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mercoledì 25 giugno 2014

Se la palla passa a Karzai

Dalla crisi innescata da Abdullah Abdullah sembra intanto aver tratto profitto il capo dello Stato uscente, Hamid Karzai. Accusato dal candidato in odore di sconfitta di non essere stato neutrale, il presidente afgano inizialmente non ha reagito, se si esclude una nota di palazzo che ne riaffermava il ruolo super partes. Poi ha avuto parole morbide verso entrambi i rivali, definiti personalità che meritano rispetto. Infine domenica scorsa, in un incontro col Consiglio degli Ulema, ha derubricato lo scontro tra candidati a pura dialettica elettorale. Nessuna scomunica insomma e un comportamento da vero arbitro della nazione. Quanto alle dimissioni di Amarkhil, Karzai le ha accettate di buon grado definendole un «atto responsabile» in grado di «normalizzare» la situazione. Dalle parole poi è passato ai fatti e lunedi ha messo insieme una “delegazione speciale” incaricata di trovare ogni possibile via d'uscita.

La notizia l'ha data il Procuratore generale Ishaq Aloko che si è augurato di non dover ricevere nessuna comunicazione che attivi i suoi uffici e che anzi proprio la delegazione, sulla cui formazione ancora non si sa molto, potrebbe essere la chiave per evitare di tirare in ballo anche la magistratura. Con l'ultima mossa Karzai ha così riaffermato nei fatti la sua imparzialità, accolto con saggezza alcune delle richieste di Abdullah e si è ritagliato addosso l'abito del salvatore della patria neutrale, proprio in un momento in cui gode di un consenso minimo. Karzai peraltro sa che nessuno, oltre ad Abdullah, vuole fermare il processo elettorale a cominciare dagli Stati uniti per finire con l'Onu passando per la Ue. Il suo fallimento sarebbe infatti anche il loro.

Non di meno c'è chi sospetta – pochi - che tutto quanto accada sia addirittura una strategia di Karzai per rimanere in sella, a capo di un governo ad interim che indìca nuove elezioni se queste dovessero rivelarsi illegittime. E che lo siano sono in molti invece a pensarlo: «La cattiva notizia – dice un intellettuale locale – è che nessuno dei due candidati è a posto e se non si torna al voto la comunità internazionale e gli afgani avranno a che fare con un presidente eletto con la frode attraverso una commissione che la frode l'ha addirittura organizzata».

sabato 21 giugno 2014

La crisi afgana e il ritorno di Karzai

L'avventura di Abdullah Abdullah - un "dramma afgano", come l'ha definita un diplomatico occidentale - sembra per ora aver prodotto, al di là di qualche manifestazione di protesta nella capitale dai numeri poco consistenti, un solo effetto: il ritorno in scena a tutti gli effetti di Hamid Karzai. Accusato dal candidato in odore di sconfitta di non essere stato neutrale, il presidente afgano inizialmente non ha reagito, se si esclude una nota di palazzo che ne riaffermava l'imparzialità. Poi ieri, anziché attaccare Abdullah per le accuse e diffidarlo per la sua sconfessione del processo elettorale, ha detto di ritenere lui e Ashraf Ghani due personalità che meritano ogni rispetto. E' andato più in là: ha accolto la proposta di Abdullah di tirare in mezzo l'Onu come arbitro super partes. E le Nazioni Unite  rispondono che si, la cosa si può valutare.

mercoledì 19 marzo 2014

Tocca a Yunus Qanuni

Yunus Qanuni (Qanooni) formava, col maresciallo Fahim e il dottor Abdullah Abdullah, il triumvirato dell'Alleanza del Nord quando - già morto Massud- si trattò di cacciare i talebani. Adesso Fahim è morto e Abdullah corre per le presidenziali. Gli altri alleati dell'epoca, il generale Dostum e il ras di Herat Ismail Khan, un po' sono caduti in disgrazia un po' - è il  caso del leader di lingua uzbeca - si son messi in corsa per lo scranno da capo dello Stato. Restava dunque solo Qanuni per ricoprire il posto di Fahim, deceduto settimana scorsa per un attacco di cuore. Indicato da Karzai come nuovo vicepresidente  (ora spetta al parlamento dire si), Qanuni fu il grande negoziatore della pre fase di Bonn, che si svolse a Roma prima della conferenza (che avrebbe dovuto anche quella svolgersi a Roma ma che i tedeschi si accaparrarono) con la quale nell'ormai ex capitale tedesca di santificò la nascita del nuovo Afghanistan. Oltre 13 anni fa.

