero totale dei soldati nel teatro. Barack Obama riuscirebbe così ad evitare la decisione di un ulteriore aumento delle truppe, arrivate a un totale di 68mila unità dopo che il presidente aveva dato luce verde all'invio di 21mila nuovi militari.


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venerdì 4 settembre 2009

L'EX MAOISTA CHE VOLLE FARSI RE


Mister Clean Bashardost: Voto “nazionale” per il fuoriclasse senza partito e senza amicizie pericolose


Chi sta vincendo le elezioni? Non c'è dubbio: Bashardost”. Benché le percentuali di Ramazan Bashardost oscillino tra l'11 e il 13%, il dottor Mohamed, un professionista fuggito in Europa quando i mujaheddin arrivarono a Kabul negli anni Novanta ma che da un po' di anni ha fatto ritorno in Afghanistan, ha probabilmente ragione.
Ramazan Bashardost, uno dei quattro Grandi Candidati delle elezioni presidenziali di agosto, anche se è lontano dalla vittoria dei numeri, è già il vincitore morale di questa controversa consultazione. Sul suo nome, come su quello di Asharf Ghani, non c'è l'ombra grigia dei brogli e delle frodi elettorali, non ci sono accuse di voti comprati o di scandali più o meno nascosti come nel caso di Karzai o di Abdullah. Ma Ghani, beniamino di Washington, buone amicizie nei posti che contano - dal Palazzo di Vetro alla Banca mondiale - si è fermato a meno del 3%, oltre due punti sotto a quanto i sondaggi gli avevano attribuito. Bashardost invece, che era dato al 9%, è andato ben oltre. Con una sorpresa.

Se si studia la mappa della consultazione elettorale, Bashardost, un professionista nato nel distretto di Qarabagh nella provincia a maggioranza hazara di Ghazni, non ha fatto il pieno solo nelle roccaforti di questa minoranza etnica che supera il 15% della popolazione. Ha preso voti nelle aree pashtun o tagiche, o tra turcofoni del Nord: tutti in larghissima maggioranza sunniti, il contrario degli hazara che sono gli sciiti d'Afghanistan. Quello per il lui non è un voto etnico o di appartenenza tribale ma “nazionale” che, per una volta, sfata il pernicioso luogo comune che gli afgani rispondono solo al richiamo del sangue e alla casella identitaria in cui siamo soliti cacciarli per decifrane la complessità.
Ma chi è questo outsider senza partito amato per la battaglia alla corruzione, che non si è sporcato le mani (col sangue, le armi, l'oppio) e che non ha amicizie imbarazzanti? Chi è questo gentiluomo senza corona, e - come nella canzone - senza scorta, che ha fatto una campagna elettorale con pochi soldi affidandosi a un gazebo impiantato nel cuore della capitale dove chiunque poteva avvicinarlo e parlargli?
La sua biografia racconta di un esilio iniziato nel 1978 dopo il golpe che porterà l'Urss, l'anno dopo, all'invasione. Ma chi volesse ascriverlo tra gli anti comunisti viscerali sbaglierebbe. E' stato un simpatizzante maoista, come per altro moltissimi hazara, quando il movimento comunista afgano era cresciuto fino a diventare una forza importante e divisa, come allora ovunque, tra filosovietici e filocinesi (i maoisti piacevano così poco agli ortodossi del Partito, che si allearono con Shah Massud, il conquistatore di Kabul, islamista raffinato ma che certo non amava i comunisti, al punto che poi regolò i conti con gli haza-mao prima della presa della capitale).

In quegli anni però Ramazan era adolescente. E all'estero. Figlio di funzionari pubblici, ha di che finire gli studi liceali e universitari in Iran per poi emigrare in Pakistan. Da lì va in Francia dove termina negli anni Novanta università, master e Ph.D. La sua tesi ha come argomento il ruolo dell'Onu durante l'invasione sovietica. Ma anche quell'epoca è agli sgoccioli: arrivano i mujaheddin, i talebani, infine l'invasione del 2001 che li scaccia dal potere. Nel 2002 Bashardost torna a Kabul. Ha 37 anni.
Prima inizia con un incarico al ministero degli esteri, poi viene chiamato da Karzai nel 2004 a dirigere il ministero per la Pianificazione. Ma nel 2005 l'idillio è già finito. Ramazan dichiara guerra a 2mila organizzazioni “caritatevoli”, sia afgane sia internazionali, chiedendo misure draconiane. Ma il governo – compreso l'allora ministro delle Finanze Ashraf Ghani - lo bloccano, costringendolo alle dimissioni. La storia lo rende così popolare che alle successive elezioni parlamentari è il terzo parlamentare più votato. Il suo programma in 50 punti è semplice e onnicomprensivo, con un occhio di riguardo per i contadini. Ma si è anche conquistato la fama, oltre che di Mister Clean, di difensore dei diritti umani. Un elemento che dovrebbe piacere anche a noi.

giovedì 3 settembre 2009

PAPAVER SOMNIFERUM

La produzione di oppio in Afghanistan decresce: presto per parlare di un cambiamento significativo. Ma intanto si registra quello di Unodc, l'agenzia Onu che ha diffuso ieri il suo dossier sulle droghe nel paese in guerra. Riconoscendo errori e proponendo un principio: il problema non è sradicare l'oppio ma la povertà


La produzione di oppio in Afghanistan cala. E' questa la notizia contenuta nel dossier annuale sull'Afghanistan dell'organizzazione dell'Onu per la lotta contro la droga e il crimine, diretta dall'italiano Antonio Maria Costa. Ma in realtà la notizia vera è un'altra. L'Unodc, sino a ieri un produttore contabile di numeri, inizia a pensare in termini strategici. A porsi qualche domanda e a proporre soluzioni, addirittura criticando i Prt, le istituzioni militari con le quali gli eserciti pretendono di creare condizioni di sviluppo.
Qualcosa è successo. Forse il vento di Obama scuote anche Vienna. Così che, per la prima volta, il dossier dell'Onu diventa qualcosa di più che un manuale per ragionieri e bibliotecari degli indici di produzione dell'oppio. E' c'è anche una scoperta, pur se un po' tardiva: il mercato dell'oppio afgano si va “colombianizzando” e nascono i primi narco-cartelli, in cui la commistione tra crimine, denaro e ideologia si fonde in una miscela dove – inutile dirlo – esce vittorioso il denaro. Ma andiamo con ordine. Cominciando, come si deve, dai numeri.

Nel 2009 la coltivazione del papavero è diminuita di circa 34mila ettari, ossia del del 22%: da 157mila l'anno precedente ai 123 attuali. E nella sola provincia di Helmand, l'area di grande produzione dove la guerra aiuta il mercato illegale, il decremento è stato di un terzo portando la zona coltivata a meno di 70mila ettari (il che fa comunque quasi la metà dell'intera produzione-paese). C'è molto da fare ma l'offensiva antinarcos, dice il rapporto, sta in parte funzionando, aiutata dalle condizione del mercato (che favoriscono la semina di altre derrate) e dagli incentivi per sostituire le coltivazioni, un elemento che però, ammette Unodc, resta marginale. Anche le province poppy-free, ossia esenti da coltivazioni illegali, sono aumentate (passando da 18 a 20), in quattro l'oppio resta marginale (Kabul 132 ha, Kunar 164, Laghman 135, Nangarhar 294) e in altre tre (Badakhshan, Herat, Nimroz) lo status di poppy-free dovrebbe essere raggiunto nel 2010. Infine la produzione potrebbe considerarsi ulteriormente diminuita poiché è aumentata la resa per ettaro, in alcune zone arrivata a 56 kg (49 era stato il massimo l'anno scorso) il che fa, tra l'altro, oltre cinque volte tanto quanto si produce nel “Triangolo d'oro” birmano (10kg/ettaro). La produzione totale è dunque stata di 6.900 tonnellate (10% in meno rispetto all'anno prima nonostante un calo produttivo del 22%). Infine, 800mila contadini avrebbero lasciato la coltivazione dell'oppio.
Un'ultima scorsa ai numeri la meritano i prezzi: da 70 dollari al chilo, l'oppio fresco, cioè dal produttore, è sceso a 48 mentre la varietà stagionata è passata da 95 a 64. Prezzi bassissimi anche per un eccesso di produzione che vede i magazzini criminali strapieni: se la domanda annuale di oppiacei non supera le 5mila tonnellate l'anno, dice Unodc, ce ne sono almeno 10mila già stoccate. Interessante anche per il mercato locale, in espansione dice con preoccupazione Unodc (in Afghanistan ci sono 200mila tossicomani, ma sono dati vecchi).