venerdì 17 gennaio 2014

IL RAID "ECCEZIONALE" E LA NEBULOSA COLLATERALE


Il distretto di Siahgird si trova a un centinaio di chilometri da Kabul e a una settantina dalla base americana di Bagram. Il fiume, le montagne, villaggi e villaggetti che affacciano sulla strada principale fiancheggiata dal corso d'acqua o su pendi scoscesi e spesso malamente asfaltati come in mille altri villaggi afgani. Siahgird (o Siah Gerd) non è però un luogo così sperduto in qualche gola o deserto ed è così vicino alla capitale, che, con un po' di immaginazione, potresti udire il rombo degli aerei che lo sorvolano. E che tra martedi e mercoledi hanno fatto terra bruciata in una vasta area del distretto. Il bilancio provvisorio conta già una ventina di cadaveri. Guerriglieri? Si alcuni; oltre una decina secondo quanto risulta al governo afgano, cinque secondo i talebani. Sul terreno sono rimasti anche un soldato di Isaf, un militare afgano e, naturalmente, dei civili. Si era detto di sei persone inizialmente ma poi il bilancio è salito a una donna e sette ragazzi. L'età non è nota. I nomi nemmeno. Nebulosa da effetti collaterali.

mercoledì 9 ottobre 2013

PRESIDENZIALI AFGANE, SI AFFILANO LE ARMI


Se in Afghanistan non si è ancora conclusa la guerra con i talebani, di conflitto ne è appena iniziato un altro: quello che da l'altro ieri, quando la lista dei 27 candidati alla presidenza è stata resa pubblica, è ufficialmente scoppiato per garantirsi la poltrona più importante del Paese. Hamid Karzai, presidente tre volte e che non può correre, ha davanti sei mesi per fare in modo che il “suo” candidato venga eletto. E sul come che ci si interroga. In ballo, prima di aprile, ci sono parecchi dossier: entro questi sei mesi sarà necessario infatti anche definire il quadro del ritiro delle truppe Nato (non proprio tutte) entro il 2014 e soprattutto i rapporti con gli alleati dopo quella data.

Proprio la Nato è stata uno dei punti toccati in un'intervista rilasciata da Karzai alla Bbc in cui il presidente ci è andato pesante. “Sul fronte della sicurezza l'intero esercizio della Nato è stato connotato dall'aver causato all'Afghanistan un sacco di sofferenza, un mucchio di perdite di vite umane e nessun guadagno perché il Paese non è sicuro”. La Nato, per il presidente afgano in uscita, ha sbagliato tattica e strategia, concentrandosi sui villaggi afgani anziché sui santuari della guerriglia in Pakistan. Non male come arrivederci o addio all'Alleanza atlantica. Per ora sembra la Nato far da parafulmine. La situazione è delicata e in ballo c'è ancora l'accordo di sicurezza bilaterale (Bsa) con Washington, che deve definire ruolo e permanenza dei soldati americani (ancora 68mila) e il destino delle basi. Marie Harf, vice portavoce del Dipartimento di Stato Usa, ha detto lunedi che le cose stanno marciando e anche a Kabul si dicono certi che tutto andrà bene, ma l'argomento resta molto delicato, specie in campagna elettorale. Tra l'altro il Bsa dovrebbe essere ratificato da una Loya Jirga (grande assemblea). E' uno dei grossi temi assieme al rapporto con i talebani. Alla Bbc Karzai ha detto che “sono afgani...possono lavorare nel governo...sono i benvenuti...ma perché ciò avvenga devono partecipare alle elezioni”. Un vecchio mantra.

Elezioni. Il tema è bollente e non solo per i talebani. Tanto per cominciare, nonostante Karzai abbia promesso pubblicamente che non ci saranno ingerenze esterne e interne e che i soldi del governo non andranno ad alcun candidato, tra questi c'è suo fratello Qayum, il che fa salire il tasso di sospetto. E come se non bastasse, il governatore della provincia di Balkh, Atta Muhammad Noor, ha detto al canale Tolo che il suo partito - Jamiat-e-islami - ha ricevuto offerte, anche dal presidente, per ottenere sostegno per i suoi favoriti: avrebbero promesso soldi e la carica di primo vice presidente senza far nomi ma con la raccomandazione di una rosa: da Ashraf Ghani a Zalmai Rassoul (ministro degli Esteri) al contestatissimo ex signore della guerra Abdul Rasul Sayyaf. La sua candidatura ha già sollevato un vespaio e preoccupazioni nella comunità internazionale, cui ieri si è rivolto il Congresso nazionale afgano, associazione di politologi, analisti e attivisti: la esortano a bloccare chi ha violato i diritti umani impedendo candidature sporche di sangue. Il nome di Sayyaf non viene fatto ma è chiaro che il bersaglio è lui in compagnia del generale Dostum, l'ex macellaio di Mazar candidato come vice di Ghani. Che Karzai li sostenga, seppur indirettamente, non è una bella notizia. I due ex leader mujaheddin sono accusati di patenti violazioni dei diritti umani durante la guerra civile. Ma sono uomini potenti e pieni di ottime relazioni (che Ghani e Rassoul non hanno). La partita è aperta.