La parte interessante del dossier riguarda il narcotraffico: la nascita di narcocartelli che riecheggiano la Colombia, dove la commistione tra ideologia e droga finisce a produrre un nuovo tipo di criminalità in cui si mescolano, su un fragile confine, le due componenti. Un'analisi che resta da approfondire ma di cui Unodc dà conto facendo anche capire quanto il labile confine possa persino danneggiare la guerriglia, che prima taglieggiava e imponeva decime ma che adesso sceglie il narcotraffico vero e proprio. Col rischio di perdere la purezza ideologica a favore del più seducente richiamo del denaro facile.
Sul da farsi è ancora nebbia ma qualche spunto arriva. Non tanto dalle operazioni di sequestro di oppio ed eroina (che incidono per una “frazione” del mercato illegale) quanto da un cambio di strategia. Unodc ammette che quella delle eradicazioni (bruciare o fumigare i campi) non funziona e aggiunge che quella da sradicare, non è tanto la pianta del papavero quanto “la povertà”. Ma le condizioni di sviluppo devono essere reali, non forme di “corruzione” dei contadini (soldi per cambiare idea) ma una combinazione di fattori. E non basata, dice Unodc dando una stoccata alle politiche militari di conquista di “cuori e menti”, con piccoli progetti attorno ai Prt che servono in realtà soprattutto per difendere i soldati stessi.
L'impunità resta uno dei fattori chiave. “Il target – scrive Costa nella sua nota introduttiva – non devono essere i contadini poveri ma i criminali ricchi”, quelli – aggiungeremo noi – che oltre alle armi detengono la terra, un problema che Unodc però non tocca e che soltanto Ashraf Ghani nel suo programma elettorale ha messo in luce, nel marasma di un paese senza catasto né archivi dove il titolo di proprietà è, quando va bene, un pezzo di carta scritto a mano o un diritto più spesso guadagnato a colpi di kalashnikov durante gli anni, ormai trenta, della guerra infinita.



Ma troppo non si può chiedere a Unodc visto che la responsabilità sui programmi di sviluppo, sul problema del diritto e della giustizia, dell'impunità o delle regole non le compete. Con coscienza la presentazione del rapporto conclude che “controllare le droghe in Afghanistan non può risolvere tutti i problemi del paese ma i problemi del paese non potranno essere risolti senza il controllo delle droghe”. Un buon inizio.

PAPAVER SOMNIFERUM

La produzione di oppio in Afghanistan decresce: presto per parlare di un cambiamento significativo. Ma intanto si registra quello di Unodc, l'agenzia Onu che ha diffuso ieri il suo dossier sulle droghe nel paese in guerra. Riconoscendo errori e proponendo un principio: il problema non è sradicare l'oppio ma la povertà