martedì 27 agosto 2013

KARZAI A ISLAMABAD, LETTA A KABUL

E' durato un'ora il colloquio tra il premier pachistano Nawaz Sharif e il presidente afgano Hamid Karzai, volato in Pakistan quasi senza preavviso dopo mesi di melina nella prima visita di Stato da che il neopremier si è insediato. Al di là della retorica sui buoni rapporti bilaterali - pessimi in questi mesi – i pachistani hanno fatto mostra di apertura definendo “storica” la visita di Karzai. Ma per ora di storico non c'è molto. Karzai ha affrontato la questione del processo di pace coi talebani che si rifiutano di parlare col governo di Kabul. Probabilmente Karzai ha chiesto al Pakistan di fare in qualche modo pressione sui talebani perché accettino di cancellare il veto e non è escluso che abbia caldeggiato un nuovo rilascio di prigionieri talebani per avere nuovi mediatori da convincere. L'anno scorso il Pakistan ne ha rilasciati 26 tra cui l'ex ministro della giustizia Nooruddin Turabi. Chissà invece che Nawaz Sharif non abbia ventilato la possibilità che il Pakistan possa essere la sede dei colloqui di pace anche se per Kabul sarebbe difficile accettarlo. Alla vigilia del viaggio Karzai ha incontrato Enrico Letta da cui ha ricevuto l'ennesima rassicurazione che l'Italia resterà in Afghanistan anche dopo il 2014.

domenica 19 maggio 2013

IL NO DEL PARLAMENTO ALLA LEGGE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE AFGANE

Il decreto legge che nel 2009 era stato siglato dal presidente Karzai e che stabilisce un passo avanti inequivocabile dei diritti delle donne afgane e nel campo delle pene per chi li viola non è riuscito ieri a superare il dibattito parlamentare, necessario a farne legge dello Stato a tutti gli affetti. Così com'è, il dl resta in vigore ma è pur sempre passibile di lunghe discussioni in tribunale e soprattutto di emendamenti come quelli ieri richiesti in aula e che alla fine, dopo un fuoco di sbarramento di mullah e conservatori, ha fatto decidere per un rinvio del dibattito a data da destinarsi. Rinvio che apre la strada a nuove possibili erosioni dei dritti conquistati faticosamente dalle donne afgane.



Col decreto attuale, una coppia non può decidere di dare in sposa la propria figlia prima dei 16 anni di età. Diciotto invece gli anni necessari a una donna afgana per decidere se sposarsi o meno e con chi, una novità nel Paese dove vige la pratica di matrimoni combinati di maschi e soprattutto femmine (spesso bambine) e dove è ancora in vigore la poligamia, benché limitata a “sole” due mogli. Ma gli emendamenti, denunciati dalle attiviste di Afghan Women's Network, la maggior rete di associazioni femminili, vanno ancora più in là perché vorrebbero chiudere la case rifugio faticosamente costituite per le donne in fuga da un matrimonio indesiderato e da una tradizione e pressione sociale oscurantiste, che spesso le spinge al suicidio o forza i parenti all'omicidio d'onore. Infine la legge punisce duramente lo stupro e la violenza contro le donne e da che esiste ha già fatti finire dietro le sbarre non pochi uomini, mariti e non. Un emendamento vorrebbe edulcorare le sanzioni.

In parlamento la discussione è stata aspra: da una parte i partigiani della legge, capeggiati dalla parlamentare del Badakhshan Fawzia Koofi, dall'altro mullah e conservatori le cui tesi, sostenute con il Corano alla mano, sono ben spiegate da quanto ha detto in aula Obaidullah Barekzai, un deputato dell'Uruzgan che ha citato Hazrat Abu Bakr Siddiq, un compagno di strada del Profeta che aveva dato sua figlia in moglie a soli sette anni di età. Sia detto per inciso, in Uruzgan si registra uno dei tassi più elevati di analfabetismo femminile, in Afghanistan ancora di gran lunga superiore a quello maschile.

La discussione in parlamento ha anche creato polemiche nel mondo femminile: molte attiviste avrebbero preferito cercare di bypassare gli emendamenti ed evitare il dibattito in aula, passo per altro inevitabile visto che i decreti presidenziali richiedono alla fine la luce verde del parlamento. Un parlamento tra l'altro che, in questo momento, è sfavorevole e ostile al presidente. La Koofi ha anche spiegato che un nuovo presidente potrebbe cambiare per decreto la legge attuale (Elimination of Violence Against Women Law o Evaw) introducendo de facto gli emendamenti richiesti dai conservatori. Per strizzare l'occhio ai talebani.

lunedì 11 marzo 2013

KARZAI-HAGEL, UNO A ZERO PER IL PRESIDENTE


E' toccato a Chuck Hagel, neo segretario alla Difesa, smentire direttamente a Karzai possibili“back channel” americani coi talebani. Ieri Hamid Karzai aveva lanciato l'accusa sostenendo che statunitensi ed europei trattavano in segreto a Doha avendo tagliato fuori Kabul. Oggi Hagel, a colloquio col presidente, ha risposto la frase di rito: senza gli afgani nessuna trattativa. Ammirevole la tecnica usata da Karzai che, nonostante quel si possa pensare di lui, si rivela un fine politico. Se ha lanciato quell'accusa pubblicamente ha in mano qualche asso e comunque, se mai bluffasse, lo sa far bene. Costringere Hagel a smentire in diretta a Kabul è stata un abile mossa. Intanto la conferenza stampa congiunta dopo il colloquio dei due è saltata. Motivi di sicurezza? Anche, scrive l'agenzia Pajhwok, ma non solo. Ci sono un paio di questioni dolenti su cui evidentemente si fatica a trovare un accordo. La polemica sulle forze speciali americane a Wardak (sulla controversa vicenda accaduta oggi in questa provincia torneremo domani), il passaggio di consegne a Bagram (Karzai insiste che avverrà in settimana), il destino della basi, il numero di soldati che resteranno in Afghanistan. Ma intanto Hamid Karzai mette a segno un altro colpo. Uno a zero per il presidente in una guerra dei nervi con Washington con cui i rapporti sono tesi. Interessante il ruolo dei comprimari (tra cui noi italiani). Silenzio e via. Sembra che ormai sia stata girata la pagina e che Kabul sia un nodo solo per Washington. Con buona pace della politica estera comune ma anche di quella dei singoli Stati che hanno militari tra le forze Nato.

Ps Agli oppositori di Karzai la mossa non è affatto piaciuta a hanno condannato l'uscita di ieri del presidente

domenica 10 marzo 2013

KARZAI A MUSO DURO2

I talebani negoziano con americani ed europei in Qatar senza gli afgani. Parola di Hamid Karzai che oggi ne ha avute per tutti. Per Washington, mentre il capo del Pentagono Chuck Hagel è in visita ufficiale a Kabul, e per i talebani, accusati di favorire la presenza straniera con gli attentati che anche ieri hanno ucciso: 9 civili a Kabul e otto a Khost. Gli americani e i talebani smentiscono ma certo l'uscita del presidente, che da qualche mese a questa parte sta alzando i toni, è l'ennesimo strappo con gli Usa. Karzai vuole che le forze speciali americane lascino la provincia di Wardak, dove avrebbero commesso stragi, vuole che tutti i detenuto sotto tutela Usa passino sotto giurisdizione afgana e infine fa il muso duro sulle basi. Trattativa? Ricerca del consenso? Abile negoziato? E a favore di chi? Il gioco si fa duro nel suo ultimo spicchio di governo del Paese prima delle elezioni presidenziali del 2014.