La produzione di oppio in Afghanistan cala. E' questa la notizia contenuta nel dossier annuale sull'Afghanistan dell'organizzazione dell'Onu per la lotta contro la droga e il crimine, diretta dall'italiano Antonio Maria Costa. Ma in realtà la notizia vera è un'altra. L'Unodc, sino a ieri un produttore contabile di numeri, inizia a pensare in termini strategici. A porsi qualche domanda e a proporre soluzioni, addirittura criticando i Prt, le istituzioni militari con le quali gli eserciti pretendono di creare condizioni di sviluppo.
Qualcosa è successo. Forse il vento di Obama scuote anche Vienna. Così che, per la prima volta, il dossier dell'Onu diventa qualcosa di più che un manuale per ragionieri e bibliotecari degli indici di produzione dell'oppio. E' c'è anche una scoperta, pur se un po' tardiva: il mercato dell'oppio afgano si va “colombianizzando” e nascono i primi narco-cartelli, in cui la commistione tra crimine, denaro e ideologia si fonde in una miscela dove – inutile dirlo – esce vittorioso il denaro. Ma andiamo con ordine. Cominciando, come si deve, dai numeri.

Nel 2009 la coltivazione del papavero è diminuita di circa 34mila ettari, ossia del del 22%: da 157mila l'anno precedente ai 123 attuali. E nella sola provincia di Helmand, l'area di grande produzione dove la guerra aiuta il mercato illegale, il decremento è stato di un terzo portando la zona coltivata a meno di 70mila ettari (il che fa comunque quasi la metà dell'intera produzione-paese). C'è molto da fare ma l'offensiva antinarcos, dice il rapporto, sta in parte funzionando, aiutata dalle condizione del mercato (che favoriscono la semina di altre derrate) e dagli incentivi per sostituire le coltivazioni, un elemento che però, ammette Unodc, resta marginale. Anche le province poppy-free, ossia esenti da coltivazioni illegali, sono aumentate (passando da 18 a 20), in quattro l'oppio resta marginale (Kabul 132 ha, Kunar 164, Laghman 135, Nangarhar 294) e in altre tre (Badakhshan, Herat, Nimroz) lo status di poppy-free dovrebbe essere raggiunto nel 2010. Infine la produzione potrebbe considerarsi ulteriormente diminuita poiché è aumentata la resa per ettaro, in alcune zone arrivata a 56 kg (49 era stato il massimo l'anno scorso) il che fa, tra l'altro, oltre cinque volte tanto quanto si produce nel “Triangolo d'oro” birmano (10kg/ettaro). La produzione totale è dunque stata di 6.900 tonnellate (10% in meno rispetto all'anno prima nonostante un calo produttivo del 22%). Infine, 800mila contadini avrebbero lasciato la coltivazione dell'oppio.
Un'ultima scorsa ai numeri la meritano i prezzi: da 70 dollari al chilo, l'oppio fresco, cioè dal produttore, è sceso a 48 mentre la varietà stagionata è passata da 95 a 64. Prezzi bassissimi anche per un eccesso di produzione che vede i magazzini criminali strapieni: se la domanda annuale di oppiacei non supera le 5mila tonnellate l'anno, dice Unodc, ce ne sono almeno 10mila già stoccate. Interessante anche per il mercato locale, in espansione dice con preoccupazione Unodc (in Afghanistan ci sono 200mila tossicomani, ma sono dati vecchi).