LE PRIME GRANE DI CHUCK HAGEL A KABUL


Sulla scena dell'attentato
suicida restano alla fine nove corpi. Due sono poliziotti ma gli altri semplici poveracci che andavano al lavoro o ne andavano in cerca. Una scena che si ripete e che questa volta si consuma, nel centro di Kabul, a pochi metri dal Palazzo di Karzai e dalla grande area del mercato sul fiume. Obiettivo: il ministero della Difesa dove un uomo in bicicletta si fa esplodere alle 9 del mattino, ora di punta. Obiettivo politico: il benvenuto a Chuck Hagel, neo titolare del Pentagono. Nella spaventosa simmetria di questa guerra selvaggia, qualche centinaio di chilometri più a Sud, nella provincia orientale di Khost, altri due attacchi suicidi: il primo in campagna, il secondo nella capitale di provincia. Obiettivo nei due casi la polizia afgana ma il risultato è simile a quello di Kabul. In città due bambini se la cavano con qualche ferita, ma fuori dal perimetro urbano otto loro piccoli coetanei vengono ammazzati dal kamikaze che si porta via anche un poliziotto.

Se Chuck Hagel voleva quel che si dice il suo “battesimo del fuoco” (era già stato a Kabul ma è la prima volta da ministro) l'ha trovato. Il neo segretario alla Difesa, che Obama ha sudato sette camice a nominare, arriva nella notte di venerdi. In agenda ha gli appuntamenti di rigore con Karzai e il suo omologo Bismillah Mohammadi. Hagel, che pur avendo un passato repubblicano si è distinto in passato per essere un fautore dell'exit strategy dall'Afghanistan e uno dei pochi che denunciò l'epopea guerriera del presidente Bush, voleva farsi un'idea di persona. Eccola qua: i talebani gli mandano a dire che conoscono così bene le sue mosse da presentargli il conto appena arrivato.



Ma dietro quella che è ormai la tragica routine del Paese e la consueta prova di forza a colpi di bombe dei talebani (non è la prima volta che accolgono così le visite ufficiali appena le intercettano) c'è anche un altro punto controverso. E che forse ha anche qualcosa a che vedere con la sanguinaria azione di ieri mattina.

Il 9 marzo era infatti il giorno in cui gli americani avrebbero dovuto fare, con una cerimonia importante, il definitivo passaggio di consegne della Parwan Detention Facility anche detta Bagram Theater Internment Facility e assai più nota come “prigione di Bagram”. Bagram è l'ex mega base sovietica, ora in mano americana, che domina una piccola cittadina a 70 chilometri da Kabul. Tra gli hangar in disuso per elicotteri e Mig i marine ne riadattarono uno prigione. Ma anche a luogo di tortura e interrogatorio per talebani o presunti tali che non godevano nemmeno del titolo di “prigionieri di guerra”: uno scandalo cui è stato messo rimedio con nuove costruzioni accanto alla base ora dirette da un generale afgano. Karzai ha fatto della giurisdizione sui questi uomini un punto d'onore e, alla fine, gli americani, un anno fa, hanno ceduto. Ma il passaggio di consegne che doveva completarsi ieri è saltato. Perchè?

La bomba del mattino non c'entra ed è semmai una reazione alla decisione. E la cancellazione non ha spiegazioni ufficiali. Una la dà il New Yor Times. Agli americani non è piaciuto che Karzai mercoledì scorso abbia pubblicamente criticato la lentezza nel passaggio di consegne ma soprattutto che abbia reiterato la promessa, già in parte operativa, di liberare un buon numero di detenuti appena consegnati alla giustizia afgana (un modo anche per distendere i rapporti con mullah Omar). L'agenzia Pajhwok, sostiene invece che ancora l'accordo non c'è, sebbene la cerimonia fosse in calendario e la stampa pronta per raccontarla.

Gli afgani accusano Washington non solo di aver trasferito solo 3000 dei 3082 prigionieri di Bagram (tra cui ci sono 50 non afgani) dalla prigione americana a quella afgana ma affermano che ci sarebbero altri 600 sospetti ancora in mano loro, ossia uomini che gli americani continuano a catturare e che prima vogliono interrogare. Insomma il caso resta controverso e per ora la marcia si è fermata. Come resta ferma quella sulla riconsegna delle basi o sul loro destino dopo il 2014 quando teoricamente la Nato se ne andrà. Non tutta: secondo James Mattis, a capo dell'United States Central Command (Centcom), in Afghanistan resteranno 20mila soldati. Tredicimila americani e il resto forniti dalla Nato. Quanti dall'Italia?

lunedì 4 febbraio 2013

LA TRILATERALE AFPAK E I DESIDERATA DI LONDRA


La cena che il primo ministro britannico Cameron ha organizzato ieri sera per Hamid Karzai e Asif Zardari è stata la preparazione della “trilaterale” di oggi nella capitale britannica che Londra caldeggia tra Pakistan e Afghanistan sotto la sua ala protettrice. Ci sono già state due riunioni di questo tipo sia a Kabul sia a New York ma onestamente non si capisce bene cosa questi meeting possano produrre se non l'evidente tentativo di Londra di avere ancora un peso nel futuro nelle sue ex colonie. Infatti, se pur l'Afghanistan non è mai stata una colonia territoriale della Corona britannica, le guerre anglo afgane, che sancirono l'espulsione degli occupanti dell'Union Jack, sancirono anche il controllo di Londra sulla politica estera di Kabul. Gli afgani vincevano la guerra delle armi, gli inglesi quella della diplomazia.