La parte interessante del dossier riguarda il narcotraffico: la nascita di narcocartelli che riecheggiano la Colombia, dove la commistione tra ideologia e droga finisce a produrre un nuovo tipo di criminalità in cui si mescolano, su un fragile confine, le due componenti. Un'analisi che resta da approfondire ma di cui Unodc dà conto facendo anche capire quanto il labile confine possa persino danneggiare la guerriglia, che prima taglieggiava e imponeva decime ma che adesso sceglie il narcotraffico vero e proprio. Col rischio di perdere la purezza ideologica a favore del più seducente richiamo del denaro facile.
Sul da farsi è ancora nebbia ma qualche spunto arriva. Non tanto dalle operazioni di sequestro di oppio ed eroina (che incidono per una “frazione” del mercato illegale) quanto da un cambio di strategia. Unodc ammette che quella delle eradicazioni (bruciare o fumigare i campi) non funziona e aggiunge che quella da sradicare, non è tanto la pianta del papavero quanto “la povertà”. Ma le condizioni di sviluppo devono essere reali, non forme di “corruzione” dei contadini (soldi per cambiare idea) ma una combinazione di fattori. E non basata, dice Unodc dando una stoccata alle politiche militari di conquista di “cuori e menti”, con piccoli progetti attorno ai Prt che servono in realtà soprattutto per difendere i soldati stessi.
L'impunità resta uno dei fattori chiave. “Il target – scrive Costa nella sua nota introduttiva – non devono essere i contadini poveri ma i criminali ricchi”, quelli – aggiungeremo noi – che oltre alle armi detengono la terra, un problema che Unodc però non tocca e che soltanto Ashraf Ghani nel suo programma elettorale ha messo in luce, nel marasma di un paese senza catasto né archivi dove il titolo di proprietà è, quando va bene, un pezzo di carta scritto a mano o un diritto più spesso guadagnato a colpi di kalashnikov durante gli anni, ormai trenta, della guerra infinita.



Ma troppo non si può chiedere a Unodc visto che la responsabilità sui programmi di sviluppo, sul problema del diritto e della giustizia, dell'impunità o delle regole non le compete. Con coscienza la presentazione del rapporto conclude che “controllare le droghe in Afghanistan non può risolvere tutti i problemi del paese ma i problemi del paese non potranno essere risolti senza il controllo delle droghe”. Un buon inizio.

martedì 1 settembre 2009

AFGHANISTAN: LA NUOVA STRATEGIA USA


Mentre lo scrutinio delle presidenziali, arrivato ormai a quasi la metà dei seggi, vede aumentare sempre di più la distanza tra Hamid Karzai (45,8%) e Abdullah (33,2%) e mentre continuano ad arrivare notizie di brogli e racconti raccapriccianti di vendette elettorali talebane addirittura preventive, gli americani mettono un primo punto fermo sulla nuova strategia per l'Afghanistan.
Il rapporto del generale Stanley McChrystal, comandante in capo delle forze Usa in Afghanistan ma anche responsabile della missione Isaf/Nato avrebbe dovuto arrivare sul tavolo del presidente diverse settimane fa, ma l'ufficiale ha preferito aspettare il dopo elezioni: il documento non è pubblico ma diverse testate ne anticipano i contenuti. Scegliendo tagli diversi.

La Bbc preferisce il più critico: “la strategia attuale non funziona”, titola l'emittente sulla sua pagine web e spiega che il generale reiteri il fatto che la priorità è proteggere gli afgani dai talebani, opzione sinora poco seguita. Come? Lavorando sulla crisi di consenso che viene da una diminuzione della fiducia degli afgani in una guerra che aveva promesso loro una vita migliore e creando dunque condizioni favorevoli nei villaggi ripresi alla guerriglia che andranno adesso “tenuti” e non meramente riconquistati. Poi si deve lavorare sull'esercito nazionale (ma ci vorranno almeno tre anni e assai più tempo per la polizia) e sui talebani: sei su dieci, dice il generale, sono recuperabili offrendo loro un posto di lavoro.

Il taglio del New York Times sceglie invece un altro titolo: “La guerra in Afghanistan è seria ma si può vincere”. Il giornale dice che nel rapporto la richiesta di più truppe per ora non c'è ma che questa potrebbe arrivare nelle prossime settimane. Un documento insomma, che prepara il terreno a una richiesta che al presidente non sembra piacere molto. Andrà convinto. Per ora il quadro deve permettergli di decidere ma le scorse settimane hanno già visto un'offensiva dei piani alti del Pentagono, a cominciare dal capo di stato maggiore Mullen, secondo il quale a talebani più agguerriti si risponde con più soldati. L'argomento è delicato è il Nyt sottolinea che agosto ha totalizzato 179 vittime americane dall'inizio dell'anno (mentre la Bbc ricorda la scarsa popolarità della guerra tra l'opinione pubblica statunitense, sempre più fredda)...
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