Islamabad e Kabul guardano da sempre a Londra con sospetto. I pachistani sanno che i britannici amano più l'India del Pakistan e gli afgani non hanno mai digerito gli appetiti british sul loro Paese. Forse non amano tanto gli americani e sono abbastanza indifferenti agli italiani, ma è certo che detestano gli inglesi. Dunque cosa spera o può ottenere Londra da questa trilaterale? E cosa afgani e pachistani? Molto poco. Si, certo, che afgani e pachistani si incontrino va sempre bene, sono pur sempre misure di confidence building, ma non è Londra che aiuterà il processo di pace in Afghanistan che dipende, purtroppo, in larga misura da ciò che fanno (male) gli americani.

Del resto sia Karzai sia i suoi uomini hanno messo le mani avanti. Il presidente in maniera sfumata in un'intervista alla Bbc pashto. Ma il portavoce del ministero degli Esteri Janan Mosazai è stato chiarissimo: “No one except the government and the High Peace Council has the competency for direct talks to the Taliban”. Non credo serva una traduzione. Questa uscita (sabato) alla viglia della trilaterale sembra voler dire chiaramente agli inglesi una cosa: fatevi da parte. Almeno voi.



domenica 13 gennaio 2013

COSA SI SON DETTI KARZAI E OBAMA

Cosa si sono detti Barak Obama e Hamid Karzai nell'incontro di venerdi scorso a Washington? Se ne sa poco per non dire nulla, stando al comunicato emesso dalla Casa bianca alla fine dei colloqui e così riassunta dall'Agenzia italia: “AGI) - Washington, 11 gen. - La presenza di un contingente ridotto di soldati Usa in Afghanistan dopo il 2014 e' "possibile" anche dopo il completamento delle operazioni di ritiro del grosso delle truppe (al momento a quota 66.000). Così un comunicato della Casa Bianca al termine dell'incontro tra il presidente Barack Obama e l'omologo afghano Kamid Karzai. Nei giorni scorsi il Pentagono aveva fatto filtrare, come possibile elemento di pressione su Kabul, l'eventualita' che come in Iraq anche in Afghanistan sarebbe stata possibile la cosiddetta "zero option", secondo la quale neanche un militare americano sarebbe rimasto dopo il termine della fine del 2014".

Tutta l'attenzione si è concetrata sui numeri del ritiro dopo che l'8 gennaio Ben Rhodes, vice national security adviser alla Casa Bianca, ha detto che esiste una “opzione zero” dopo il 2014. Ma stando a diversi osservatori (l'Economist ad esempio) il ritiro non sarà completo. Si fa la cifra di 6mila uomini contro i 15mila proposti dall'ex capo della Nato in Afghanistan John Allen che aveva comunque rivisto al ribasso la stima proponendo poi una forza compresa tra le 3mila e le 9mila unità (contro le stime di chi dice che ci vorrebbero ancora almeno 30mila uomini: questi ultimi fanno rilevare che una sola delle 23 brigate dell'esercito afgano può operare da sola e, nel contemnpo, i militari afgani lamentano di non avere abbastanza armamenti pesanti né un'aviazione degna di questo nome).

Ma se i numeri del dopo 2014 non sono sicuri, c'è altro. I due si sarebbero accordati su almeno tre cose: il famoso ufficio talebano in Qatar, una realtà de facto. Il passaggio di consegne all'esercito afgano della sicurezza nazionale per primavera (anziché in estate) e la definitiva giurisdizione afgana sui prigionieri di Bagram (ora sotto sola tutela americana). Resta però un punto: l'immunità per le truppe Usa su suolo afgano. Qui Karzai si deve essere impuntato e le bocce sono ferme.

Per ora non ne sappiamo granché di più né sappiamo quante truppe la Nato deciderà di lasciare e con che ruolo. E l'Italia? Qui è buio totale. Per ora sembra che abbiamo ritirato 200 soldati su 4200. Una palla che passa al nuovo esecutivo.